La felicità è nelle nostre mani

L'alpinista Simone Moro: «Mi chiamo Simone: mi rassicura pensare che anche Simon Pietro ha sbagliato parecchio... eppure Dio gli ha affidato le chiavi del Paradiso»...

La felicità è nelle nostre mani

del 30 novembre 2017

L'alpinista Simone Moro: «Mi chiamo Simone: mi rassicura pensare che anche Simon Pietro ha sbagliato parecchio... eppure Dio gli ha affidato le chiavi del Paradiso»...

 

Devo perché posso. Per Simone Moro non è solo il titolo dell’ultimo successo editoriale, ma è il motto di una vita. «Devo perdonare perché posso perdonare, devo credere alle imprese perché posso farcela», dice l’alpinista, fra i più noti al mondo.

 

Simone Moro, «devo perché posso» sembra un imperativo morale. Per lei quale significato ha?

«Mi ispiro a santa Teresa di Calcutta e al suo la “felicità è un percorso, non una destinazione”. Spesso nella vita ci costruiamo degli alibi: non sono ricco, non ho raccomandazioni, non ho l’età. Io invece penso che ogni giorno ci si debba mettere in cammino per raggiungere i propri obiettivi. Poi non sempre si ottiene il risultato, io stesso riesco a portare a termine una spedizione su tre. Mi chiamo Simone: mi rassicura pensare che anche Simon Pietro ha sbagliato parecchio... eppure Dio gli ha affidato le chiavi del Paradiso».

 

Cosa sognava da bambino?

«Di diventare alpinista! I miei genitori ci portavano in campeggio sulle Dolomiti. Andavamo a funghi e a camminare: attività semplici, autentiche, che mi hanno fatto innamorare della montagna. Poi sognavo a occhi aperti leggendo i libri di Reinhold Messner (alpinista fra i più forti di tutti i tempi, ndr). Anche io avevo una lunghissima lista di alibi: nato in una famiglia “povera”, nella città di Bergamo e non sotto le Alpi. In più fra i miei fratelli ero l’unico con gli occhiali e i denti storti, il più bruttarello insomma. Però dentro di me sentivo un fuoco e, lavorando sodo, ho trasformato queste condizioni sfavorevoli nel segreto del mio successo. Ho capito che scalare era la mia chiamata e che rimanendo normale, senza rinnegare i miei valori, avrei potuto trovare la felicità».

 

E i suoi genitori? Come hanno accolto questo desiderio?

«Mi hanno detto “Ok, provaci. Il tuo sogno è sacro”. Allo stesso tempo mi hanno spinto a studiare per avere un “piano b”».

 

Come ha fatto a diventare il fuoriclasse che è oggi?

«Grazie alla normalità, che è poi il segreto dell’eccezionalità. Ho fatto cose straordinarie (come scalare il Nanga Parbat in inverno, impresa riuscita a nessun altro, ndr) rimanendo un uomo ordinario. Gli atleti spesso vengono dipinti come eroi, ma attenzione: non sono solo le abilità a cambiare l’uomo, ma anche le virtù. Ciascuno ha dentro di sé l’ingrediente per diventare eccezionale».

 

Lei non fa mistero della sua fede. Chi gliela ha trasmessa?

«Provengo da una famiglia fortemente cattolica. I miei nonni paterni avevano dieci figli: tre sono diventati preti, una suora e una fa la perpetua. I miei genitori non erano bigotti, non mi hanno mai presentato la fede come una lista di cose da non fare, ma mi hanno fatto capire che l’importante è ciò che dai. Mi hanno fatto provare la bellezza del credere, con la loro vita mi hanno fatto vedere che valeva la pena di essere cristiani. Oggi quando sugli ottomila scorgo la linea curva dell’orizzonte, riconosco la mano del “grande architetto”. Capisco che, oltre all’ambizione, c’è qualcosa di più grande».

 

Quali sono le esperienze di Chiesa che più l’hanno formata?

«Ho frequentato l’oratorio e servito Messa, quella delle 5.30 del mattino, con don Battista. Con la mia famiglia partecipavo, invece, alla Messa prefestiva per poter andare in montagna la domenica. Oggi sono un uomo di fede, non un ciucia candele. Riconosco che non sono un fedele perfetto, ma non mi interessa la religiosità d’apparenza, so che la Chiesa è fatta di uomini».

 

Per lei cosa significa vivere da cristiano?

«Cerco di ricordarmi che possiamo essere ingrediente di cambiamento anche senza fare cose straordinarie. Se vai controcorrente diventi dirompente».

 

Può farci un esempio concreto?

«Si comunica tanto con il proprio comportamento: io ad esempio sono residente in Italia e qui pago le tasse, pur producendo reddito all’estero. E poi ricordiamoci che la risata contagia positivamente gli altri! Quando qualcuno non ricambia il saluto, gli chiedo: “Scusi, è arrabbiato?”. Mia mamma, che ha fatto la quinta elementare, mi ha sempre detto: “Simone, i tempi cambiano ma buongiorno, grazie e buonasera vanno sempre di moda”».

 

Ai Campi base sull’Himalaya si trovano persone di tutte le fedi. Cosa ha imparato da questi incontri?

«A essere più cristiano. I buddhisti, ad esempio, ringraziano Dio dal mattino alla sera e le loro bandierine sono ovunque. Per loro è normale professare la fede, da noi invece quasi c’è da vergognarsi. Oggi io dico sempre che credo in Dio, per me rendere nota la mia fede è diventata quasi una missione».

 

Cosa trova di diverso fra il cristianesimo e le altri fedi?

«La libertà di noi figli e il perdono di Dio. La fede cristiana è così, dà una enorme libertà, compresa quella di sbagliare, e quindi richiede un’altrettanto grande resposabilità. La felicità è completamente nelle nostre mani: devo essere felice perché posso esserlo».

 

Lei è anche pilota di elicottero. Come mai?

«Ho preso il brevetto innanzitutto perché mi piace volare. Poi desidero fare soccorso in Nepal e salvare chi ha bisogno».

 

C’è chi le ha fatto le pulci proprio per l’acquisto del velivolo. Quanto vale lei la ricchezza?

«Gesù ha detto che è difficile che un ricco entri nel regno dei cieli. Bene, ha detto difficile, non impossibile. Si può essere ricchi e prendere per mano tanta gente. Io non sono un fanatico della povertà, i soldi servono anche per realizzare progetti per sé e gli altri».

 

Nell’ultima impresa, durante l’attraversamento della cresta del Kangchenjunga in Himalaya, è tornato indietro. Come ha vissuto quel momento?

«Non arrivare in cima non è un fallimento, come per uno studente non lo è “bucare” un esame. L’importante è dare tutto! Tra l’altro, se hai sempre e solo vinto, quando cadi è una catastrofe».

 

Lei ha due figli. Come vive la paternità?

«A chi mi accusa di essere sempre in spedizione rispondo che il tempo ha senso per come lo viviamo. Mia figlia Martina (18 anni) da piccola mi ha disegnato sulla montagna: “Mio papà scala le montagne perché è felice e mi rende felice”. Anche se con lei non sono stato un padre troppo presente (Moro ha avuto la figlia da una relazione prima del matrimonio, ndr), il nostro rapporto è sempre più prezioso. Oggi poi vivo il tempo con mio figlio Jonas (7 anni) come un regalo. Spengo il cellulare e gioco con lui. Sa perché io e mia moglie Barbara lo abbiamo chiamato Jonas? Mi piace la figura del profeta Giona, che, quando Dio gli chiede di andare a Ninive, scappa lontano. Vorrei che mio figlio fosse sì “birichino” come il profeta, ma con valori forti».

 

Come si cresce oggi un bambino?

«Bisogna responsabilizzare i piccoli ma lasciarli liberi di sognare, senza smorzarne l’entusiasmo. Ai miei figli ho cercato di regalare la voglia di sognare e d’impegnarsi».

 

Lei trasmette gioia, mentre oggi la depressione è molto diffusa...

«Il problema è che ci si sente parte di un film che non ci appartiene, mentre nella vita è fondamentale sentirsi protagonisti. Fra il 1990 e il 1992 ho lavorato in miniera in Val Formazza per pagarmi le spedizioni. Facevo anche il doppio turno, ma ero felice perché stavo lavorando al mio sogno».

 

Qual è il suo consiglio per essere felici?

«Se ami te stesso, ami il mondo. Prendersi cura di sé significa però guardarsi dentro, non andare alla beauty farm! Per me camminare da soli è un toccasana: penso a chi ho incontrato, mi faccio domande. Cerco di muovermi in silenzio e silenziare un po’ il mio mondo, cellulare compreso. Di recente ho riscoperto la contemplazione, consiglio a tutti di chiedersi quanto tempo si dedica a sé stessi e allo stare in silenzio».

 

LA BIOGRAFIA: IL RE DEGLI OTTOMILA IN INVERNALE 
Simone Moro ha iniziato ad arrampicare a 13 anni. Da allora è stato tutto un progredire prima su roccia poi su vie alpinistiche, fino ad approdare agli ottomila. È l’unico alpinista ad avere raggiunto quattro ottomila in inverno: il Shisha Pangma (8.027 metri), il Makalu (8.463), il Gasherbrum II (8.035) e il Nanga Parbat (8.126). È salito su sette dei quattordici ottomila e ha toccato quattro volte la cima dell’Everest (8.848). Dal 2009 è pilota di elicottero. All’attività alpinistica e di elicotterista affianca quella di scrittore. È autore di decine di libri. L’ultimo, Devo perché posso. La mia via per la felicità oltre le montagne (Rizzoli), scritto con la sua manager Marianna Zanatta, svela il segreto della realizzazione di sé. Nel 2015 ha condotto su Rai2 il reality Monte Bianco in cui sette vip, accompagnati da altrettante guide alpine, si cimentavano nella scalata della vetta più alta d’Europa. Il 15 novembre ha partecipato alla trasmissione Padre nostro di Tv2000 con la compagna di cordata Tamara Lunger, commentando il versetto «sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra».

 

Laura Belloni

http://www.credere.it

 

 

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