Non avete mai fatto la «comunione spirituale»? Mia mamma me l'ha insegnata tanti anni fa. Oggi vedo su Internet che la «comunione spirituale» è tutt'altro che passata di moda. Essa vive un certo revival come pratica riservata ai laici che non possono assistere alla Messa quotidiana o anche ai divorziati risposati. E rimango perplesso.
del 06 luglio 2011
 
 
           «Gesù mio, credo che tu sei nel Santissimo Sacramento. Ti amo sopra ogni cosa. Ti desidero nell'anima mia. Giacché ora non posso riceverti sacramentalmente, vieni almeno spiritualmente nel mio cuore»...
(Pausa)
          «Come già venuto, ti abbraccio e tutto mi unisco a te. Non permettere che io abbia mai a separarmi da te».
          Non avete mai fatto la «comunione spirituale»? Mia mamma me l'ha insegnata tanti anni fa, più o meno nella formula sopra riportata; mi è rimasto impresso soprattutto quel momento di pausa nel quale bisognava immaginarsi che Gesù venisse nella propria anima, quasi «mimando» il ricevimento dell'ostia e addirittura deglutendo! Dopodiché si ricominciava: «Come già venuto...».
          Ogni tanto ripenso a quella pia devozione, ma - nonostante tutto l'affetto per la mamma e la nostalgia degli insegnamenti ricevuti da piccolo - oggi sono molto perplesso nei suoi confronti e anzi mi sembra una delle più sottili e nello stesso tempo trasparenti aberrazioni del cristianesimo. Com'è possibile, infatti, rendere «astratta» una pratica che è eminentemente «concreta», un sacramento che per essenza richiede appunto una «materia» (e un certo tipo di materia, non una qualunque)? Come si può nello stesso tempo parlare di transustanziazione, cioè del misterioso mutarsi della sostanza nell'eucaristia, e poi insegnare che c'è un altro modo solo «spirituale» per comunicarsi?
          Certo: è evidente (ma evidente a chi?) che la cosiddetta «comunione spirituale» non può essere in alcun modo paragonata al sacramento, e nemmeno a un suo inesistente surrogato. E' altrettanto chiaro quanto essa risenta del clima controriformista e «giansenista» dei secoli scorsi, quando la comunione frequente era severamente proibita e la preoccupazione di essere «puri» prima di riceverla prevaleva su ogni altra considerazione; cosicché, per non cadere in un sacrilegio ­- che sarebbe stato un danno peggiore dell'eventuale vantaggio di grazia ottenuto nel ricevere l'ostia ­ - si preferiva evitare il sacramento «vero» e ripiegare su quello «finto» (ma ci rendiamo conto in quali pastrocchi teologici ci ha infilato la buona, vecchia, cara «devozione»?).
          Oggi vedo su Internet che la «comunione spirituale» è tutt'altro che passata di moda, anzi vive un certo revival come pratica riservata ai laici che hanno molto da fare e non possono assistere alla messa quotidiana o anche ai divorziati risposati, che non possono accostarsi per ragioni canoniche alla mensa eucaristica (peraltro i siti più oltranzisti negano loro anche questo ripiego: perché per «ricevere Cristo», comunque si faccia, occorre non essere in stato di peccato abituale... Poveri noi!). Si coltiva dunque ciò che sembra una buona e persino affettuosa abitudine ­- che male c'è, a sentirsi più uniti a Dio? - ma non si pensa alle distorsioni che in questo modo si potrebbero instillare nelle persone.
          La morale? Io ce ne vedo almeno tre. Primo: le nostre «pie pratiche» hanno necessità di urgente ripensamento e spesso di radicale revisione, perché si sono allontanate dal loro senso originario. Secondo: proprio le più radicate tradizioni a volte sono in contraddizione con la dottrina, ovvero ciò che dovrebbe essere più caro ai cosiddetti «tradizionalisti». Terzo: la formuletta di cui sopra chiamiamola come vogliamo, ma assolutamente non più «comunione spirituale». 
 
Roberto Beretta
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