Altra intervista del 2008, in ricordo dell'ex calciatore malato di Sla, i cui Funerali si sono tenuti due giorni fa.
È la sera del 18 aprile 1990. Lo stadio di Monaco di Baviera è gremito di tifosi. Si gioca la semifinale della Coppa dei Campioni tra Bayern e Milan. Gli italiani hanno vinto all’andata. Ma il Bayern segna riaprendo i giochi. Si va ai supplementari. Dieci minuti e Stefano Borgonovo, centravanti, entrato nel secondo tempo, con un pallonetto scavalca il portiere tedesco Aumann. Quando la palla cade nella rete, Stefano è già a braccia alzate. In finale il Milan vincerà contro i portoghesi del Benfica.
Quando, per caso, mi sono imbattuto nella sua vicenda, i ricordi sono andati a quella sera di 18 anni fa. A quell’eccitazione che riempie la testa di un ragazzino allora dodicenne, per quel gol atteso, e poi segnato dall’ultimo entrato. A quel gusto di eroico che può fargli desiderare di essere un giorno al suo posto, calciatore in una grande squadra, capace di fare emozionare la gente.
Corpo e cervello
Penso a questo mentre seguo la macchina con i giovani infermieri che vanno a trovarlo, a casa sua, nel cuore della Brianza, dove Stefano è nato 44 anni fa. È tornato a casa settimana scorsa, dall’ospedale Niguarda di Milano, dopo sei mesi di ricoveri al Nemo. È il reparto dove vengono assistiti i malati di sclerosi laterale amiotrofica e altre malattie neuromuscolari.
Stefano oggi è malato di Sla. Non si muove più. Respira e si nutre grazie alle macchine, sdraiato su un lettino. La malattia impedisce al cervello di comunicare con il resto del corpo, come un ciclista che pedala su una bicicletta senza catena. Conosciuta anche come “Morbo di Lou Gehrig”, è una malattia che progressivamente colpisce i motoneuroni, le cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che consentono i movimenti. Non se ne conoscono le cause. Non esiste cura. Si può solo rallentarla, allontanando la morte. Con Maria, Antonella e Pietro, infermieri che gli sono diventati amici durante il ricovero al Nemo, suoniamo al citofono. Arriva anche Paolo, fisioterapista poco più che ventenne, che lo ha assistito. Ci accoglie la moglie, Chantal. È appena tornata dall’asilo dove ha recuperato Gaia, 5 anni. La più piccola dei quattro figli. Stefano è sul letto e appena rivede gli amici gli si apre un sorriso sulla faccia. Pochi secondi e una voce metallica esclama: «Ciao ragazzi». È la nuova voce di Stefano: un sintetizzatore legge per lui quello che digita su uno schermo con gli occhi, attraverso un sistema a infrarossi che interpreta i movimenti delle pupille. Di fianco a lui una grande libreria, piena di cd e dvd. «Pietro, scorri l’anta. Guarda in alto. Scatola bassa», “dice” Stefano. Dentro, tante foto, tanti ricordi. E un pacchetto di figurine di quando giocava nel Milan, da regalare agli amici. Con “Chanty” guardiamo le foto di Stefano, durante una cena, al mare, in allenamento… «Vedete quanto era bello Stefano», e ridendo le allunga alle ragazze. Oggi è lei che lo accudisce, insieme ai figli che la aiutano.
«Tutto questo è vita»
Stefano scherza con gli infermieri. Chanty porta da bere, c’è anche un amico di infanzia che si riconosce in una foto inquadrettata, tra altri dieci ragazzini di una squadra della parrocchia. La finestra è spalancata, dietro il letto. Lui sta lì, immobile. È felice.
Mi siedo vicino, in modo da leggere quello che scrive sullo schermo. Tutto è cominciato nell’ottobre 2005: «Un giorno mi sono accorto che non riuscivo a dire alcune parole», spiega. Allenava da tre anni le giovanili del Como, dove aveva iniziato la sua carriera. Aveva da qualche tempo aperto una scuola calcio, la Extrasport, nella zona dove abita, dopo essersi ritirato dai campi di gioco. «All’inizio ero confuso e spaventato, ma c’era la mia famiglia, e miei amici che mi hanno aiutato molto. E poi il mio carattere…». Stefano è un vulcano di vitalità. Mentre mi racconta, come può, la sua storia, continua a scherzare con i ragazzi. Ha un tatuaggio che raffigura Peter Pan, come il simbolo della sua scuola calcio. «Sai, il calcio per me è stato un terzo genitore, mi ha insegnato tanto, mi ha fatto crescere, grazie anche ad alcuni grandi uomini che mi è capitato di incontrare nelle squadre in cui ho giocato». Partito dal Como, poi alla Sambenedettese, quindi il periodo d’oro a Firenze e a Milano, con alcune presenze nell’Italia, nel 1989. Poi Udinese, Pescara… e di nuovo Como. «Ricordi i miei gol?». Era un acrobata: rovesciate, tuffi di testa, molto veloce. Gli occhi di Stefano, scuri, profondi, vivaci sono gli stessi di allora. Che vita è questa, Stefano? «Ma come? Guarda Chantal. Guarda i miei figli… Amore». «Ciao papà», risponde Gaia senza distogliere gli occhi dal libro che sta sfogliando sul divano: «Questa è vita», dice lui. I ragazzi del Nemo stanno ridendo per una vecchia foto di Stefano che “sfotte” Roberto Baggio… «Guardali! Questa è vita». Gli amici, la scuola calcio, i film, la musica. «Tutto questo è vita».
Traguardi da raggiungere
L’interruttore del respiratore è lì, vicino al letto. Eppure c’è chi al tuo posto staccherebbe la spina, chi dice che non è una vita che vale la pena di essere vissuta… «Gli direi questo: proteggi i doni dell’infanzia, conserva la capacità e la disponibilità di lasciarti affascinare. Se non è così, allora uno stacca la spina. Ma è un egoismo…». E poi, aggiunge ridendo, chi può dire che non trovino la “penicillina del 2008” per la malattia? «Io ho grandi progetti per il futuro, ancora tanti traguardi da raggiungere. Prima di tutto voglio vedere i miei figli crescere, studiare, sistemarsi». E scherzando cerca di piazzare il più grande, Andrea, 20 anni, con Maria, l’infermiera… «Sto anche scrivendo un libro», con lettere, pensieri, riflessioni.
«Voglio aprire una fondazione a mio nome, per raccogliere fondi. È necessario che noi ammalati possiamo vivere con strumenti come quello attraverso cui parlo con te. Per questo ho deciso di riprendere i contatti con tanti del mondo in cui ho vissuto per anni. Ho appena contattato Braida del Milan per parlare con Galliani, per esempio. E qualcuno, come il presidente dell’Udinese Pozzo, mi ha già risposto».
Mi mostra il suo lavoro sul computer, le sue lettere… dice che ha un sacco di cose da fare. Sono passate due ore da quando siamo arrivati. Mentre ci salutiamo guardo ancora la finestra aperta. E in macchina torno a pensare a quel gol, a quel ragazzino che lo vedeva come un eroe. Dopo diciotto anni ho scoperto la verità. Era solo un uomo. Un vero uomo.
Paolo Perego
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