Lo è il suo cattivo uso. Di base c'è che qualunque strumento si suoni, occorre saperlo “usare”, almeno più che decentemente. Se non si parte dalla formazione si continuerà per decenni a parlare delle stesse cose senza frutto. Grandissimi compositori hanno scritto per questo nobile strumento. Da qui, ad accettarla suonata come al campeggio ce ne corre.
del 18 maggio 2011
 
 
         Non si può negare, neanche dai più strenui difensori delle chitarre nella liturgia, che l’organo è uno strumento che appartiene al patrimonio storico della Chiesa cattolica, e questo da vari secoli. Il suo uso, è stato vario ed è naturalmente anche coinciso con le evoluzioni tecnico-costruttive dello strumento.
          Pensiamo per esempio alla concezione di un organo ottocentesco italiano, che perfettamente si adattava a eseguire le composizioni di stile operistico dei musicisti più in voga di quel periodo. Insomma, l'organo si è spesso adattato alle esigenze (liturgicamente lecite o meno, non è qui il caso di dibattere) che la cultura del periodo e la conseguente liturgia gli presentava. Io insisterei più sul chiamare questo strumento, “strumento storico” della liturgia (anche se questa definizione non è il massimo) preferendo questa accezione a quella di “strumento tradizionale”. Questo perché, almeno qui da noi, alla parola “tradizione” si dà un senso di incatenamento, di irreformabilità, di irrigidimento (e questo non è certo il senso vero di queste bella parola).
          Io continuo ad amare la Tradizione e a ritenerla vivente, non chiusa e finita in qualche epoca storica ma sempre gravida di avvenire. In base a questo, non posso accettare che stili musicali o strumenti musicali, per quanto meravigliosi, possano essere considerati definitivi e mitizzati, perché li condannerei irrevocabilmente alla sterilità (e, peggio ancora, mi condannerei all’idolatria). Quindi non bisogna mitizzare né gli stili, né gli strumenti, né gli uomini (anche se grandi genii dell’arte musicale per i quali non vale la massima di Novalis: “Quando si vede un gigante, si ponga mente anzitutto alla posizione del sole e si badi se non sia l’ombra di un pigmeo”).
          Non mi nascondo l’utilità enorme di uno strumento come l’organo nella storia della Chiesa cattolica (anche nella storia attuale, naturalmente) ma non intendo alzare barricate a quanto di buono e di utile può trovarsi nella cultura moderna (per meglio dire, nelle culture moderne), sempre che sia adatto alla celebrazione “o vi si possa adattare”. Visto in questa prospettiva non dovrebbe più porsi il problema di suonare questo o quello strumento (al di fuori dell’organo) ma si dovrebbe porre, in tutta la sua pesantezza, il problema di come usare quello strumento, in quale momento della celebrazione e perché. E non è questione da poco.
          Di base c’è che qualunque strumento si suoni, occorre saperlo “usare”, almeno più che decentemente (non che si richiedano sempre dei virtuosi…). Se non si parte dalla formazione si continuerà per decenni a parlare delle stesse cose senza frutto. Ci sono degli strumenti che non si adattano alla celebrazione? Partiamo ancora dalla chitarra. In un CD per le edizioni San Paolo di mie composizioni per la liturgia, ho usato in due dei miei pezzi la chitarra classica in arpeggio, anche unita ad un quartetto d’archi o a una viola solista. Il risultato, anche a detta dei cantori (per niente avvezzi a queste strumentazioni) era veramente spirituale.
          Racconto questa esperienza personale per dire: la chitarra non è il male assoluto della liturgia, lo è il suo cattivo uso. Grandissimi compositori hanno scritto per questo nobile strumento. Da qui, ad accettarla suonata come al campeggio ce ne corre. Perché lì siamo al campeggio davanti a noi stessi, in chiesa siamo noi stessi davanti a Dio. Deve esserci nel simbolo sonoro che viene fuori quello che Giuseppe Sovernigo in un bel libro definisce lo “scarto simbolico” (Giuseppe Sovernigo, “Rito e persona – Simbolismo e celebrazione liturgica: aspetti psicologici”, Edizioni Messaggero Padova/ Abbazia Santa Giustina, Padova 1998, pag. 87).
          I simboli, anche quelli sonori, non possono essere presi da un contesto e travasati in un altro completamente diverso senza temere una deriva del senso. Una delle massime del mondo della comunicazione più alla moda da decenni è: il mezzo è il messaggio (McLuhan, che, tra l’altro, è stato un convertito al cattolicesimo e ha scritto interessanti saggi proprio sulla liturgia dopo il Vaticano Secondo che meriterebbero un’occhiata…). Non voglio prenderla come oro colato ma non bisogna neanche passarci troppo sopra. Detto questo, potrei dire che quasi ogni strumento, se adattato con gusto e competenza alla liturgia, può servirla degnamente. E non sono il solo a pensarla così. Il padre Papinutti, nell’opera citata in precedenza afferma:
          “Comunque è certo che, nel campo strumentale, la evoluzione della Musica Sacra è senza confini. Restando sempre fedeli alla disciplina e alle norme di una sana prudenza, oggi i musicisti possono tentare nuove forme musicali, con ampio uso di strumenti. Forse non è lontano il giorno nel quale sarà tradotto in pratica l’invito del salmista. 'Laudate eum in sono tubae: laudate eum in psalterio et cithara; laudate eum in chordis et organo'”.
          Fino all’approssimarsi di quel giorno, i miei dubbi li continuerò a coltivare per quelli strumenti la cui natura sembra contrastare vivamente con quella del rito, come gli strumenti percussivi che hanno un’importanza segnatamente ritmica e che sento in contrasto con il ritmo che il rito di per sé impone ai codici utilizzati per “dichiararlo”. Il canto gregoriano veramente respira con il rito, la ritmicità pesante mi sembra una forzatura fuori posto. Naturalmente sono consapevole che sto proponendo un discorso culturalmente condizionato, in quanto in Africa il ritmo e la percussività hanno significato diverso e sono invece spesso legati ad atmosfere di contatto con il divino. Questo lo vediamo anche negli spirituals, bellissime composizioni tipiche degli afro-americani in cui il ritmo stringente spesso è parte preponderante. Ma non dimentichiamo di appartenere a una cultura diversa e che, pur rispettando grandemente queste manifestazioni di culture non nostre, viviamo immersi in altre culture e altri mondi (anche se pieni di contaminazioni di vario genere…). Non ci si nasconde i rischi di queste operazioni; Baltasar Graciàn, gesuita del XVII secolo, diceva:
          “Non c’è nulla che non abbia il suo diritto e il suo rovescio, In ogni cosa ci sono inconvenienti e vantaggi. L’abilità consiste nel saper trovare il modo di volgerle al proprio comodo”.
          Molti chiamano questi problemi, altri potrebbero chiamarli opportunità…Oggi che abbiamo la libertà e i mezzi per poter fare le scelte più ardite, ci ritroviamo a girare con le catene che noi stessi ci siamo fabbricati: “Non è la libertà che manca; mancano gli uomini liberi” (Leo Longanesi). E bisogna farsi una ragione del fatto che bisogna “sporcarsi le mani”. Come dice Graham Greene: “Preferisco aver del sangue sulle mani piuttosto che dell’acqua come Ponzio Pilato”. Non c’è altra via…
 
Aurelio Porfiri
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