Il cristianesimo reclama non solamente il nostro amore e la nostra obbedienza, ma anche il nostro stupore e il nostro piacere. Ora, l'uomo fa sempre l'esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande...
del 22 dicembre 2010
           «Ha scritto C.S. Lewis che il cristianesimo reclama non solamente il nostro amore e la nostra obbedienza, ma anche il nostro stupore e il nostro piacere. Ora, l’uomo fa sempre l’esperienza di vivere, ma spesso in maniera distratta, poco attenta allo stupore e alle domande…».Il gesuita Antonio Spadaro è uno che colloquia abitualmente con i grandi della letteratura. Ne conosce benissimo pregi e difetti e la confidenza con la quale ne parla gli consente di renderli vivi anche dopo secoli.
           Nel suo ultimo libro, Nell’ombra accesa. Breviario poetico di Natale ha colto nei versi di cinquanta poeti, diversissimi tra di loro, l’attesa e lo stupore che ci aiutano a contemplare l'evento che ha cambiato la storia duemila anni fa: la nascita del Dio-Bambino.
           Ci apprestiamo a celebrare il Natale. Lei sostiene (sulla scia di Leopardi) che per poter assaporare una festa è necessario sperimentare una quiete. Quale?
           «La festa leopardiana, quella de La quiete dopo la tempesta, è una festa di quiete. Il paesaggio dipinto nella celebre poesia prima è raggrinzito, poi si distende e… “ogni cor si rallegra, in ogni lato”. Il cuore coglie la quiete e si rallegra. Non fa “festa”, si rallegra. Festeggiare non significa far baccano: significa rispondere visibilmente e sonoramente a una quiete che genera allegria. Quando infatti abbiamo veramente fatto festa? Quando la festa ha corrisposto a uno scampato pericolo, a un sentimento profondo ricambiato, al raggiungimento di un obiettivo: tutte cose che implicano la conquista di una quiete, di un appagamento che distende il nostro “paesaggio” interiore. Allora in quel momento è proprio questa profonda quiete a solleticare in noi la voglia di schiamazzare, perché ci sentiamo più liberi».
           Altro che quiete…Lei anche nel suo vibrante libro “Svolta di respiro” (Vita e Pensiero, pp. 236, euro 18) uscito quest’anno, denuncia la frenesia del mondo contemporaneo e invita a recuperare una certa passività. In che modo essere “passivi” è una virtù?
           «La passività ha senso se è accogliente e contemplativa, altrimenti è un vizio. La passività di cui parlo consiste nel riuscire a farsi incontrare dalle cose. Se questa passività viene totalmente cancellata, non c’è neppure lo spazio perché qualcosa di “nuovo” possa nascere nella vita di una persona. Il recupero della vera e buona “passività” necessariamente si accompagna al senso del “limite”, al necessario riconoscimento che in nessun caso l’uomo può essere davvero padrone del proprio destino. Il limite rafforza la nostra capacità di fare esperienza: solo così l’esperienza resta in grado di sorprenderci».
           Abbiamo dunque perso la capacità di stupirci?
           «Se non ci poniamo appassionatamente la domanda su cosa vogliamo da questa vita non riusciamo a goderne fino in fondo, in maniera piena, direi quasi “metafisica”, e non solamente superficiale e fugace. A volte sembra che ci siamo convinti che il piacere sia fuggevole e caduco perché abbiamo perso la nozione di beatitudine come stato di vita. Insomma ci siamo persi per strada il paradiso e la sua stessa nozione. La capacità di stupirsi deriva all’uomo quando vede la realtà in trasparenza alla luce della sua origine o del suo destino ultimo…».
           In che senso?
           «La coscienza cristiana è intrinsecamente “geniale” perché ha memoria viva della creazione, lega ogni cosa alla sua fonte originaria che sa essere un Creatore. Il genio è come un uomo che attinge acqua alla sorgente e non al rubinetto. L’acqua sgorga senza regole e canali ma con la forza e la purezza dell’inizio. Chi ha perso il concetto di creazione e di paradiso vede la realtà, ma rischia di vedere solo un’ombra fugace, un’ombra “che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro”, direbbe Montale.
           Lo stupore significa cogliere, come scrisse il poeta Gerard Manley Hopkins, “la più cara freschezza che vive in fondo alle cose”, quella che le accompagna dall’origine al destino, la loro “anima”. Tutto stupisce, anche esteticamente o eroticamente, perché è “animato” nella sua maniera propria: dalla pietra al corpo umano. Nel momento in cui una cosa (o una persona) è ridotta a rango di “oggetto”, allora cessa di attrarre l’attenzione e di suscitare stupore. Ma è colpa degli occhi non della realtà».
           Come la letteratura può allora essere utile?
           «Il premio Nobel irlandese Seamus Heaney direbbe, citando il titolo di una sua raccolta, che si tratta di imparare a “Seeing Things”, a “veder cose”. Ma l’espressione in inglese significa anche “avere visioni”. La densità di visione è tipica dell’ispirazione creativa di cui l’uomo ha bisogno per vivere appieno la sua vita. Occorre imparare a “vedere un mondo in un granello di sabbia, / e un cielo in un fiore selvaggio”, come scrive William Blake. L’arte riesce a far “esplodere” il granello di sabbia grazie alla potenza della sua intuizione. L’arte fa vedere le cose nel modo della visione e dunque restituisce uno sguardo nuovo, fresco, “ingenuo” su ogni cosa. Persino sulla tragedia e sul dolore. Dunque le parole letterarie aiutano a scoprire in ogni cosa il loro nucleo caldo».
           Lei insiste sul valore dell’attesa. In che modo la venuta di Cristo può esaudire le attese anche dei non credenti?
           «Noi viviamo uno squilibrio misterioso, un “misterioso zoppicare”, come scrisse il teologo Henri De Lubac. Da una parte, come creatura, sperimentiamo in mille modi i nostri limiti; dall’altra ci accorgiamo di essere senza confini nelle nostre aspirazioni. La sete d’infinito che l’uomo reca nel suo cuore, non può venir saziata all’interno del mondo, da cose contingenti. Allora la condizione umana è radicalmente di attesa.
           Così il Dio cristiano ha deciso di non considerare un tesoro prezioso la sua divinità e ha assunto la condizione umana, facendosi bambino. Questo bambino che festeggiamo a Natale, condensa in sé, come un piccolo seme, tutto l’arco teso delle speranze e dei desideri di ogni uomo. Da quel momento che chiamiamo Natale, ogni gesto umano di speranza è in grado di contenere il germe della fede».
           Quale poeta è riuscito a esprimere meglio lo stupore di un Dio bambino?
           «Cito ancora Hopkins, un poeta straordinario tanto quanto poco conosciuto in Italia (del quale ho curato per Rizzoli un’antologia). Hopkins è il fondatore della lingua poetica inglese contemporanea. Lui vedeva in fondo a tutte le cose una certa freschezza, un cuore pulsante e vigoroso.
           Tutta la realtà per lui è elettrica. Tutto è percorso da una scossa. Hopkins intuisce che il mondo è come “carico della grandezza di Dio”. Essa addirittura fiammeggia. La grandezza di Dio scuote e fa vibrare, imprime guizzo e slancio esuberante, sempre in movimento, mai in stallo. È questo lo stupore tenero e al contempo “numinoso” che promana da un Dio bambino».
Antonio Giuliano
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