L'ultima notte di Amatrice

Io conosco l'inferno, l'ho attraversato tutto. Poi ne sono uscito...

L'ultima notte di Amatrice

 

Io conosco l’inferno. L’ho attraversato tutto. Poi ne sono uscito… forse…

 

La sera del 23 agosto sono andato ad Amatrice a prendere i figli più grandi e i loro amici per riportarli a casa in una frazione distante pochi chilometri. Mentre attendevo, osservavo il corso con i suoi gioielli storici ed artistici e le luci dei locali di una sera d’estate. Lo osservavo intatto per l’ultima volta, ma in quel momento non potevo saperlo. Tornati a casa, ho parcheggiato l’auto per l’ultima volta, ma nemmeno questo potevo sapere. Sono tante le cose che non si sanno, cui non si può o non si vuole pensare. Mi sono coricato accanto a mia moglie intorno a mezzanotte e mezza. Allo stesso piano dormivano i miei figli. Mia sorella al piano di sotto. I miei genitori in una piccola abitazione alla parte opposta del giardino. Infine, ci siamo addormentati, perfino io. Il nostro sonno sarebbe durato ben poco.

 

Alle 3.36 un boato mostruoso ha squarciato la notte. Mi sono ritrovato seduto nel letto mentre l’intero mondo sembrava crollarci addosso in un frastuono assordante e nel buio più cupo. La scossa e i crolli sembravano interminabili. In quel momento ho pensato che il mondo che conoscevo io non esisteva più. La sagra degli spaghetti a cui saremmo andati qualche giorno dopo, le passeggiate in montagna, i bambini che giocavano a nascondino in piazza, il lavoro, le piccole cose quotidiane, ora non avevano più alcun senso. Mi trovavo in un altro mondo: ostile, polveroso e buio… terribilmente buio. Qualcosa di pesante mi ha colpito al fianco sinistro fratturandomi quattro costole. Quando i crolli sono finalmente cessati, ho visto mia moglie stesa sul letto con una trave che le immobilizzava le gambe. Ho urlato il suo nome credendola morta. Lei mi ha risposto. L’ho liberata e presa per mano. Ho sentito allora, nel silenzio surreale improvvisamente creatosi, le urla delle vicine e ho capito che quello non era un sogno. Stava accadendo realmente. Ho chiamato a gran voce i miei figli, terrorizzato. Improvvisamente, è apparsa una debole luce. Mi sono chiesto con ansia cosa fosse. Proveniva dall’unico cellulare recuperato, quello del secondo figlio. Gli altri erano con lui. In quella luce spettrale ho potuto constatare i segni della distruzione. La stanza da letto un cumulo di macerie. Una intera parete era caduta sfiorandomi. Le scale dell’ultimo piano polverizzate. Ed una polvere densa, maligna, che illuminava beffardamente la notte penetrando nei polmoni. Mi sono sentito in trappola. Sembrava non esservi via di fuga. Non so come, siamo passati attraverso le macerie mediante un pertugio che a me era parso minuscolo, strisciando in terra. Nel pavimento, oltre il pertugio, una voragine spaventosa. Sembrava la bocca dell’inferno, ed in un certo senso lo era. Ma non esisteva una scelta. Dovevamo saltarci dentro. E siamo saltati, con la bambina piccola in braccio. La debole luce ci guidava.

 

Con mia sorpresa e sollievo, siamo atterrati su qualcosa di solido. Le rampe di scale dei piani inferiori sembravano aver retto. Ci siamo precipitati verso il portone. Intanto i miei genitori si facevano pericolosamente strada tra le macerie per aprire la porta di casa dall’esterno, terrorizzati dal non sapere quanto stesse effettivamente avvenendo dentro. Ma la porta era bloccata, così come quella sul retro. Ho percepito appena le urla di disperazione di mia madre. E mi sono sentito in trappola per la seconda volta. Siamo risaliti velocemente per calarci da una finestra a circa 10 metri di altezza. Ho affidato la bimba piccola al fratello più grande, gliel’ho lanciata nella notte senza pensare. Non vi era tempo per pensare, né per avere paura. In qualche modo siamo scesi tutti, illesi.

 

Finalmente fuori, siamo entrati in un’altra zona dell’inferno. Una donna avanzava a stento chiedendo aiuto nel pianto per la sua bambina, incurante di una ferita spaventosa alla gamba. Uomini e donne seminudi si aggiravano come zombi nella notte. Tra di loro c’eravamo anche noi. Grida strazianti provenivano dalle macerie nel buio e nel freddo. La terra continuava a tremare sotto i piedi, tanto che credevo ci avrebbe inghiottito. Ed il rumore assordante dei crolli, che scandiva un tempo surreale. Non è semplicemente un rumore di oggetti che cadono, è molto di più profondo: un suono che comunica angoscia, violento e minaccioso, che ti penetra nella mente e cercherà di rimanervi sempre, come quella polvere densa che ho l’impressione di respirare anche ora. Abbiamo atteso i primi soccorsi oltre quattro ore, al buio di una notte infernale in un paese raso al suolo, accanto a feriti gravi e i lamenti che continuavano a provenire dalle macerie fumanti.

Con la luce del giorno si è rivelato appieno lo spettacolo raccapricciante di un luogo dilaniato oltre l’immaginabile. Il dolore alle costole diveniva sempre più lancinante, ma io e la mia famiglia eravamo vivi. Mi chiedo perché. Come è stato possibile che tutti noi siamo sopravvissuti? Non esiste una spiegazione logica. Soltanto una mano divina poteva salvarci.

 

I più giovani, compresi i miei figli, hanno confortato e liberato dalle macerie chi era possibile. Io, purtroppo, non ho potuto far nulla a causa dei dolori insopportabili. E’ il mio più grande rammarico.  Non avrei mai immaginato tanti anni fa, quando l’ho conosciuto, che avrei un giorno visto la foto di Gianluca e della sua famiglia sterminata in tv (si è salvato soltanto il bambino più piccolo).

 

E’ difficile la vita del sopravvissuto. E’ vivo, ma si porta dentro la morte. Si sente in colpa come se la sua vita fosse stata riscattata togliendola a un altro. Si aggira in un mondo non suo, percepisce e vede cose che gli altri non possono percepire né vedere. Sa che soltanto un altro sopravvissuto può, forse, capirlo. E non sa se arriverà mai il giorno in cui non sentirà più quelle grida e non respirerà più quella polvere. Grida e polvere che ti dilaniano l’anima. Vedere le immagini in tv ha un sapore ben diverso per chi ci è stato dentro, un sapore che non si può comunicare.

Anche stanotte andrò a letto con la paura di addormentarmi e di risvegliarmi all’inferno. Ma sono consapevole del fatto che Dio mi ha concesso altro tempo, un tempo di conversione da non sprecare perché io, a differenza di Gianluca, che ora mi sprona dall’alto col suo sorriso discreto, ne avevo bisogno. Alle 3.36 del 24 agosto 2016 è cominciata una nuova vita per chi, come me, è uscito dall’inferno. La mia sofferenza attuale mi ricorda ogni attimo il dono che mi è stato fatto, pur non avendolo meritato più di altri. Non so che vita sarà. Non so se riuscirò a sfruttare questa occasione, ma di una cosa sono certo: non posso più riparare agli errori commessi, non posso fare più niente per il passato, ma posso fare molto per il futuro.

 

L’ultima notte di Amatrice e delle sue frazioni dilaniate rimarrà tale. Nessuno potrà ricostruire il sorriso discreto di Gianluca, la sua famiglia felice durante la festa del paese, i bambini che giocano a nascondino in piazza, io che giocavo a nascondino d’estate nel paese dei nonni, così come i miei figli. Sono rimasti là, saranno sempre là, in un attimo divenuto eterno. Li vedo e li sento ancora ridere e giocare, vedo me stesso in bicicletta da un paese all’altro, mia moglie dare la mano alla bambina mentre saluta qualcuno che non è più su questa terra. Il terremoto ha dilaniato anche i ricordi. Vedo e sento tutto, in un mondo a cui io, però, non posso più accedere. Questo mondo l’ho perduto per sempre.

Tuttavia, una immagine indelebile persiste nella memoria della distruzione. Quella debole luce, apparsa improvvisamente nel buio della stanza dilaniata, continua ostinatamente a farmisi presente, perché una fiammella, per quanto debole, trova sempre, presto o tardi, la via per farsi spazio, per rivelarsi, per accendere la speranza … perfino tra le macerie di un terremoto.

 

 

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