Noi non possiamo fare tutto: dobbiamo lasciar parlare Dio, lasciarlo divenire presente. Allora lasciare l'altro non è soltanto una presa di coscienza dolorosa che noi non possiamo far tutto, lasciare è la gioiosa celebrazione di una certezza: Dio è colui che rimane mentre noi ce ne andiamo.
del 01 gennaio 2002
Guida alla lettura
Che cosa significa, in profondità, “avere compassione”? Stare vicino a chi soffre, e continuare a credere che ne valga la pena anche quando non vediamo alcun risultato, alcun apparente miglioramento. Ma significa anche non pretendere di essere onnipotenti, e di riuscire a far fronte da soli all’immensità del dolore che vediamo ogni giorno intorno a noi. «Noi siamo esseri umani, solo Dio è Dio», avverte con lucidità Henry Nouwen, sacerdote olandese impegnato nell’assistenza ai disabili. Possiamo e dobbiamo combattere i sensi di colpa che ci assalgono quando non riusciamo a fare tutto ciò che vorremmo per coloro che ci sono affidati. Anzi, in un approccio alla vita davvero ispirato dal Vangelo, la nostra assenza non è solo l’inevitabile conseguenza di un’amara finitudine, un disvalore, un limite da tollerare a malincuore. Al contrario, il nostro accettare di farci da parte, il riconoscere con serenità che non tutto dipende da noi (certo, dopo aver speso con slancio ogni energia e rinnovando di giorno in giorno il nostro impegno) può creare lo spazio in cui la compassione stessa di Dio, infinitamente più potente ed efficace, si fa presente nella vita del malato: «Dio è colui che rimane mentre noi ce ne andiamo».
E’ evidente che una visione di questo tipo ha pienamente valore solo per chi concepisca Dio non come un concetto astratto, inconoscibile e indimostrabile (o come un doloroso inganno), ma come realtà viva e operante fra gli uomini. Solo così, infatti, si può arrivare a vedere, nel limite, un’opportunità, la “gioiosa celebrazione di una certezza”.
Tuttavia, ci sembra che questa sapienza della compassione, soprattutto laddove ci mette in guardia dal delirio di onnipotenza, possa essere eloquente anche per chi non ha fede, ma impegna se stesso in nome del principio etico della solidarietà: un principio, ricordiamolo, che prima di essere “religioso” è innanzitutto autenticamente umano. Per questo motivo dedichiamo il brano a tutti coloro che ogni giorno, quale che sia il loro credo, operano con dedizione al fianco dei sofferenti.
«Come esercitare nelle nostre vite il ministero della compassione? Da un punto di vista strettamente teologico esercitare un ministero non consiste nel fare ciò che fa Dio; piuttosto nel vivere in modo tale che la compassione di Dio si manifesti nelle nostre vite e in quelle degli altri, che la nostra vita riveli, renda visibile, faccia scoprire la compassione di Dio. Dio è presente oggi, anzi in questo momento stesso, e vogliamo che altri facciano l’esperienza della sua presenza, una presenza che guarisce, conforta, consola. In questo consiste il nostro ministero di compassione: nel manifestare, rivelare, rendere visibile la compassione di Dio, di questo Dio onnipotente che è diventato vulnerabile. Ma in che modo possiamo far questo? Come possiamo manifestare la compassione di Dio senza agire come se fossimo Dio?
Noi manifestiamo la compassione di Dio con il nostro desiderio di essere presenti agli altri. Ecco uno dei mezzi di guarigione più potenti: la nostra capacità di essere presenti agli altri. Dobbiamo prendere pienamente coscienza di questo potere di guarigione che ci è affidato. Noi manifestiamo la compassione di Dio quando crediamo che vale la pena di essere con un altro anche se non possiamo far nulla, anche se non vediamo nessun risultato, anche se non constatiamo nessun cambiamento (...)
Ma possiamo manifestare la compassione di Dio anche con la nostra assenza... Molti di noi si sentono in colpa di non poter fare abbastanza per gli altri. Abbiamo i nostri impegni personali che ci prendono molto tempo e spesso siamo coscienti dei bisogni di tanta gente, dei loro problemi, delle loro sofferenze, e ci rendiamo conto continuamente di non fare abbastanza per loro. Dovremmo vederli più spesso, andarli a trovare, essere maggiormente presenti, fare di più... e a poco a poco la nostra vita interiore si sovraccarica di sensi di colpa. La nostra vita è piena di promesse che siamo incapaci di mantenere. E ci sentiamo a disagio. Continuiamo a ripetere agli altri di sentirci in colpa per non riuscire a mantenere le promesse. Non siamo con loro, in realtà, ma con il nostro senso di colpa. Ci torturiamo di non essere Dio. E questa convinzione che dovremmo fare di più, essere migliori, rispondere a tutte le esigenze dell’evangelo, fa parte della nostra cultura, del nostro modo di vivere. Ma non è ciò che ci mostra l’evangelo.
L’evangelo ci dice che Dio solo è compassionevole, non noi. A noi spetta unicamente rivelare la sua compassione, e non solo con la nostra presenza, ma anche con la nostra assenza. Quando lasciamo l’altro, infatti non facciamo che riconoscere che noi siamo umani e che Dio solo è Dio. Attraverso i nostri limiti diventa manifesta la compassione di Dio. Noi non possiamo fare tutto: dobbiamo lasciar parlare Dio, lasciarlo divenire presente. Allora lasciare l’altro non è soltanto una presa di coscienza dolorosa che noi non possiamo far tutto, lasciare è la gioiosa celebrazione di una certezza: Dio è colui che rimane mentre noi ce ne andiamo. E’ quanto ha detto Gesù ai suoi discepoli: «E’ bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore» (Gv 16,7). In altre parole: «Ho vissuto la vostra vita, ho sofferto e sono morto con voi. Vi resto presente. Ma è bene che me ne vada, perché con la mia partenza vi rivelerò chi sono io e chi è Dio».
C’è qui l’essenziale del nostro ministero: noi riveliamo Dio non solamente con la nostra venuta, ma anche con la nostra partenza».
Biografia
Henri Jozef-Machiel Nouwen (1932-1996) è stato un sacerdote cattolico olandese, autore di apprezzate opere sulla vita spirituale. Nel corso della sua intensa attività, ha tenuto numerose conferenze presso le università statunitensi di Notre Dame (Indiana), Harvard, Yale, e presso il Seminario Teologico dell’Ontario, in Canada.
Le riflessioni sulla compassione e sull’aiuto a chi soffre nascono in modo particolare dall’esperienza di pastore della comunità “L’Arche” di Toronto (Canada), che fa parte di una rete di oltre 130 centri sparsi in tutto il mondo: in essi, i disabili condividono ogni aspetto della vita quotidiana con le persone che li assistono.
Afflitto da gravi e ricorrenti crisi depressive, ha sempre cercato di conciliare il male di cui soffriva con la propria fede. Il suo pensiero teologico è oggi considerato uno dei più profondi espressi dal Cattolicesimo nel secolo scorso.
Tratto da:
Henry J.-M. Nouwen, Réflexions sur la compassion, in Vie consacrée, 2 (1983), pag. 103-106 in: Comunità Monastica di Bose (a cura di), Letture dei giorni, Piemme, Casale Monferrato 1994, pag. 953-955.
Henri Jozef Machiel Nouwen
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