Di null'altro si parla che della forza della fede, qualunque sia l'identità assunta: che non si confonde col fanatismo e anzi lo esclude in quanto disinteressata. Nel Buddhismo questo disinteresse è coltivato attraverso una disciplina rigorosa...
del 05 ottobre 2007
Possiamo ignorare quasi tutto della storia di quella nazione, che ancora confusamente i più ricordano come Birmania; e pensare genericamente a una dittatura militare non troppo diversa da tante altre che, a diverse latitudini del pianeta, hanno afflitto e affliggono paesi politicamente deboli, per lo più usciti con incerto esito dal colonialismo e sottoposti al predominio di interessi altrui. Altri popoli, di vari continenti, hanno sofferto questa sorte, e cercato in vario modo di resistervi; e da parte di chi in particolare riconosce le proprie radici storiche nella resistenza al nazifascismo, non può mancare una profonda simpatia e solidarietà. Più in generale è lecito pensare che, in un mondo che avvertiamo unificarsi a passi sempre più rapidi, in cui valori come la democrazia e la libertà sono proclamati costantemente, il permanere di condizioni di oppressione palese sia una contraddizione evidente, e perciò un peso non più tollerabile per la coscienza collettiva. 
 
Chi poi appena abbia facoltà di soffermarsi, non tanto sugli eventi, quanto sullo specifico contesto in cui essi si producono, non può evitare di riflettere sulle convulsioni che travagliano, e certo non da oggi, il più vasto dei continenti, quello che ospita attualmente la metà della popolazione mondiale: l’Asia. Quell’Asia che non a caso ha visto e vede svolgersi i maggiori eventi bellici dopo la fine della seconda guerra mondiale: la guerra di Corea, poi quella del Vietnam, e ancora l’interminabile guerra del Medio Oriente. L’Asia ricca non solo di popolazione ma anche di risorse energetiche, indispensabili per la macchina produttiva delle società industriali. L’Asia infine che si sta industrializzando a propria volta a tappe forzate, dal cui grembo emergono nazioni che sono dirette eredi di alcune tra le civiltà più antiche e splendide del mondo, che una travagliata quanto rapida metamorfosi conduce oggi a disputare all’Occidente il predominio nell’economia mondiale.
 
Ecco dunque la Birmania, o Myanmar che dir si voglia (ma questo nome fu imposto dal regime militare), compresa in una più vasta regione comunemente nota come Indocina, in quanto storicamente percepita come terra di confine in cui si sovrappongono le sfere d’influenza delle due più grandi civiltà asiatiche, l’indiana e la cinese. E non a caso l’India e la Cina,  i due giganti economici e politici dell’Asia, seguono con imbarazzo gli eventi birmani, a causa dei coinvolgimenti economici che hanno in quel paese. A dir il vero più la Cina, il cui sistema autoritario costituisce il principale alleato del regime birmano; ma anche l’India, che, pur essendo erede dello spirito di Gandhi e la più popolosa democrazia del mondo, ha dovuto scendere a compromessi con quel regime, non foss’altro che per contrastare l’influenza cinese.
 
Ma infine l’Asia, e questo è ciò che i monaci birmani riportano improvvisamente alla coscienza, è anche la grande patria di tutte le più diffuse religioni mondiali: sia dei monoteismi sorti dal ceppo ebraico, sia delle correnti mistiche scaturite dal cuore dell’India. Il Buddhismo è una di queste correnti. Dominante in India per circa un millennio, mentre si andava diffondendo in gran parte dell’Asia, si è poi pressoché estinto nella sua terra d’origine, continuando invece a impregnare  lo spirito di altri popoli: dalla Cina al Giappone, dall’Indocina al Tibet alla Mongolia.
 
Oggi la situazione storica che il Buddhismo vive è particolare. Mentre da un lato il suo cammino ha raggiunto l’Occidente, dove viene incontro a un’esigenza di ritorno alla ricerca spirituale, conosce proprio in Asia un profondo sradicamento. Soprattutto in Cina la modernizzazione, imposta dal regime comunista, ha comportato un’opera di distruzione di ogni tradizione e radice spirituale. Sotto questo aspetto l’occupazione del Tibet, e il pervicace rifiuto di qualsiasi accordo con il Dalai Lama, è la rappresentazione simbolica di questa violenza che la Cina ha compiuto contro se stessa, disconoscendo la propria anima profonda.
 
Detto per inciso, poiché, proprio in questi giorni in cui si svolgono le manifestazioni dei monaci birmani, il Dalai Lama è stato ricevuto in Germania dalla Merkel malgrado le proteste cinesi, giova ricordare che il sostegno alla causa tibetana è il miglior servizio che l’opinione pubblica internazionale possa fornire a una possibile evoluzione della situazione in Cina, a cui senz’altro concorre la rinascita religiosa attualmente in corso in quell’immenso paese.
 
Veniamo dunque ai monaci birmani. L’immagine più stereotipata che del Buddhismo si ha in Occidente è quella di una fuga dal mondo, una concentrazione su se stessi che esclude l’impegno civile. E’ evidente che quanto accade mostra esattamente il contrario. Mostra che il radicamento nella dimensione interiore della preghiera e della meditazione può dare il coraggio di affrontare sistemi di potere dotati di una schiacciante superiorità materiale. E’ quanto aveva ben capito Gandhi: ciò che comunemente chiamiamo nonviolenza, lui lo indicava prevalentemente col termine satyagraha, traducibile con forza della verità. Cioè solo chi persiste in un rapporto indefettibile con la verità può trovare la forza di operare con efficacia un cambiamento sociale secondo giustizia. La trasformazione sociale ha la sua radice nella trasformazione personale.
 
Di null’altro si parla che della forza della fede, qualunque sia l’identità assunta: che non si confonde col fanatismo e anzi lo esclude in quanto disinteressata. Nel Buddhismo questo disinteresse è coltivato attraverso una disciplina rigorosa, che trova la sua più compiuta manifestazione nella vita monacale. Si tratta di rinunciare non solo agli allettamenti del mondo ma soprattutto a quelli dell’io, meditando sul fatto che quest’ultimo non ha reale consistenza. Io non esisto separato dagli altri e da tutto ciò che mi circonda. Non esisto come separato destino, ma come interdipendenza con tutto ciò che vive e con tutta la realtà. Per questa ragione e con questa consapevolezza tutto quanto accade mi riguarda e sollecita la mia responsabilità. Io sono chiamato al servizio degli altri, a donare me stesso agli altri, a prodigarmi per il bene di chi è inseparabile da me.
 
Questo ci mostrano i monaci birmani, questo è il loro insegnamento. Un insegnamento che i credenti di ogni fede possono accogliere, che fa risuonare dentro ciascuno le corde che gli sono più proprie. Un insegnamento che si comunica a ogni essere umano, in quanto capace di riconoscere in sé, irriducibile a ogni condizione economica, politica e sociale, il nucleo spirituale della propria umanità.
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