La casa, la terra, gli amici, che ci serve per essere felici?

“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Ci vogliono radici per le persone, le comunità, i popoli.

La casa, la terra, gli amici, che ci serve per essere felici?

da Quaderni Cannibali

del 27 ottobre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 

 

          “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.

          Così Cesare Pavese, ne La luna e i falò. Un paese ci vuole per essere vivi, per essere uomini. Ci vogliono radici per le persone, le comunità, i popoli. La casa, la terra, gli amici è un bel titolo, per il recente libro di Massimo Camisasca (sott. La chiesa nel terzo millennio, ed. San Paolo). Ma è anche il condensato di ciò che ci costituisce, che ci àncora al passato, che ci permette il futuro. In una “società liquida”, tempo “di sentimenti brevi”, di un individualismo esasperato che genera violenza, un tempo dunque segnato dalla paura, paura dell’estraneo e del futuro, abbiamo bisogno di casa. Nel senso primo del termine, cioè un luogo decoroso, familiare, caldo.

          Camisasca, sacerdote, fondatore di una Fraternità Missionaria, sa ciò che conforta lui e i suoi ragazzi, mandati nei più diversi paesi del mondo. Perchè per estendersi alla comunità, alla Chiesa, si parte da lì, da una stanza linda, una sala per incontrarsi, un ambiente silenzioso dove ritrovarsi. Per ricostruire si parte dalle fondamenta. Per ricreare l’uomo, per riformare la Chiesa si ricomincia da san Benedetto, che mise una sull’altra pietre e mattoni, fece monasteri in tutta Europa. Non fece rivoluzioni, ma partì dalla solidità di ciò che c’è, dalla realtà, dalla materia, plasmata dallo Spirito Santo. Non da uno spiritualismo ineffabile, che sembra rendere ben accetta la proposta cristiana, svuotandola del suo cuore, cioè l’Incarnazione; che pare accontentare la sete di tanti uomini, ma muove da sé e a sé ritorna, sterilmente.

          In una casa ci sono un padre e una madre, cioè un’autorità. Non è un laccio alla nostra libertà, come ci hanno insegnato a credere. La dipendenza è un’opportunità, riconosciuta liberamente come occasione di confronto, di stimolo, di correzione. L’autorità non è autoritaria, se rimanda a un Altro che la ispira e la guida. Non vale solo per i preti: chiunque di noi sa bene che rifiutando il maestro, il padre, si finisce per servire tanti padroni, per sbandarsi dietro le facce che il Potere sa assumere.

          In una casa ci sono i fratelli. Ci vuole cioè un rapporto con un tu che consenta all’io di crescere ed essere accolto. L’uomo si compie negli amici, ha bisogno di un altro per essere se stesso. Non è una scoperta dei cristiani, ma Gesù ha chiamato i suoi discepoli amici, li ha messi insieme perché fossero se stessi, più certi e sereni nelle avversità, aiutati a guardare al Salvatore della loro felicità. Chi conosce i giovani seminaristi, i sacerdoti della Fraternità San Carlo sa che è questa “ossatura monastica” vivificata dall’attenzione alla realtà dell’oggi che permette quello slancio di umanità, quella passione contagiosa per le persone e le cose. Lo studio, il lavoro, la missione, cioè l’unico lavoro necessario a un cristiano, in tutto ciò che fa e desidera. E’ la Regola che permette lo slancio della personalità. La casa, l’amicizia e l’autorità rigenerano la persona e la Chiesa, attraverso comunità, “minoranze creative”, le chiama Benedetto XVI, che sono la possibilità di una rinascita per tutti. “Un luogo dove il punto centrale non sia l’io coi suoi problemi, ma l’io proiettato alla ricerca di Dio per la felicità”.

          Ascoltando la voce ferma, sapiente, piana di Massimo Camisasca si intuisce la paternità affettuosa e virile che cresce i suoi giovani; ma poiché l’uomo è uomo sempre, nelle diverse vocazioni e condizioni, le sue parole non sono lezioni da seminario: rinasce in chi legge la nostalgia e il desiderio di un padre così; stupisce di nuovo la scandalosa semplicità del Cristianesimo, la sua perenne novità radicata nell’Autorità dei suoi maestri e santi, da duemila anni. Si rinnova lo slancio a seguire l’ammonimento di Eliot: “In luoghi abbandonati noi costruiremo con mattoni nuovi. C’è un lavoro per tutti e un impiego per ciascuno. Ognuno al suo lavoro”.

Monica Mondo

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