“Possiamo seppellire un cadavere, ma non una palabre, cioè una disputa”. Martin Nkafu Nkemnkia, docente di cultura, religione, arte e pensiero africano, ha portato la saggezza di un proverbio del Ghana all'interno della riflessione...
del 22 ottobre 2009
“Possiamo seppellire un cadavere, ma non una palabre, cioè una disputa”. Martin Nkafu Nkemnkia, docente di cultura, religione, arte e pensiero africano, ha portato la saggezza di un proverbio del Ghana all’interno della riflessione su “Riconciliazione, giustizia e pace in Africa”, tema del seminario di studio svoltosi lunedì scorso a Roma.
 
L'evento si è tenuto in occasione della II Assemblea speciale per l’Africa del Sinodo dei vescovi, per iniziativa dell’Istituto internazionale della pace “Giuseppe Toniolo” – organismo dell’Azione cattolica italiana – e del Forum internazionale di Azione cattolica (Fiac).
 
Infatti le dispute e i problemi - che non mancano in nessuna famiglia o comunità - non vanno seppelliti, ma affrontati all’interno del contesto sociale.
 
“Ogni atto e comportamento deviante dalla legge naturale-tradizionale – ha spiegato Nkafu Nkemnkia a proposito di “Volontà di pace e perdono nel pensiero africano” – contribuisce alla distruzione dell’unità della comunità, dell’armonia nelle relazioni interpersonali e coloro che se ne sono resi colpevoli necessitano di un’operazione di reintegro nella società cioè di un procedimento di riconciliazione”.
 
Per arrivare alla riconciliazione occorre che l’individuo confessi le proprie colpe alla comunità la quale concede il perdono attraverso un rito – presieduto dagli anziani, resi saggi dalla vicinanza agli antenati - che si conclude con un pasto in un’atmosfera di festa. A volte viene chiesto un risarcimento per il danno arrecato, che varia a seconda delle situazioni e dei paesi. Quando tutto ciò è compiuto, la persona interessata e la comunità devono necessariamente concedere il perdono a coloro che li hanno offesi.
 
“Senza la comunità – ha sottolineato Nkafu Nkemnkia – l’individuo è privo d’identità, sia di quella spirituale che religiosa e culturale”.
 
La giustizia gacaca in Rwanda
 
I tribunali gacaca sono espressione di questa giustizia partecipativa e riconciliatrice.
 
“Gacaca – ha spiegato mons. Servilien Nzakamwita, vescovo di Byumba e presidente della Commissione episcopale per l’apostolato dei laici del Rwanda – significa ‘prato’. Gli adulti di una comunità vi si siedono per ascoltare le persone in conflitto e stabilire quale sia la verità, attribuendo responsabilità e ragioni”. Il colpevole deve riparare il danno e la parte lesa far valere i propri diritti ma entrambi sono tenuti ad accettare la riconciliazione.
 
Ad evitare l’errore di pensare che si tratti di un procedimento giudiziario naive, occorre ricordare che il conflitto etnico scoppiato in Rwanda nel 1994 ha provocato un milione di morti, circa 3 milioni di rifugiati oltre un numero non precisato di orfani e mutilati. Alla fine del conflitto c’erano 120 mila persone detenute in carcere per crimini legati al genocidio.
 
“Nel 1996 – ha raccontato Nzakamwita – fu emanata una legge che istituiva sezioni speciali presso i tribunali penali per l’accertamento e la punizione di questi crimini. Dopo 12 anni, erano state evase 6 mila pratiche su 120 mila. Ci si è accorti che ci sarebbe voluto più di un secolo per giudicare tutti”.
 
La soluzione fu proprio ricorrere alla giustizia gacaca. “Ogni collina – ha aggiunto il vescovo di Byumba – aveva il suo tribunale con giudici di quella collina per accertare crimini compiuti in quella collina”.
 
Il compito dei tribunali era per prima cosa riunire le informazioni su quanto avvenuto, ascoltando le vittime. Gli accusati venivano condotti sulle colline e giudicati; una volta accertatane l’innocenza venivano liberati, altrimenti rimandati in carcere con il capo d’imputazione stabilito dalla legge. Si cercava anche di facilitare il processo di ammissione della colpa (per la quale sono previsti benefici di pena) e della richiesta di perdono alle vittime o alle loro famiglie.
 
“L’obiettivo – ha affermato Nzakamwita – era ridurre la durata dei processi, sradicando la cultura dell’impunità per ricostruire il Paese e dare fiducia ai ruandesi sulla loro capacità di risolvere i propri problemi”.
 
“La situazione oggi del Rwanda – ha concluso Nzakamwita – dimostra che la riconciliazione è possibile e che ognuno si adopera per questo obiettivo”.
 
Le commissioni per la verità e la riconciliazione in Sierra Leone
 
“E’ difficile dire cosa sia scattato in una popolazione di indole tanto gentile così da portarla a compiere violenze inaudite”. Mons. Giorgio Biguzzi, vescovo di Makeni e presidente della Conferenza episcopale di Gambia e Sierra Leone, non ha risposte semplici a proposito delle violenze scoppiate in Sierra Leone dieci anni fa.
 
“Non si è trattato sicuramente né di motivi religiosi né di motivi etnici perché nelle famiglie sono comuni le appartenenze a tribù e religioni diverse; piuttosto lo sfociare violento di una situazione di malcontento diffuso dovuto alla situazione sociale precaria in uno Stato in cui non era più assicurato il funzionamento di nessuna struttura pubblica”.
 
In quella situazione “il consiglio interreligioso composto da rappresentanti dei musulmani – che sono la maggior parte della popolazione – e dei cristiani, cattolici e protestanti, è diventata una forza di mediazione con i ribelli, perché godeva di grande rispetto da parte della popolazione che la riteneva capace di ascolto e di dialogo”.
 
“La costituzione di commissioni per la verità e la riconciliazione – ha spiegato Biguzzi – facevano parte degli accordi di pace firmati dal governo della Sierra Leone e il Fronte unito rivoluzionario nel luglio del 1999 in seguito alla mediazione del consiglio interreligioso e dell’Onu”.
 
L’obiettivo era “ascoltare le vittime, appurando la verità dei fatti avvenuti e cercando le cause delle violenze per evitare, per quanto possibile, che si ripetano in futuro”. Le commissioni, inoltre, “formulano raccomandazioni obbligatorie per il governo per riparare i danni causati alle vittime. Oltre ai saccheggi e all’incendio delle case, agli omicidi, molti hanno subito il taglio di una mano o di entrambe e hanno bisogno di risorse per vivere”.
 
“La pace ha il suo prezzo – ha affermato Biguzzi – e le vittime sono quelle che pagano il prezzo più alto, ma se hanno la forza di perdonare questo diventa molto liberante per loro stesse e dà la possibilità di nuova vita”.
 
L'esperienza del tribunale penale internazionale
 
Su un altro modello di giustizia – quella retributiva – si basa un’esperienza relativamente nuova e in evoluzione (i cui precedenti sono i tribunali di Norimberga e Tokio, alla fine della seconda guerra mondiale): il Tribunale penale internazionale che si basa, ha affermato Paolo Benvenuti, docente di diritto internazionale e preside della Facoltà di giurisprudenza dell’Università Roma Tre, “sull’idea di una giustizia per crimini contro l’umanità che deve funzionare a livello ampio e sull’evoluzione della coscienza collettiva rispetto all’impunità”.
 
Nel 1994 è stato istituito ad Arusha, in Tanzania, un tribunale penale internazionale per i crimini legati al genocidio in Rwanda. Sulla scorta anche di questa esperienza si è arrivati, nel 1998, all’approvazione dello statuto di una corte penale internazionale permanente “fondato su un trattato internazionale aperto a una partecipazione tendenzialmente universale”.
 
Lo statuto è entrato in vigore nel 2002 tra i primi 60 stati che lo hanno ratificato; ad oggi sono 110 gli stati che ne fanno parte e tra questi 30 sono africani. Dei 18 giudici che lo compongono, 4 sono africani e provengono da Mali, Uganda, Ghana e Botswana.
 
“Gli africani – ha affermato Benvenuti – con la loro adesione e partecipazione, dimostrano fiducia verso questa istituzione per fare giustizia verso le vittime, nonostante i limiti che ancora ci sono”.
 
Data la sua natura di trattato internazionale, “funziona solo con la cooperazione degli stati che devono modificare le leggi nazionali e anche questo contribuisce a produrre mutamenti nella coscienza collettiva di un Paese. Il Rwanda, per adeguarsi, ha abolito la pena di morte”.
 
L'impegno della Chiesa in Burundi
 
“Il genocidio non c'è stato solo in Rwanda e non si è trattato di una fatalità. La Chiesa è famiglia di Dio chiamata a perdonare ma anche a denunciare, perché non ci può essere pace senza giustizia”. Mons. Simon Ntamiwana, arcivescovo di Gitega e presidente dell'Aceac (associazione conferenze episcopali dell'Africa centrale) ha tracciato la mappa delle situazioni vecchie e nuove che continuano a causare le sofferenze del popolo del Burundi e di tutta la Regione dei Grandi laghi.
 
“I nostri popoli continuano a subire conflitti, miseria, epidemia e l'annientamento dei diritti dell'uomo. Sul nostro territorio si abbattono gli effetti perversi della globalizzazione con il traffico di armi, gli abusi di potere della classe politica che sfruttano le divisioni etniche per arricchirsi, lo sfruttamento delle risorse naturali”.
 
“Cercare la riconciliazione – ha affermato Ntamiwana che ha rimproverato ai media di non mettersi spesso al servizio della verità – significa andare alla radice di questi mali con la fiducia che il dialogo è sempre possibile e la pace è un impegno di tutti”.
 
Nella ricostruzione sociale ed economica del Paese, secondo mons. Evariste Ngoyagoye, arcivescovo di Bujumbura e presidente della Commissione episcopale per l'apostolato dei laici del Burundi, “gioca un grande ruolo la Chiesa, non solo cattolica ma anche protestante. Attualmente sono presenti in Africa oltre 200 confessioni religiose, di cui molte nate negli ultimi anni”.
 
Anche in Burundi è prevista la costituzione di commissioni per la pace e la riconciliazione “perché abbiamo un passato molto pesante con il quale fare i conti. Tutte le diocesi sono impegnate nei sinodi per partecipare tutti insieme alla dinamica della riconciliazione”.
 
Le priorità d'impegno riguardano le famiglie e i giovani: “molti di essi sono stati strumentalizzati e coinvolti nelle violenze. Oggi tornano alle loro case e non trovano più nulla ad aspettarli”. Per aiutarli a tornare alla vita normale “un grande aiuto è venuto dai Movimenti di Azione cattolica che offrono a tutte le fasce d'età momenti di formazione ed occasioni di incontro nello sport o nelle marce per la pace che permettono, insieme anche ai giovani di Congo e Rwanda, di riscoprire la comune umanità e il comune destino di essere il futuro dell'Africa”.
 
La scuola di pace dell'Azione cattolica
 
“L'impegno del Forum internazionale di Azione cattolica nel continente africano – ha affermato Emilio Inzaurraga, coordinatore del Segretariato del Fiac – è continuare a lavorare alla promozione di un laicato maturo capace di assumersi responsabilità significative nella Chiesa e nella società”. Si inserisce in questa attenzione la Scuola di pace realizzata in colaborazione con l'Istituto di diritto internazionale della pace “Giuseppe Toniolo”.
 
“Si tratta di un progetto biennale – ha spiegato Francesco Campagna, direttore dell'Istituto – che prevede moduli di formazione ai diritti umani e alla pace per formatori di giovani ed adolescenti, con sessioni in Burundi, in Italia, in Rwanda, nella Repubblica democratica del Congo e ancora in Italia, a partire dall'agosto 2010”.
 
“Una formazione alla luce della dottrina sociale della Chiesa – ha aggiunto don Salvatore Niciteretse, segretario della Commissione episcopale per l'apostolato dei laici del Burundi e coordinatore del Fiac in Africa – che metta al centro la dignità della persona umana e i suoi diritti inalienabili; una presa di coscienza dell'inutilità politica della guerra e dei costi umani, morali ed economici della violenza armata”.
 
“Poiché riconosciamo – ha concluso Campagna – il forte bisogno di riconciliazione in Italia e in Europa, crediamo che l'esperienza delle chiese africane possa essere feconda anche per le nostre comunità occidentali”.
 
Chiara Santomiero
Versione app: 3.25.3 (26fb019)