C'è ancora spazio per uno sport che si rivela sempre più corrotto e sfacciatamente provocatorio specie in tempo di crisi? Quali sono i valori che l'amato pallone ci trasmette? L'Ocse ha puntato il dito, ma le società hanno fatto orecchie da mercante.
del 12 ottobre 2009
C’è ancora spazio per uno sport che si rivela sempre più corrotto e sfacciatamente provocatorio
specie in tempo di crisi? Quali sono i valori che l’amato pallone ci trasmette? L’Ocse ha puntato il dito, ma le società hanno fatto orecchie da mercante. 
Una nuova stagione di gol e partite sta entrando nel vivo.
Ma, prima di sventolare la bandiera della propria squadra, o di incollarsi davanti alla tv per seguirne le nuove imprese, in Italia e all’estero, abbiamo capito che una domanda da fare è: “Dove si ricicla oggi il denaro sporco?”. Perché una delle risposte più sensate è, purtroppo, “Nel calcio”.
 
Non è una via obbligata, il calcio, ma resta molto appetibile da parte di chi, ai vertici della criminalità organizzata, si pone il problema di come reinvestire i cospicui utili ricavati commerciando in droga, armi, sesso, scommesse illegali, e quant’altro arricchisce le varie mafie del malaffare.
 
È molto più di una chiacchiera da bar, questa tesi di un filo diretto, teso tra i forzieri dello spaccio e del contrabbando internazionale e i libri contabili (occulti) gestiti dal mondo del pallone. Affiora infatti dalle 42 pagine del report elaborato sul tema da una società di consulenza privata, la Fatf – “Financial accontion task force” – su incarico dell’Ocse, l’Organizzazione per lo sviluppo dei Paesi più industrializzati del mondo.
 
Per altro, la notizia di queste relazioni pericolose, diffusasi durante la scorsa estate, ha destato relativa sorpresa. Non solo fra gli addetti ai lavori, ma anche fra tutti quelli che, da semplici appassionati, seguono costantemente le vicende del calcio. Si parla infatti di un mercato ricco, quanto vulnerabile, in balia di qualsiasi attacco proveniente dall’esterno. Un mercato che solo in Europa fattura quasi 14 miliardi di euro, e il cui cuore è costituito da grandi club sempre più esposti, in termini finanziari, ai rovesci di una crisi economica da cui il calcio non viene certo risparmiato. Da qui, da bilanci sul perenne orlo di un crack senza ritorno, nascono gli interessi di chi nel giocattolo, agonistico e spettacolare, del pallone, è pronto a investire fondi, magari ineccepibili da un punto di vista legale, ma di dubbia provenienza.
 
A pochi sfugge come nell’ultimo anno si sia assistito alla moltiplicazione di società, soprattutto inglesi, ma anche italiane e spagnole, messe all’asta, parzialmente cedute, oppure soggette a drastici mutamenti azionari. Una fuga di vecchi proprietari a cui è corrisposto un frenetico valzer di compratori delle più varie provenienze, presentatisi con il nome di singoli o di gruppi di origini ora americane, ora russe, ora arabe, interessati a club come Manchester City, Roma, Liverpool, Sunderland.
 
Alcuni affari sono andati in porto, altri sono rimasti sulla carta. Quanto alla legalità di questi stessi affari, sulla carta può restare indiscutibile, salvo poi mettere in discussione i reali interessi da cui sono in parte mossi, e per conto di chi. Resta perciò l’effetto di un tourbillon tale da nuocere a una trasparenza del pallone già offuscata negli ultimi decenni da scandali, sprechi e doping del più vario genere, non ultimo quello “amministrativo”, che droga entrate e uscite nei bilanci. D’altra parte, come il rapporto pubblicato dall’Ocse mette in luce, il sistema del calcio professionistico offre un’infinità di punti deboli tramite cui infiltrare denaro scottante: sopravvalutazione dei giocatori, stipendi in nero, falsificazione dei libri contabili, imposte evase, falsi diritti di immagine, con relativa proliferazione di un sottobosco di migliaia di sedicenti “manager”, “procuratori” e “agenti” pronti ad attuare le più spregiudicate intermediazioni fra un mercato legale e i fiorenti business del crimine.
 
Detto questo, è anche vero che, in un mondo sempre più difficile e precario, questo amatissimo pallone resta uno dei pochi salvagente a cui aggrappare un nostro bisogno di svago, socialità e leggerezza. Per cui avanti con l’Inter in Europa, con la Juve che ci riprova in Italia, con il Milan delle nuove facce in campo e in panchina, con la Fiorentina nuovamente protesa a fare il “quarto incomodo” piuttosto della Roma o della Lazio. Vero, ma divertirsi resta possibile se non ci facciamo “dopare” a nostra volta, come spettatori passivi, e quindi complici, di uno spettacolo fra le cui quinte affiorano troppe zone d’ombra.
Venendo a un esempio concreto, di fronte a un 8,6% che rappresenta il tasso più alto di disoccupazione fatto registrare dall’Europa negli ultimi dieci anni, e al cospetto di una paralisi economica mondiale di cui ancora non si vedono cure, prima ancora di una soluzione, non possiamo limitarci a incassare certi eventi come passivi telespettatori. Uno è stato la parata allestita allo stadio Bernabeu per la presentazione di Kakà, ventisettenne attaccante brasiliano, fresco acquisto del Real Madrid, trasferitosi dal Milan alla più gloriosa squadra spagnola, che offriva al giocatore un contratto da nove milioni di euro all’anno. Comunque meno dei 90 milioni sborsati per ingaggiare il portoghese Cristiano Ronaldo, l’altro asso, ex Manchester United, acquistato per la nuova stagione dal presidente Florentino Perez.
 
Tutti felici e sognanti i quarantamila convenuti al Bernabeu per il giro d’onore di Kakà, compresi quelli includibili nel 18% di senza lavoro oggi residenti in Spagna, ponendola al primo posto in Europa per il numero di disoccupati. Un autentico schiaffo al buonsenso i colpi centrati al calciomercato dal Real, per un totale di oltre 200 milioni di euro, spesi in una campagna che annovera anche gli acquisti di Benzema, Albiol e Negredo. Un affronto così sonoro ed eticamente intollerabile, da far scendere in campo Michel Platini, presidente della Uefa, che nello stesso giorno del “trionfo di Kakà” dichiara: “Non accetto follie simili. Sono cifre anormali, mi danno fastidio. A parte il Barcellona, buona parte dei grandi club europei sono in profondo rosso. Occorrono regole, bisogna assolutamente introdurre un tetto alle spese”.
 
Per ora sono solo parole, anche se pronunciate da un serio governante del calcio internazionale come fino a oggi si è rivelato Platini. Il quale fa bene a puntare il dito contro un sistema del pallone dove, a prescindere dai giochi finanziari occulti, una politica come questa perseguita dal Real risulta difficilmente difendibile. Non fosse altro per come surriscalda in modo non richiesto un mercato che, guardando il passivo di oltre 900 milioni di euro di un club come il Manchester United, tra i più seguiti del mondo, rischia un tracollo senza ritorno, stritolato fra pericoli di fallimento e di possibili infiltrazioni criminose.
Comunque la si pensi, è un calcio che sembra andare a rotoli assieme a un mondo, economico e sportivo, di cui rappresenta al massimo grado mitologie di successo e di immagine. Un calcio da salvare in un mondo da salvare. Attraverso radicali, chissà quanto immaginabili cambiamenti.
 
Stefano Ferrio
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