Perché, anche se il diritto-dovere ad aver figli sani non è contemplato da alcun codice, visti i processi e le denunce, è come se lo fosse?
del 30 novembre 2009
 
 
«Ho abortito un figlio sano». Un convegno di medici a Roma mette in discussione il mito dell’infallibilità della diagnosi fetale
 
 
 
 
 
Una donna su tre che vive in una delle grandi città italiane fa l’amniocentesi, l’esame del liquido amniotico che è in grado di rilevare le sole malattie legate al numero di cromosomi. Secondo dati Istat, in Toscana nel 2006 sono state eseguite 12 mila amniocentesi su 30 mila parti e più della metà riguardavano donne sotto i 35 anni che, non essendo “a rischio”, hanno comunque eseguito l’esame a proprie spese. Gli ultimi dati Istat disponibili (2008) ci raccontano di un fenomeno che cresce negli anni, se è vero che tra il 1992 e il 2002 i laboratori di genetica medica sono quintuplicati, passando nel giro di due lustri da 87 a 373.
 
«Ma l’aminiocentesi – spiega a Tempi il neonatologo senese Carlo Bellieni, membro della European Society of Pediatric Research – è in grado di diagnosticare pochissime malattie. Le diagnosi prenatali sono, per loro natura, predittive e non sicure». Ma non è questo il messaggio che passa solitamente nell’opinione pubblica che, anzi, di fronte a un’errata previsione è portata a imputare l’errore al medico. è questa una tematica che è stata molto enfatizzata durante il Convegno nazionale del Sidip (Società italiana di diagnosi prenatale e medicina materno-fetale) che è in svolgimento a Roma (18-19 novembre): solo in Lombardia, negli ultimi dieci anni, il 24 per cento dei contenziosi relativi al campo ostetrico-ginecologico sono legati a errori diagnostico-preventivi circa gli identikit del nascituro. Il che significa che in un caso su quattro le donne hanno trascinato in tribunale i medici per non aver saputo individuare le malattie dei figli.
 
Perché, anche se il diritto-dovere ad aver figli sani non è contemplato da alcun codice, visti i processi e le denunce, è come se lo fosse? «In effetti – prosegue Bellieni – la donna vive una sorta d’obbligo sociale sostenuto anche da protocolli clinici che invitano a sottoporsi all’amniocentesi o a pratiche mirate alla diagnosi fetale». Quel che è più grave è che la mentalità selettiva è avallata da false speranze, fomentate da «esami prenatali presentati come strumenti sicuri, zeppi, in realtà, di falsi positivi che portano spesso a scegliere tecniche sempre più invasive. Ma così aumentano per il nascituro sia i rischi di lesione grave sia quelli di morte». Il problema nasce dalla cattiva informazione: «Uno studio olandese dimostra che, quando vengono illustrati i reali pericoli in cui incorre il feto, si riscontra un crollo clamoroso della domanda».
 
C’è di più: la Società internazionale di ricerca sulla sindrome di Down ha pubblicato dei dati che provano che, ogni anno, solo in Inghilterra, circa 400 bambini sani muoiono a causa dello screening invasivo. Per tornare a casa nostra, un’indagine conclusa il giugno scorso dalla Sidip segnala che il 44 per cento dei medici intervistati ha ammesso di non essere riuscito a riconoscere una malformazione durante una diagnosi ecografica su donne in stato di gravidanza avanzato.
 
E ora cosa dirò al suo fratellino?
 
Come rivelato l’anno passato dalle riviste specialistiche American Journal of Obstetrica and Gynecology e Fetal Diagnosis and Therapy le donne non hanno ancora preso consapevolezza dei limiti di tali pratiche, anche perché molto spesso gli operatori omettono di informarle correttamente circa i risultati possibili e il verificarsi di sintomi ansiosi. Basta, però, consultare i siti internet specializzati per rendersi conto delle scarse informazioni che sono fornite agli utenti, anche se un giro sui forum e blog dedicati alle madri gravide, aiuta a capire i turbamenti emotivi che colpiscono chi decide di sottoporsi a queste tecniche. Vi si trovano storie di tutti i tipi: c’è chi «non vede l’ora di fare l’amniocentesi perché finisca l’ansia» e chi è impaziente «che nasca per riscontrarlo con i miei occhi». Poi ci sono vicende alquanto drammatiche, come quella di A. N., che, in seguito ad una amniocentesi, scoprì che uno dei due gemelli che portava in pancia era down. Decise di abortirlo, scoprendo poi che era sano: «E ora che cosa dirò al suo fratellino? Questo è un sistema che ci impone di avere il controllo su tutto, anche sulla vita dei nostri figli».
 
Quando è nata quest’ansia di conoscere la struttura genetica del nascituro (e quindi poi decidere se tenerlo)? I relatori del convegno organizzato dal Sidip parlano di organismi transnazionali che in questi anni hanno pubblicizzato la diagnosi prenatale. Fra i primi sponsor della amniocentesi c’è lo European Human Genetics, giornale che già nel 1984 aveva spronato gli operatori sanitari a consigliare a tutti lo screening, richiamandoli a un «diritto-dovere di rinunciare alla gravidanza nel caso l’esame fosse positivo». La rivista non mancò di sottolineare i risparmi da parte del sistema sanitario sull’assistenza ai bambini con anomalie, mentre lo sviluppo di tecniche accessibili avrebbe rappresentato una fonte di guadagno per gli operatori.
 
Screening inutili
 
Secondo i relatori del convegno le raccomandazioni favorevoli alla diagnosi prenatale sono divulgate dai mass media, ma anche dalle società mediche e dalle istituzioni. Nel 2007 il Collegio dei ginecologi americani ha spinto perché tutte le donne gravide fossero sottoposte a screening. L’anno scorso l’Istituto superiore della sanità inglese ha esortato a divulgare il test combinato che comprende anche l’ecografia e gli esami del sangue, test che entro il 2011 sarà disponibile in Scozia. In Italia le spinte vengono anche da alcuni membri del Comitato nazionale di bioetica: Luisella Battaglia nel 2005 dichiarò che «se oggi c’è la possibilità di prevedere lo stato di salute di chi nascerà, c’è il dovere e non solo il diritto di farlo. è un’etica della responsabilità che i genitori sono chiamati ad osservare, e di cui la scienza ha spostato i confini».
 
Se è possibile che le perplessità circa il business o i pericoli possibili non facciano ricredere chi è disposto ad assumerseli pur di partorire figli sani, i relatori del convegno hanno ricordato uno studio di Atlanta, pubblicato nel 2008 sulla rivista Obstet Gynecol. Negli ultimi trent’anni nel mondo, sebbene siano proliferate tecniche diagnostiche sempre più moderne, la percentuale complessiva di anomalie risulta essere sempre la stessa, con un’oscillazione variabile dal 2,8 al 3 per cento sul totale dei nati vivi.
 
Benedetta Frigerio
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