L'uomo con le valigie in mano

Il problema è arrivare pronti alla partenza, che è meglio non sia né improvvisa né subitanea

L’uomo con le valigie in mano

da Quaderni Cannibali

del 04 luglio 2007

Un giornale quotidiano, di solito, se non è un po’ particolare, è il luogo meno adatto per parlare del dopo, dell’aldilà. Il quotidiano, infatti, è il regno del qui ed ora. E’ nato per questo: per parlare di ieri, di oggi, per influire sulla realtà, immediatamente, subito, senza indugi. La notizia ancora calda è già “compresa”, discussa, sviscerata. Se non è più calda è scaduta, non interessa più. Durante la rivoluzione francese nascono circa cinquemila giornali in pochi anni: ognuno vuole dire come costruire il mondo, ognuno ha una idea, una proposta, una promessa politica da fare. La buona novella è per domani, massimo dopodomani. L’importante è rimboccarsi le maniche, agire nel breve periodo, sconfiggere il nemico, e poi gustare la vittoria, in fretta, come si gusta un pasto veloce, al fast food. Il giornale, diceva Hegel, è la preghiera mattutina del laico: serve a tenerlo ben ben radicato nella terra, nella cronaca, nei fatti, nelle res, senza mai permettergli di spiccare il volo, di liberare lo spirito, di alzare gli occhi al cielo.

Di novità in novità, di scoop in scoop, di affermazione in smentita, rimaniamo imbrigliati nelle contingenze, occupata la mente e distratto il cuore. Viviamo della vita degli altri, delle vicende degli altri, di riflesso, senza penetrare nella nostra vita e nella nostra storia, interamente fuori, aldilà di noi stessi. In fondo tutta la modernità è questa congiura: contro la possibilità di fermarsi a pensare, di assaporare il silenzio, immagine dell’eternità, di rientrare in noi stessi per cercare la voce di Dio, che risuona lì dove non ci sono altri rumori, altri interessi, altre preoccupazioni; che ci parla solo nella quiete, quando i sensi sono placati, quando i desideri e le bramosie mondane sono acquietate da una volontà che si impone e che si afferma. Oggi la “torma delle cure” ci assale ogni momento, e ogni istante libero è occupato da giornali, televisioni, radio, cellulari e musichette: oltre c’è l’abisso, “il vuoto a ogni gradino”, la paura di cadere, non si sa dove. L’oltre è negato, perché richiede un passo diverso. Viviamo nel culto dell’effimero, nell’ansia delle novità, e difficilmente possiamo pensare a ciò che dura, che rimane, che non scade. Siamo figli del primato fichtiano dell’azione sull’essere: in principio è l’azione, non il Logos. Anche in chiesa ormai ci spiegano che l’importante non è pregare, o andare a messa, ma “fare del bene al nostro prossimo”. Come se fosse facile, riconoscerlo, il nostro prossimo, a volte così “fastidioso”, senza pensare all’oltre, senza andare al di là delle apparenze, senza una preghiera pronunciata, a labbra chiuse, per chiedere quella capacità di amare che ci manca. Figli di questo rifiuto del Logos, di questa civiltà dell’agire, non sappiamo neanche più ragionare su ciò che è essenzialmente, eternamente vero, giusto, ingiusto: si sentono le persone trattare dei massimi problemi dell’uomo, dell’essenza umana, e riferirsi non a principi, non a idee, non ai fondamenti, non al cuore della loro esperienza, ma alle legislazioni cangianti di altri paesi, ad usi e abitudini mutevoli, a luoghi comuni. La famiglia? Non si indaga neppure cosa essa sia. Si dice semplicemente: bisogna adattarsi ai tempi… in Europa fanno così, i tempi cambiano… faccia ognuno come vuole… Se solo la parola Verità compare sulle labbra di qualcuno, tutti si spaventano, come fosse qualcosa di troppo aspro, di troppo duro, di troppo eterno.

Così anche la parola morte sembra eccessivamente crudele, difficile, impopolare. Personalmente, invece, mi diverto talora a scherzare sulla morte, “sorella nostra morte corporale”, sfidando i tabù dominanti: ne parlo per vedere le reazioni, e le paure. Paure di chi abita su questa terra come cittadino di questa terra, come se fosse una dimora perenne, da addobbare e da sistemare per sempre, da non lasciare mai. E invece qui, su questa terra, ci stiamo poche ore. “Questa vita mortal che ’n una o ’n due brevi e notturne ore trapassa”: così scriveva il Della Casa, l’uomo del Galateo e delle belle maniere. “La vita fugge, et non s’arresta un’ora/ et la morte viene dietro a gran giornate,/ et le cose presenti et le passate/ mi danno guerra, et le future ancora”: questo invece è il buon Francesco Petrarca, il poeta che si innamora di Laura e dell’alloro, delle cose che svaniscono, e che medita nello stesso tempo su come “tutto al mondo passa, e quasi orma non lassa”. La nostra letteratura è piena di riflessioni sulla morte: da “Quando t’aliegre, omo d’altura”, di Jacopone da Todi, in cui si invita il superbo a umiliarsi, osservando un cadavere, sino a “Quid est homo?”, del Sempronio: “E’ fior, che nell’april nasce e languisce; è balen, che nell’aria arde e trapassa; è fumo, che nel ciel s’alza e svanisce”.

Ma non è vero che solo i cristiani hanno sviluppato un’ampia riflessione sulla morte, come accusavano gli illuministi, che la morte la mettevano tra parentesi, per non rovinare le loro costruzioni filosofiche, per non dover fare i conti col mistero e col giudizio finale. Seneca ricordava spesso che “moriamo un poco ogni giorno” (Cotidie morimur) e che nasciamo diversi ma moriamo uguali (Impares nascimur, pares morimur). E Orazio diceva che la morte eguaglia gli scettri alle zappe (Sceptra ligonibus aequat). Egualmente la letteratura e la filosofia greca ci tramandano riflessioni ed exempla sulla morte molto significativi. Si racconta ad esempio che Diogene stesse cercando qualcosa, tutto affannato, tra un insieme di cadaveri. Alessandro Magno gli chiese cosa facesse e lui rispose che cercava il teschio di suo padre, il re Filippo, ma che non sapeva distinguerlo tra tutti gli altri: “Mostramelo tu, se sai”.

Sì, benché oggi si preferisca ignorarlo, qui non ci staremo per sempre. Questa è la realtà, una realtà che non spaventa chi crede nel dopo. Una realtà su cui riflettere, perché il pensiero dell’aldilà è sempre stato considerato il miglior antidoto alla venerazione degli idoli del potere, della fama, della ricchezza. Idoli che ci precludono l’aldilà, che rendono corto e piccino il nostro sguardo, triste, inutile, tormentata, anche la vita su questa terra. Idoli a causa dei quali barattiamo l’infinito con il finito, l’eternità con il tempo, i piaceri con la Felicità.

Nella famosa lettera a Diogneto, in cui si descrivono le peculiarità dei cristiani, si legge: “Vivono nella loro patria, ma come forestieri; partecipano a tutto come cittadini, ma sono distaccati come stranieri. Ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera”. Sì, per credere nell’aldilà bisogna vivere un paradosso: un ottimismo incrollabile, una fiducia assoluta, e, insieme, una chiara idea del nostro essere pellegrini, di passaggio, in esilio in una patria non nostra. Amore per ogni patria, dunque, e desiderio intenso dell’unica patria vera. Lo stesso paradosso di Gesù, che ci dice di aver offerto la sua vita per il mondo, pur non essendo del mondo. Scriveva sant’Agostino: “Nelle tenebre di questa vita, dunque, nelle quali ci aggiriamo come in esilio lontani dal Signore, finché camminiamo col sostegno della Fede, non di una visione diretta, l’anima del cristiano deve ritenersi derelitta, affinché non cessi di pregare e di fissare l’occhio della fede sulla parola delle divine e sante scritture come su di una lampada posta in un luogo tenebroso, finché non risplenda il giorno e la stella mattutina sorga nei nostri cuori… Allora, dopo la morte, sarà la vera vita e, dopo l’abbandono, la consolazione vera: quella vita strapperà alla morte la nostra anima, quella consolazione libererà i nostri occhi dalle lacrime… giacché là non vi sarà più l’attesa di un bene promesso, ma la contemplazione di un bene dato”.

E W. F. Schlegel, qualche centinaio di anni più tardi: “Presso i greci la natura umana bastava a sé stessa, non presentiva alcun vuoto, e si contentava d’aspirare al genere di perfezione che le sue proprie forze possono realmente farle conseguire. Ma quanto a noi, una più alta dottrina ci insegna che il genere umano, avendo perduto per un gran fallo il posto che gli era stato originariamente destinato, non ha sulla terra altro fine che di recuperarlo; al che tuttavia non può giungere, s’egli resta abbandonato a se stesso. La religione sensuale dei greci non prometteva che beni esteriori e temporali: l’immortalità, seppur vi credevano, non era da essi che appena appena scorta in lontananza, come un’ombra, come un leggier sogno che altro non presentava se non una languida immagine della vita, e spariva dinanzi alla sua luce sfolgorante. Sotto il punto cristiano, tutto è precisamente l’opposto: la contemplazione dell’infinito ha rivelato il nulla di tutto ciò che ha dei limiti; la vita presente si è sepolta nella notte; e sol di là dalla tomba risplende l’interminabile giorno dell’esistenza reale… E perciò la poesia degli antichi era quella del godimento; la nostra è quella del desiderio; l’una si restringeva al presente, l’altra si libra tra la ricordanza del passato e il presentimento dell’avvenire”. In esilio, dunque: cioè in attesa di “cieli nuovi e terra nuova”, di una partenza, sempre con i bagagli pronti, con la speranza di un futuro diverso, di un completamento dei nostri desideri di Felicità, di Bene, di Giustizia, di Bellezza, così spesso conculcati su questa terra. “Tristi”, dunque, per la consapevolezza di un bene assente, ma non disperati, come se questo bene non esistesse per nulla. Dove sta allora l’ottimismo cristiano? Per il cristiano l’uomo non è un parassita, né una semplice scimmia, né il cancro dell’universo, né materia che si trasforma, né figlio del caso, né semplice componente di una razza o di una classe sociale: qui sta il suo umanesimo. Per lui ogni momento vissuto, ogni incontro fatto, ogni azione compiuta ha una risonanza eterna, proprio a causa dell’aldilà: cioè nulla va perso, nulla è inutile, nessuna parola buona, nessun sorriso, nessun sacrificio, nessun pianto è sprecato. Gli alunni che ho conosciuto, e che ho salutato a fatica, gli amici che ho incontrato e che poi ho perso, le persone con cui si sono condivise storie e pensieri, ritorneranno tutti, in un abbraccio universale. Sulla maglietta di una mia alunna di quinta, che forse non rivedrò più, quaggiù, ho scritto: “Finisce una storia, ne inizia un’altra: ma nulla si perde di ciò che abbiamo vissuto”. Lo può scrivere chi crede nell’aldilà: non oso pensare cosa proverei, quale sarebbe la mia desolante malinconia, se non fossi sicuro di questo. Ogni mio capello è contato, ogni capello dei miei fratelli è guardato e vegliato da Dio stesso. Non c’è ottimismo più grande, non c’è tranquillità, serenità, certezza più splendida di questa. Di essa hanno vissuto i santi, cittadini di questa terra più di ogni altro, pellegrini di passaggio, senza sandali né bisaccia, più di ogni altro. Per questo, dopo di loro, io so che non andrà buttato nulla, che potrò fermarmi a ricordare, tra venti o quarant’anni, le cose fatte e le persone incontrate, senza che la malinconia diventi disperazione, senza che il velo di tristezza che accompagna ogni fine, ogni evento svanito, ogni limite, diventi domanda inevasa di significato, rabbia, rancore, senso di impotenza. Solo con i piedi ben piantati nell’aldilà, che è già qui, “ora e non ancora”, possiamo amare tranquillamente e per sempre i nostri genitori, i nostri amici, nostra moglie e i nostri figli. Solo così non dovremo mai pensarla come Zeno Cosini, ne “La coscienza di Zeno”, quando, parlando della moglie, dice: “Essa sapeva che tutti dovevamo morire, ma ciò non toglieva che ormai ch’eravamo sposati, si sarebbe rimasti insieme, insieme, insieme. Essa dunque ignorava che quando a questo mondo ci si univa, ciò avveniva per un periodo tanto breve, breve, breve, che non si intendeva come si fosse arrivati a darsi del tu dopo non essersi conosciuti per un tempo infinito e pronti a non rivedersi mai più per un altro infinito tempo”.

Al contrario, ragionare in termini di eternità, sapersi da sempre e per sempre nella mente e nel cuore di Dio, ridona senso alle cose e agli eventi, e nello stesso tempo li colloca tutti nella giusta prospettiva: non c’è ansia, agitazione, premura, in chi vede ogni fatto alla luce dell’eternità. Ognuno di quei problemi che attanagliano e angustiano chi limita la sua vita a se stesso e al tempo presente, si ridimensiona, se osservato con occhio spirituale, con la consapevolezza dell’aldilà.

L’unico grande problema che rimane è quello di essere pronti, al momento della morte. Per questo i nostri padri, che erano stati educati fin da bambini, anche nella liturgia, a considerarsi polvere, paradossalmente polvere e immortalità, pregavano come l’uomo d’oggi non farebbe più: “A improvvisa et subitanea morte libera nos Domine”. Liberaci Signore dalla morte improvvisa e subitanea. La morte è dunque bene guardarla in faccia, prepararla, viverla sino alla fine, come un momento stesso della vita, un momento di passaggio. Solo la “morte secunda” può farci male.

Francesco Agnoli

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