Bisogna di nuovo far respirare il dialogo a tanti universi e ambienti. Così, infatti, risorge la speranza che la pace sia possibile.
Il nostro non è davvero un mondo di pace. Le notizie e le immagini quotidianamente trasmesse mostrano la «terza guerra mondiale», una guerra a pezzetti o a capitoli, secondo l’espressione di papa Francesco. La guerra è arrivata anche in Europa con il conflitto russo-ucraino con più di 1.100 morti. Anzi, l’Europa è circondata dai "capitoli" di una "guerra mondiale": quelli saldatisi tra loro in Siria e Iraq con la terribile battaglia del "califfato". A un migliaio di chilometri dalla Sicilia, infuria la guerra civile libica con forti interferenze internazionali (come nel conflitto siriano e iracheno). Avvenire del resto, quasi quotidianamente, percorre la mappa del mondo: basta a mostrare come sia saturo di guerre. In questo quadro preoccupante, c’è una riabilitazione della violenza bellica come strumento per affermare diritti e interessi o per dominare. Ci sono "potenze" che giocano con la guerra, magari combattuta da altri.
Ma quale guerra? Il richiamo alle motivazioni religiose è conclamato in quella del califfato, tanto da accreditare l’idea di una guerra di religione. Si tratta soprattutto di una guerra "totale" che distrugge l’altro (cristiano, yazida, musulmano), se non è assimilabile al proprio modello. In questi conflitti c’è un evidente arretramento rispetto al diritto umanitario e alle convenzioni di Ginevra per i prigionieri di guerra, i feriti e i civili. Basterebbe soffermarsi sull’esibizione della crudeltà da parte del "califfato" per fare un impressionante terrorismo mediatico. Tutto questo conferma che il nostro non è proprio un mondo di pace.
Il grande rischio, tra l’altro, è un cedimento alle ragioni e alle passioni della guerra, intesa come realtà ineluttabile e strumento necessario. È un cedimento culturale: una semplificazione davanti a situazioni complesse (che richiedono interventi articolati). Ma può essere anche un cedimento "religioso". È evidente nel mondo musulmano, intimidito dall’aggressione di minoranze totalitarie; o catturato dallo scontro tra sunniti e sciiti. I musulmani stanno vivendo una delle più grandi crisi degli ultimi secoli. In altro modo, il cedimento può prendere anche i cristiani, dimentichi dell’«esperienza di umanità» della Chiesa lungo il Novecento (per cui la guerra lascia sempre il mondo peggiore di come l’ha trovato). Avvenne quando si dubitò della strenua opposizione di Giovanni Paolo II alla guerra in Iraq. O quando i cristiani, ridotti al privato, non credono di incidere nella storia con una profezia di pace.
Il sussulto di solidarietà e di sdegno per i cristiani e le minoranze in Nord Iraq, sentito da tanti, rappresenta oggi una volontà condivisa: non cedere al male, all’aggressiva cultura della guerra. C’è bisogno di una grande iniziativa di pace, capace di coinvolgere la gente (che sente di non dover restare impotente), di stimolare i governi talvolta senza visione. L’iniziativa di pace si sviluppa in molte direzioni: la difesa dei perseguitati, la solidarietà, un’azione diplomatica che coinvolga tutti gli attori, ma anche la ripresa del dialogo a tutti i livelli. Su questo vorrei soffermarmi. Lo faccio nell’imminenza di un convegno tra i leader religiosi nello spirito di Assisi ad Anversa in Belgio che si apre oggi, promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. A cent’anni da quella guerra europea che divenne mondiale, le religioni si interrogano su "Il futuro è la pace".
Le religioni, pur nella loro diversità, parlano di un destino comune della famiglia umana. Il dialogo tra loro, quello con gli umanisti, l’attenzione alle situazioni di crisi le sottraggono dalle attrazioni fatali della cultura del conflitto: l’incontro fa emergere con forza, come ad Assisi nel 1986, un messaggio di pace. Recentemente papa Francesco ha affermato: «il mondo soffoca senza dialogo». Bisogna di nuovo far respirare il dialogo a tanti universi e ambienti. Così, infatti, risorge la speranza che la pace sia possibile. Non è un’idea da pacifisti, ma una convinzione maturata vivendo ad occhi aperti la storia dell’ultimo secolo. È soprattutto la volontà di essere pacificatori in un mondo che ne ha bisogno. Sì, la fermezza dei pacificatori, non il fanatismo o il totalitarismo di chi coltiva la violenza e la guerra.
Andrea Riccardi
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