Dalla finestra della sua bella casa romana, a un passo da Fontana di Trevi, non entra nessun rumore. Tra i mobili scuri e i soffitti alti, la sua voce infrange continuamente un silenzio fitto che sembra governare le stanze e gli oggetti della sua casa donandole un senso di piacevole armonia...
del 22 novembre 2010
         
          <<La scrittura>> - ammette sorridendo – <<a volte ferisce>>. La scrittura vissuta come una ferita insanabile: <<che puzza come quella di Filottete>>. Antonio Debenedetti, scrittore e giornalista, ha settantatre anni, capelli grigi sottili e un viso da antico cammeo. Ha esordito come scrittore nel 1972 e da allora non ha più smesso di scrivere racconti.
 
          Seduto in un angolo del divano di casa sua, descrive così il tormento che accompagna la vocazione dello scrittore: <<Succedono tante cose strane quando uno scrive. Si possono avere delle crisi di pianto per stanchezza. Provare dolore>>.
          Nella giovinezza bisogna sapersi ascoltare e capire se quello che si fa nasce da una necessità autentica o da vanità. I suoi piccoli occhi verdi sono leggermente chiusi quando riprende in mano il filo dei propri ricordi e racconta della letteratura come di una <<cosa vista da vicino>>.
          Ha trascorso l’infanzia in una straordinaria intimità con i protagonisti della letteratura che ha attraversato il Novecento. Molti di loro erano assidui frequentatori della sua casa perché legati da profonda amicizia al padre Giacomo, uno dei maggiori critici letterari del Novecento.
          Giorgio Caproni, gli diede ripetizioni private una volta che rimase a casa per una malattia. All’università ha avuto come professore Giuseppe Ungaretti. Da bambino tirò una pantofola a Pablo Neruda, che era entrato nella sua stanza mentre stava pregando. In quei momenti, ricorda Debenedetti, non desiderava essere interrotto. Nel ripensare a questa famiglia ideale sorride spesso, allontanando quella freddezza e quel distacco che a volte accompagnano gli scrittori.
          Nel suo straordinario libro, Giacomino, non ha esitato a mettere al servizio della sua vita di scrittore e giornalista questi ricordi, vivi e nitidi, restituendoci poeti e scrittori (che siamo abituati a pensare senza un volto ) sotto una luce più familiare, più intima. In quelle pagine Pirandello, Montale, Moravia e tanti altri sono tratteggiati sempre con obiettività nei vizi e nelle virtù, senza mai nascondere quella fragilità dell’esistenza umana di fronte alla quale nessuno può sottrarsi. Neppure i poeti.
          Forse è per questo che ama il Novecento più di ogni altro secolo e l’Ottocento, quello francese, in particolare ma <<sarei un pazzo se non amassi tutto quello che nei libri c’è>>.
Dalla finestra della sua bella casa romana, a un passo da Fontana di Trevi, non entra nessun rumore. Tra i mobili scuri e i soffitti alti, la sua voce infrange continuamente un silenzio fitto che sembra governare le stanze e gli oggetti della sua casa donandole un senso di piacevole armonia.
          Mentre parla, guarda spesso il piccolo tavolino di vetro dalla base di acciaio che gli sta di fronte, lo stesso utilizzato dal padre Giacomo che <<qui>> spiega <<scriveva negli ultimi anni della sua vita>>. Misurato nei gesti, generoso nel raccontare è un raffinato conversatore e un formidabile narratore di eventi: << Qualche giorno prima di morire Moravia mi disse: “caro lei con la morte finisce tutto”.
          Queste parole forse perché esprimono anche un mio dubbio mi tornano molto spesso>>. Un argomento, quello della fede, che lo tocca profondamente: << Io vado in chiesa tutti i giorni. Certamente i dubbi sono moltissimi, però non potrei mai rinunciare alla fede. Bisogna affidare la propria speranza a Dio e credergli>>.
          Non nasconde una certa apprensione quando parla della crisi economica e del cambiamento epocale che stiamo attraversando: <<Questa crisi economica non è spiegabile soltanto con leggi economiche, riguarda probabilmente anche il cambiamento della nostra epoca. Fare previsioni è impossibile. Invidio chi è giovane perché vedrà come andrà a finire. Io non lo vedrò perché non è una cosa che durerà poco>>.
          Con la crisi cambierà l’economia e cambieremo anche noi. Forse la letteratura saprà aiutarci nel ricercare quell’orientamento di senso che abbiamo perso. Potrà aiutarci anche a riscoprire quell’aspetto dell’esistenza umana oggi un po’ trascurato dai narratori: l’interiorità.
          Antonio Debenedetti vive in una casa costruita intorno ai libri. Quando era giovane spesso rinunciava al mare, agli amici per dedicarsi alla scrittura. La vocazione e la sensibilità letteraria provocano perfino un senso di esclusione, fanno sentire goffi e inadeguati a volte.
          Adesso si è riconciliato con le parole, meno doloroso è <<il voler capire tutte le cose>>. Ma la sensazione è che per uno scrittore il rapporto con la vita vera, con la realtà, rimanga sempre un taglio aperto. Sarà questo il significato di quella ferita di cui ogni scrittore dovrebbe sentire il dolore?
Rosa Russo
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