Capita che un ospedale da campo vero sia nel cuore di Parigi. Cosa vuole dire essere Chiesa lì?
Di fronte a notizie enormi e drammatiche come quelle di Parigi a volte sono i dettagli ciò che ti resta più in testa. Così in questa lunghissima e dolorosa notte mi ha colpito l'ospedale da campo subito allestito fuori dal Bataclan, il teatro della terribile esecuzione degli ostaggi. Mi ha colpito perché è un'espressione che - dopo la prima intervista rilasciata da papa Francesco, quella a padre Antonio Spadaro per Civiltà Cattolica - è diventata un'espressione ricorrente nei nostri discorsi in casa cattolica. La Chiesa come ospedale da campo per chi è ferito.
Solo che - come ci capita spesso - quell'espressione si è andata addolcendo molto in fretta. Diciamo ospedale da campo, sì, ma ce lo immaginiamo comunque come qualcosa di epico. Una bella immagine ad effetto.
Poi, però - in una notte di novembre - capita che la cronaca un ospedale da campo vero ce lo porti nel cuore di una nostra metropoli occidentale. E ce lo porti nel suo aspetto più crudo: un ospedale da cui si sente nelle orecchie l'eco degli spari dei kalashnikov; un ospedale in cui le ferite sono anche quelle di una pallottola sparata all'impazzata da un gruppo di ragazzini addestrati a un odio cieco e fanatico; un ospedale dove sperimenti l'impotenza davanti ai cadaveri ammucchiati senza poter fare nulla. E allora: quale Chiesa essere qui, in questo ospedale da campo decisamente più scomodo di come ce lo immaginavamo?
La domanda è quanto mai difficile. E il mio è solo un balbettare quello che a me questo momento drammatico sembra suggerire. Intanto direi che il primo passo è proprio STARE LÌ, accettando fino in fondo di trovarsi su un campo di battaglia. Dobbiamo vincere la tentazione di rifugiarci nel sogno: il male c'è e va affrontato. L'Isis e tutti gli altri volti dell'odio fanatico vanno scrutati con scaltrezza, isolati e combattuti. La pace non si impone per inerzia ma chiede persone in prima linea, gente che si espone sapendo di mettere a rischio la propria vita. Finché rimaniamo a filosofeggiare nelle retroguardie a vincere sarà l'odio.
Penso a don Tonino Bello e alla sua marcia di pace a Sarajevo. Perché non siamo più capaci di farci scuotere in quel modo di fronte a tragedie come la guerra in Siria? Perché siamo capaci solo di discutere sugli aiuti, o sulle porte da aprire o meno in Europa, rimanendo alla larga dalla domanda scomoda su come fermare la carneficina là? Certo, per quello organizziamo le veglie di preghiera, che sono importanti. Ma se poi non suscitano il coraggio di mettere in gioco la vita per questi nostri fratelli, che ospedale da campo è il nostro?
Esporsi vuol dire assumere posizioni che comportano prezzi da pagare: per esempio è ora che come Chiesa italiana alziamo davvero la voce contro un governo che - come se niente fosse - lascia partire dalla Sardegna delle bombe per l'Arabia Saudita in aperta violazione alle nostre leggi, ben sapendo che quegli ordigni verranno impiegati nello Yemen, il più dimenticato dei fronti della guerra mondiale a pezzi. Su queste cose non bastano più i (peraltro pochi) articoli di denuncia sui nostri giornali: dobbiamo scendere in piazza, dirlo chiaramente che questo made in Italy (in crescita vertiginosa negli ultimi anni) è il seme dei Bataclan di domani.
Poi - certamente - stare nell'ospedale da campo della guerra mondiale a pezzi vuole dire anche CHINARSI SUI FERITI. TUTTI PERÒ. Perché sono tanti, molti più di quelli che pensiamo. E comprendono anche chi oggi tra noi pensa di rispondere all'odio con la stessa moneta. Anzi: quelli probabilmente sono i feriti su cui dobbiamo chinarci di più. Perché non è stracciandoci le vesti di fronte a chi non capisce o prendendosela con chi ha paura che si cancella l'odio. Dobbiamo fare i conti con queste paure della gente, non mostrarci superiori. E siccome la paura è un sentimento, l'unico modo per vincerlo è far provare alle persone un sentimento contrario. Che cosa aspettiamo a moltiplicare nelle nostre comunità i momenti in cui cristiani e musulmani non si trovano a dire belle parole, ma vanno insieme a servire a una mensa dei poveri, a visitare gli ammalati, a consolare chi è solo, magari anche ad aiutarsi insieme a sopportare con pazienza le persone moleste? A vivere - in una parola - quelle opere di misericordia che sono la più potente alternativa all'odio. Oltre che lo specchio migliore per capire in quale Dio crediamo davvero. Ce ne sono già tante di esperienze vissute così, ma non bastano: dobbiamo osare di più. Dobbiamo aprire anche agli uomini e alle donne delle altre religioni il nostro ospedale da campo, se vogliamo che sia davvero un segno per l'uomo di oggi. Se vogliamo che anche chi non ha più fiducia ritrovi ragioni per sperare.
Infine a me pare che l'ospedale da campo debba tornare a essere anche un luogo in cui - quando alla sera si va a riposare esausti - CI SI PORTA DENTRO ANCHE LE DOMANDE CHE INQUIETANO. Riusciremo a reggere con tutti questi feriti? O finiremo travolti anche noi in questa prima linea? La guerra - perché questo è ciò che stiamo vivendo - non è un tempo per gente tranquilla. La guerra ti ricorda che il mondo è il luogo dove «la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta». Nell'ospedale da campo non bastano più le risposte a buon mercato: sei solo davanti alla tua fede.
Maranathà - l'invocazione finale dell'Apocalisse «Vieni, Signore Gesù» - è un grido. Non è il momento di soffocarlo in una melodia armoniosa.
Giorgio Bernardelli
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