L'importanza del reale Venerdì

Abbiamo sempre difficoltà a immaginare il nostro rapporto con Dio. Lui stesso ci consiglia

L’importanza del reale Venerdì

da L'autore

del 01 gennaio 2002

Abbiamo sempre difficoltà a immaginare il nostro rapporto con Dio. Lui stesso ci consiglia

a non far disegni. Meglio accettare il reale come il mezzo con cui Dio ci genera, ci tocca, ci fa crescere. Dio è presente nelle cose, negli avvenimenti, nella storia ed è attraverso i segni che si manifesta.

LODI: salmo 30 – salmo 103 – Cantico di Mosè (Esodo 15)

VESPRO: salmo 40 – salmo 116 – Cantico di Giona (Giona 2)

LETTURE: Deuteronomio, 6-7-8 – Ezechiele,16 – Giovanni 18-19

L’importanza del reale

Un canto ricavato dal capitolo XVIII dell’Esodo dice così:

Faceva caldo quel giorno

quando Abramo stava seduto

davanti alla sua tenda.

Alzando gli occhi guardò

e vide tre uomini in piedi...

Gli stavano davanti...

Appena li vide s’inginocchiò

fino a terra e disse:

‘O Signore mio non passare

ti prego senza fermarti.

Vi porterò un po’ d’acqua

vi laverete i piedi e poi

andrete oltre...

Vi porterò un boccone

vi rifocillerete

e poi andrete oltre...

Non per caso... non per niente

siete passati oggi

davanti a me...

Questa frase che Abramo rivolge ai tre personaggi che passano vicino alla quercia di Mamre in un pomeriggio di sole mi ha sempre impressionato. “Non per caso, non per niente siete passati oggi davanti a me”.

Questa verità

potremmo scriverla su ogni avvenimento della vita nostra

inciderla sulla prima pagina di ogni fatto storico

ricavarla da ogni nostra sofferenza o gioia:

“Non per caso

non per niente

sei passato oggi

davanti a me...”

o dolore

o giorno

o notte

o morte.

Non so se è capitato anche a voi, a me sì. Ho sovente avuto difficoltà a cogliere gli aspetti degli avvenimenti, delle cose, del reale come facenti parte di un tutt’uno dell’azione di Dio su di me o sulla storia degli uomini.

Mi è stato più facile sentire la presenza di Dio in una funzione liturgica che nella lettura del giornale o nell’arrivo di un amico.

L’avvenimento di qualunque natura sia, è più muto di un tramonto di sole o di una notte stellata. Specie se è caotico.

O doloroso.

È su questo tema che misuriamo la pochezza della nostra fede, la povertà della nostra contemplazione sulle strade e, ciò che è più grave, l’ampiezza della nostra alienazione nel fatto religioso.

Il deserto nella città non è facile viverlo proprio perché consideriamo la città fuori dell’orbita di Dio, una specie di agglomerato caotico che sfugge alla sua potenza e dove la sua volontà è inesorabilmente giocata dalla malvagità degli uomini o dall’irrazionalità degli elementi della natura.

Non parliamo poi degli avvenimenti dove si insinua il dolore, il male, la morte. È finita.

Lì Dio non esiste.

Si direbbe che per noi Dio esista solo nella trasparenza delle aurore o nella dolcezza di una festa; non certo in un terremoto o in una malattia che ci porta all’ospedale.

Quando veniamo urtati da un avvenimento anonimo abbiamo la sensazione di essere sorpresi, giocati, dimenticati, feriti.

Il reale diventa negativo, non ha volto, non ha significato, non ci parla.

Contro di esso disponiamo tutte le forze come contro un nemico o un importuno da cui dobbiamo sbarazzarci il più presto possibile.

Se poi questo reale ha una misura un po’ più vasta e va al di là della nostra sopportazione, allora viene colto come prova dell’assenza di Dio.

Com’ è possibile che esista Dio se i bimbi muoiono?

Com’è possibile la sua presenza se gli uomini sono così cattivi e mi fanno così male?

E sono capaci di dichiarare la guerra!

Come sempre è il Vangelo che ci aiuta a capire. Proviamo a leggerlo sotto la luce dell’espressione di Abramo: “Non per caso, non per niente siete passati oggi davanti a me”.

È per caso il censimento dell’impero decretato da Cesare al tempo di Quirino?

È per caso la nascita a Betlemme di Gesù?

È per caso la scelta di Nazareth nella vita nascosta del Figlio?

È per niente che Gesù ha incontrato Pietro, Giacomo e Giovanni?

È per niente che li ha condotti sul Tabor, che ha sedato la tempesta, che ha resuscitato Lazzaro?

È per caso che è stato arrestato?

È per caso che si trovasse ad essere crocifisso tra due ladroni?

È per caso che la terra tremò e il sole non diede più la sua luce?

Questo nascere e morire del Figlio di Dio, questo impastarlo nella storia degli uomini, questo forgiarlo attraverso le contraddizioni, questo sputargli in faccia, questo condannarlo a morte è per caso?

E proseguendo: il discorso della montagna, le beatitudini predicate che legame possono avere col silenzio di Gesù davanti ad Erode e lasciarsi Lui, l’Onnipotente, ridurre all’Uomo dei dolori dalla nequizia degli uomini?

Non c’è nel Vangelo una tremenda unità tra la storia di un poveretto perseguitato dal potere e la volontà del Figlio di Dio di divenire l’Innocente, il Servo di Jahvé?

La sua morte è completamente slegata dalla sua resurrezione e i fatti della sua vita non hanno preparato in lui il personaggio Cristo?

Non sentite l’unità nel Vangelo?

Non leggete negli episodi anche i più banali, negli incontri anche i più fortuiti un’azione precisa e inesorabile della storia che prepara e realizza la vita e la morte del Figlio di Dio?

Ma dove la lezione diventa ancora più precisa è negli atteggiamenti di Gesù dinanzi al Mistero di Dio, dinanzi al Padre.

Gesù come noi non poteva certo essere contento che le cose andassero male, che la verità venisse concussa, che gli innocenti soffrissero, che il male potesse trionfare, che gli affamati restassero affamati, e che gli schiavi restassero schiavi.

Eppure passerà sul quadrante della storia Lui figlio di Dio esattamente come fosse il figlio dell’uomo.

Le cose non cambieranno. I morti continueranno a morire, gli innocenti ad essere schiacciati, gli affamati ad avere fame.

Se resusciterà qualche morto o sfamerà qualche affamato sarà solo per dare un segno a chi poteva capire che erano giunti i tempi messianici e che il nuovo Mosè, Gesù, era con loro, non certo per cambiare le cose ed eliminare dalla vita umana la fatica di lavorare e la sofferenza di dover morire.

Chi voleva far di Lui un taumaturgo che avrebbe risolto i problemi dell’uomo, un guaritore che avrebbe svuotato gli ospedali rimase male e sorpreso.

Chi si attendeva da Lui una missione politica divenuta folgorante e vincitrice con l’introduzione del miracolo negli ingranaggi delle cose normali e al di fuori delle leggi naturali e la fatica quotidiana, si disilluse e lo abbandonò.

Lo abbandonarono i potenti che volevano servirsi della religione e del Messia per consolidare il loro potere.

Lo abbandonarono i perseguitati che non volevano più essere perseguitati e i sofferenti che volevano vendicarsi di chi li faceva soffrire.

Con Lui rimasero i poveri che accettavano di essere poveri, i perseguitati che non volevano perseguitare, i piangenti che capivano il perché del pianto e intravedevano nelle lacrime il mistero del Cristo e la novità delle Beatitudini da Lui predicate.

Ma non solo il Cristo figlio di Dio, l’Onnipotente non volle cambiare le cose, ma nemmeno domandò che fossero cambiate.

Lui poteva chiedere al Padre di togliere la morte dalla vita dell’uomo, eliminare la fame dalla terra, distruggere i prepotenti, far trionfare la giustizia.

Non lo chiese.

Che io sappia chiese una cosa sola: “Padre, sia fatta la tua volontà” (Matteo 6, 10).

Il reale Lui lo vide come volontà del Padre in atto, le cose che passano come un discorso che deve essere letto, gli avvenimenti come segni dei tempi che annunciavano il Regno e ne preparavano la venuta.

Davanti alle cose vere invitò l’uomo a fermarsi e a chiederne il perché.

Davanti al dolore a cercare di capire il motivo della sua presenza.

Ed è allora che l’affamato parlerà dell’egoismo del ricco e della sua ingordigia.

I paesi poveri denunceranno con la loro presenza l’intollerabile prepotenza dei paesi ricchi e le prigioni piene di torturati diverranno la condanna visibile di chi è abbarbicato al potere.

il morente mi avvertirà che la terra non è la mia patria e le conseguenze dei miei errori la giustezza e la necessità dell’espiazione.

Nulla può sfuggire alla molteplicità di questo reale in cui sono immerso e che mi aiuta a nascere ad una vita nuova.

Ciò che conta è vederci chiaro e non è sempre facile leggere negli avvenimenti e nei segni.

Qualche volta possiamo scambiare una pietra in pane e un serpente in un pesce.

Luca ha una parabola cortissima ma abissale nella verità che propone:

“Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce gli darà al posto del pesce una serpe? O se gli chiede un uovo gli darà uno scorpione?” (Luca 11, 11-12).

Tenete conto della somiglianza tra la pietra e il pane – tra il pesce e il serpente – tra l’uovo e lo scorpione! (Il fenomeno si vede soprattutto nei luoghi desertici e con le notti fredde. Lo scorpione si accartoccia e si copre di una peluria bianca che al passante dà l’aspetto di un uovo).

Sembra volerci dire: Figlio mio, io sono padre e non ti do una pietra al posto del pane, un serpente quando mi chiedi un pesce, uno scorpione se hai bisogno di un uovo.

Può darsi che una cosa ti sembri una pietra, ma sta’ attento: non è una pietra, è un pane.

Può darsi che una malattia ti sia apparsa come un serpente, ma era un pesce che ti ha nutrito e corretto.

Una disgrazia è piombata su di te come uno scorpione ma è stato un uovo che ti ha fatto del bene e ti ha nutrito.

“Tutto contribuisce in bene a chi crede in Dio” per chi ha speranza, per chi ama e Dio non può permettere” che il male si avvicini alla tua tenda” se non per trasformarlo in grazia e farlo entrare nel piano della salvezza.

Non per nulla la lettura dei segni dei tempi è una delle cose fondamentali per il cristiano e per la Chiesa!

Per il pontificato di Pio IX, la caduta del potere temporale non era una pietra che gli rompeva i denti ma era pane bianco che la storia offriva alla Chiesa per diventare più bianca e più appetibile.

Per il pontificato di Pio X, i modernisti non erano tutti dei serpenti da schiacciare ma dei buoni pesci che col loro dimenarsi nell’acqua stagnante obbligavano la Chiesa ad uscire dal suo immobilismo ed a prepararsi al Concilio futuro.

Per il Pontificato di Pio XII, il socialismo e le sconfitte politiche dei cosiddetti cristiani non erano scorpioni da temere ma uova sode che l’avrebbero nutrito e aiutato a crescere onde riuscire un giorno a capire che le situazioni di potere possono diventare antievangeliche e che per il cristiano la posizione più esatta è il trovarsi all’opposizione, come il Battista, gridando il suo “Non ti è lecito” (Matteo 14,4).

Ma com’è difficile vederci chiaro nei segni dei tempi e come siamo abili noi cristiani a scambiare la ricchezza materiale in beatitudine e la Beatitudine della povertà e della persecuzione in oggetto da schiacciare o da maledire. .

Ma il Vangelo ci condanna.

Condanna me quando cerco di salvarmi con il trucco delle chiacchiere lontano dalla volontà di Dio, condanna la Chiesa quando si allontana dalla povertà camuffando il suo desiderio di vivere comodamente con la scusa della dignità o con la prudenza della diplomazia.

Mai generazione è stata più capace di capire se sto facendo degli arrangiamenti o se vivo il Vangelo.

Agli arrangiamenti pii e devoti risponde con l’assenteismo e l’indifferenza, al Vangelo vissuto risponde con l’entusiasmo.

Perché sono i fatti che contano, non le parole vuote e usate.

I fatti che diventano segni, profezia.

Vorrei essere Papa per un sol giorno! Forse mi sbaglio ma che gioia proverei a vendere il Vaticano intero al miglior offerente e andare ad abitare in un piccolo appartamento di periferia, meglio ancora in una tenda tra il deserto e la steppa.

Utopia! ?

Certo, ma utopia che fa del bene come tutte le utopie del Vangelo.

E i giovani sarebbero così disposti all’utopia!

Specie oggi.

Può darsi che l’idea di vendere il Vaticano o i suoi Musei per trasformare il ricavato in villaggi per lebbrosi ti abbia entusiasmato come ha entusiasmato me.

Però vuoi vedere dove sta l’illogicità di questo entusiasmo, meglio l’ingiustizia?

Pensando non alle cose degli altri ma alle mie, stasera mi sono accorto che la mia cameretta era più calda di quella dei fratelli con cui vivo, il letto più morbido, la mia vita più comoda.

Con una scusa o con un’altra sono sempre in testa alla fila e, l’ultimo posto lo lascio ai più deboli e ai più silenziosi.

Ciò significa che se fossi Papa, anche per un sol giorno, non saprei fare un bel niente di quel che penso.

Nella Chiesa è troppo facile chiedere agli altri i grandi gesti profetici, la povertà eroica, la condivisione dei beni.

Il difficile è chiederlo a noi, è viverlo noi. Ricordo di uno scrittore dell’America Latina, famoso per le sue proteste e per le sue pagine bellissime sulla tortura e sulla giustizia sociale, sulla rivoluzione da farsi.

Lui stesso mi raccontò che appena giunse la prova per lui e il pericolo di essere arrestato dopo un golpe militare, fuggì dal suo paese col primo aereo portandosi dietro la vergogna per la sua vigliaccheria perché sapeva benissimo di aver lasciato nel pericolo quelli più indifesi e più poveri.

Fratelli, è difficile la testimonianza.

Ed è proprio quando non ne siamo capaci che corriamo il pericolo di nasconderei dietro le belle parole!

Ascoltate le intenzioni che si pronunciano durante la preghiera dei fedeli nei vari gruppi ecclesiali. Sembriamo tutti eroi, tutti decisi a far spogliare la Chiesa delle sue ricchezze.

Ma in noi, i fatti corrispondono a quelle parole?

A che punto è il nostro cammino verso la condivisione dei beni?

Ed è per questo che se non voglio essere retorico, devo dire stasera: “Non se fossi papa ma... se fossi fratel Carlo, cosa farei ora per attuare il Vangelo nella mia vita?”.

Cosa devo fare per rispondere concretamente a Gesù che come a Zaccheo mi dice: “Scendi presto perché voglio venire con te a casa tua.”? (Luca 19,5).

Carlo Carretto

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