«Lungi dall'essere il terzo intruso tra un uomo e una donna che si amano, Dio è colui che - unico e l'unico - istituisce e garantisce l'assoluta dignità dell'uno e dell'altra»... 2' Parte.
L'«in-veramento» dell'amore
Prima della partenza dalla famiglia, lacerata da odi e sospetti, e dopo la rottura del suo fidanzamento, Ivan Karamazov, l'intellettuale tormentato e ateo, incontra il fratello Alioscia, novizio in un monastero ortodosso, in una piccola e squallida trattoria, e gli confida le inquietudini che lo lacerano:
Nel mio intimo non ho fatto che pensare a questi miei ventitré anni, a questa mia gioventù di primo pelo.. Sai che cosa mi dicevo pochi momenti fa? Anche se avessi perduto la fede nella vita, se fossi deluso nell'amore della donna amata, se non credessi più nell'ordine delle cose... vorrei ugualmente vivere. Ho voglia di vivere, e vivo, fosse pure contro la logica... Ci capisci qualche cosa tu?
E Alioscia:
Ti capisco troppo bene, Ivan... Mi sembra che tutti dovrebbero amare, prima di ogni cosa al mondo, la vita stessa... amarla anche contro la logica, come tu dici; amarla prima della logica, e solo allora si arriva a conoscere il senso della vita. Vivere, amare, amare la vita ad ogni costo, contro ogni logica e prima di ogni logica: è quanto sogna e vuole con tutte le sue forze Ivan e ogni io, giovane o vecchio, al quale Ivan presta la sua voce. Ma nel momento stesso in cui prende coscienza della sua volontà di vita incontestabile, Ivan pone la domanda di tutte le domande che neppure il Grande inquisitore avrà il coraggio di porre. Devo confessarti una cosa. lo non ho mai potuto capire come si possano amare i nostri prossimi. Secondo me sono proprio i prossimi che non si possono amare; gli altri, i lontani, forse sì si possono amare. Per amare una persona, occorre che essa si nasconda, perché appena fa vedere il suo vero viso, l'amore scompare (F. Dostoevskij, Il grande inquisitore, Edizioni Lavoro, Roma 1995, p. 36).
La domanda di Ivan è inquietante, a tal punto che non si osa neppure porla, dando per scontato che sia possibile amare. Ma quando diciamo di amare l'altro, davvero lo amiamo, nella sua singolarità e unicità, o non piuttosto lo amiamo in quanto momento interno alla nostra autorealizzazione, per cui il nostro amore per lui è in realtà solo l'ennesima e dannata modalità del nostro amore per il nostro io, come riconosce Panurge (il personaggio di Rabelais, il grande umanista francese prete e scrittore) il quale confessa:
Così va il mondo. Basta un piccolo intoppo e saltano all'aria le promesse, i giuramenti, l'amicizia, la generosità. Quando ne va della propria pelle e del proprio ventre non c'è morale che tenga. Fate scegliere ad un affamato tra un atto di bontà e un coscio di manzo ben arrostito e ben annaffiato e capirete subito da che parte tira il vento.
Interpretazione dell'amore umano alla luce dell'amore divino, che in esso è presente e opera nascostamente, la celebrazione del matrimonio non solo è annuncio o kerigma dell'amore ma è soprattutto il suo in-veramento, il suo introdurlo 'nell'ordine del vero', dicendo in che cosa esso consiste realmente e sottraendolo così all'ambiguità, all'illusorio e all'apparenza. Se ci si chiede infatti che cos'è l'amore, si entra in un ginepraio di risposte che variano a seconda delle culture, delle ideologie e delle esperienze personali. Basti solo ricordare che il Grande Dizionario Battaglia, nelle sei pagine dedicate a questa parola, rintraccia ben diciannove significati diversi e se, dai dizionari, ci si rivolge alla sterminata produzione scientifica, filosofica, letteraria e spirituale fiorita intorno ad essa, troveremmo che tutto ciò che dell'amore può essere detto e di fatto è stato detto oscilla tra la definizione di Platone, per il quale l'amore è via e accesso all'assoluto, a quella di Cioran, per il quale è "un incontro di due salive" in quanto "tutti i sentimenti traggono il loro assoluto dalla miseria delle ghiandole" (Sommario di decomposi- :ione, Adelphi 1996, Milano p.18).
Celebrando il sacramento del matrimonio, un uomo e una donna affermano la possibilità di un amore che si vuole come vero e per i quali 'fare l'amore non è ... la più alta manifestazione della vita' (formula nella quale Hannah Arendt racchiude tutte le concezioni vitalistiche ed organiche con le quali illusoriamente, per la grande pensatrice ebrea, si tenta di spiegare l'umano) ma 'patto' o 'alleanza' di amore con cui l'uno dice all'altro di amarlo sempre e incondizionatamente di un amore che non è solo di desiderio, dove l'amato è amato in quanto desiderabile e rispondente al bisogno e alle attese dell'amante, ma di un amore di alterità, bontà o gratuità dove l'amato è amato in sé, nella sua unicità e alterità irriducibile. Il sacramento o rito del matrimonio non nega né contesta la bellezza dell'eros e la sua forza attrattiva e unitiva degli amanti e anche per esso resta una delle conquiste più alte della storia umana il fatto che un uomo e una donna vivono insieme perché sono loro a deciderlo e non perché viene loro imposto, dal patriarca, dall'autorità o dalla tradizione.
Ma per esso il desiderio non è né può essere la parola ultima dell'amore, sia perché, come vuole sempre Hanna Arendt, il desiderio è volubile e cambia dall'oggi al domani, per cui solo il vincolo della promessa può regolarlo e impedire che si trasformi in principio di instabilità sociale, ("anche se il mio desiderio dovesse modificarsi, io ti amerò lo stesso") sia perché, come vuole R. Girard, esso è fonte di violenze, di liti, di gelosie, di rancori e disordine che l'ideologia dominante tende ad ignorare e occultare perché lo vuole innocente e, ingenuamente, principio indiscusso e indiscutibile di felicità e di benessere.
Intessuto di desiderio, l'amore di un uomo e di una donna non vive solo di desiderio ma di bontà, di misericordia e di perdono, cioè di una relazione dove il partner è accolto ed amato in sé, nella sua nudità e alterità.
Celebrare il matrimonio - e celebrarlo cristianamente - è fondare l'amore su questo al di là del desiderio che è la bontà, il disinteressamento, la misericordia, la fedeltà e la gratuità: termini che la letteratura neotestamentaria raccoglie nella parola agape e che del desiderio non è la negazione ma la radice che lo fa fiorire e che, relativizzandolo, gli impedisce di costituirsi in assoluto o idolo che, come ogni idolo, rende schiavi e diffonde infelicità e sofferenza a sé, agli altri, al partner, ai figli, ecc.
Celebrare il matrimonio - e celebrarlo cristianamente - è riconoscere che la verità ultima dell'amore è nell'amare gratuitamente, assumendo come paradigma l'amore stesso di Gesù sulla croce: "Voi, mariti, amate le vostre mogli come Cristo" (Ef 5,25). Amare la partner come Cristo - o, viceversa, il proprio partner - è porre nei suoi confronti una relazione di amore incondizionato e senza ritorno che raggiunge l'altro nella sua alterità e, raggiungendolo, gli fa dono di un'esperienza che è vero amore ed è ciò che sogna ogni cuore umano e ciò che invocano e cantano tutte le letterature.
È in questo spazio aperto dall'amore di alterità che il desiderio fiorisce e si diffonde in felicità e in benessere e, dove si eclissasse o non fosse più nelle condizioni di risvegliarsi, non si perverte in rancore e violenza ma fa dono ai partners di potersi lasciare nel rispetto e di dirsi - potenza e miracolo dell'amore di agape! - : "ti amo a tal punto che ti lascio fare la tua strada anche se tu non decidi di non farla più al mio fianco".
L'introduzione del 'terzo'
In un passo talmudico si legge che, in un rapporto di coppia, si è sempre in tre (un uomo, una donna e Dio) e che, ogni volta che un uomo e una donna si uniscono sessualmente e la loro unione sessuale avviene nella santità, la divina presenza o shekinah scende e incombe sul loro amplesso e vi partecipa attivamente.
Celebrare il matrimonio è celebrarlo sempre alla presenza di un 'terzo' - Dio - di cui si ascolta la parola e si invoca 'l'assistenza' che, etimologicamente, vuol dire 'stare' e 'restare' (sistere) 'al proprio fianco' (ad). Per questo il rito, ogni rito, è preghiera: l'ascoltare qualcuno e il rivolgersi a qualcuno nella riconoscenza, per dire: 'grazie', o nell'invocazione, per dire: 'aiutami'. Per il rito cristiano il Dio che parla, si ascolta e si invoca è il Dio di Israele e di Gesù di cui parlano le scritture ebraico- cristiane che, per questo, vengono lette nella celebrazione del matrimonio.
Celebrare il matrimonio è celebrarlo alla presenza di Dio e celebrarlo alla presenza di Dio vuol dire, per la coppia, introdurre nel proprio amore 'un terzo': non il 'terzo' indiscreto, che ne viola la segretezza e l'intimità, ma il terzo che ne garantisce la pienezza della relazione e della felicità. Il Dio biblico, alla cui presenza l'uomo e la donna si promettono amore e fedeltà è il Dio che rivendica di essere l'unico Signore e che, allo sposo e alla sposa, continua a dire: "Non avrai altro Dio all'infuori di me", così chiedendo di essere amato più di quanto si ami il proprio uomo o la propria donna. Rivendicazione paradossale da non equivocare e da cogliere in tutta la sua portata sconvolgente. Una concezione diffusa e condivisa, soprattutto in ambito cattolico, vuole Dio presente come terzo nella coppia in quanto amore riflesso nell'amore erotico, come quell'amore che ama donando - e predestinando - eroticamente, cioè attrattivamente, lui a lei e lei a lui. Ma questa figura di presenza è debole e ambigua in quanto, leggendo Dio riflesso nell'eros, ne fa il concorrente dello stesso eros (chi non ricorda le celebri parole di Bonhoeffer: "Per dirla franca, che un uomo tra le braccia di sua moglie debba bramare l'aldilà è, a essere indulgenti, mancanza di gusto e comunque non la volontà di Dio"?). Ma altra e più radicale, per la bibbia, è la sua presenza nella coppia: non in quanto riflesso nel desiderio ma in quanto, come si è sottolineato nel paragrafo precedente, al di là del desiderio, in quanto alterità assoluta, irriducibile al desiderio e non raggiungibile dalla sua potenza (la potenza del desiderio che da Platone in poi l'Occidente vuole come via privilegiata al divino!).
Dio come 'terzo' che si introduce nella coppia - e alla cui presenza il cristiano si sposa - è l'assoluta alterità che, come una lama di coltello, si introduce nell'orizzonte erotico della coppia dischiudendo, in essa, un al di là del desiderio che è l'alterità irriducibile dell'uno di fronte all'altra: alterità che splende al di là di ogni desiderabilità (attrazione, bellezza, salute, simpatia, intelligenza, ecc.) e che il partner custodisce come la sua cosa più preziosa o mistero che attende di essere riconosciuta, accolta e amata.
Lungi dall'essere il terzo intruso tra un uomo e una donna che si amano, Dio è colui che - unico e l'unico - istituisce e garantisce l'assoluta dignità dell'uno e dell'altra. Sottraendo l'uno all'altra e impedendo la riduzione dell'uno a oggetto del desiderio o a strumento della volontà di potenza dell'altra, Dio, amore assoluto, istituisce, nella coppia, l'amore assoluto: non in quanto dice agli amanti: "amate me più di quanto voi vi amiate" ma: "ognuno di voi deve amare l'altro come io vi amo: di un amore incondizionato e senza ritorno, cioè gratuito".
Dio è l'assoluto dell'amore che, ad un uomo e ad una donna che si amano, dischiude l'assoluto dell'amore: la possibilità di una relazione d'amore con l'altro in quanto altro, amato nella sua unicità inassumibile e irriducibile e non più solo in quanto desiderabile e momento interno alla realizzazione dell'io. Nello spazio di questo assoluto, dove l'altro è amato nel suo essere in sé e non più nel suo essere per l'io, l'amore si sottrae per sempre alla logica del possesso e della violenza che, in ogni istante lo minaccia, splende in tutto il suo mistero e la sua bellezza, si rivela "forte come la morte", secondo quanto vuole il Cantico dei cantici (8,6) e, come non si stanca di ripetere la letteratura neotestamentaria, ha già da sempre vinto la morte, perché - come scrive Giovanni, l'apostolo prediletto - "chi ama è passato dalla morte alla vita" (1Gv 3,13) e, per questo, "sta in Dio".
Carmine Di Sante
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