«Ho deciso di raccontare la mia storia per dire alle persone che soffrono che, anche nelle circostanze più dolorose, è possibile trovare la forma più alta d'amore. Questo sentimento rimarrà dentro di noi anche dopo e paradossalmente ci farà stare bene».A un anno dalla scomparsa dell'amata moglie Manuela, Cesare Prandelli si racconta e ci spiega come ha giocato la partita della vita.
del 21 novembre 2008
«Ho deciso di raccontare la mia storia per dire alle persone che soffrono che, anche nelle circostanze più dolorose, è possibile trovare la forma più alta d’amore. Questo sentimento rimarrà dentro di noi anche dopo e paradossalmente ci farà stare bene». A un anno dalla scomparsa dell’amata moglie Manuela, Cesare Prandelli si racconta e ci spiega come ha giocato la partita della vita. La prima conferma dell’affetto sincero che Firenze prova per Cesare Prandelli l’ho avuta al mio arrivo in taxi allo stadio Franchi: sul cruscotto dell’auto campeggia uno scudo viola. «Tifoso?» chiedo al tassista. «Certo! – risponde garbatamente –. Chi deve intervistare?». «Prandelli» rispondo. «Gli vogliono tutti bene, qui!». Poco più tardi capisco perché. Ci presentano. Mi metto in ascolto con una buona dose di emozione che, col passare dei minuti, si trasforma in felice stupore. Quello che ne esce non è solo il racconto di una morte, ma della gioia di esistere, quella vera, tipica di chi si affida… nonostante tutto.
 
«Lei frequentava il liceo». Inizia così il suo racconto, con una voce che, via via, s’intenerisce. «Abbiamo cominciato a vederci come tutti i ragazzini e da lì è nata la nostra storia… una bella storia. Nicolò è nato a Torino e Carolina a Bergamo. Io e Manuela abbiamo sempre cercato di farli crescere lontano dal mio ambiente. E adesso sono veramente orgoglioso di quella scelta: niente privilegi, niente raccomandazioni. Ho due ragazzi meravigliosi».
 
E la nostalgia?
 
Ogni tanto hai bisogno di ricordare e di coccolarti, e così, con la memoria, vai a rivedere tante cose. In altri momenti, invece, capisci di dover andare avanti. Io e i ragazzi ne parliamo spesso. Ci diciamo di aver avuto la fortuna di conoscere una persona meravigliosa: la mamma, ma non dobbiamo fare paragoni mettendo come punto di confronto sempre e comunque lei, perché diventerebbe difficile andare avanti. Il rimando è troppo forte (un attimo di silenzio poi continua). A molti le mie parole potrebbero suonare strane: abbiamo vissuto un dramma, ma l’abbiamo vissuto serenamente. Non so che alchimia sia capitata. Credo sia per il fatto che eravamo uniti anche dal punto di vista della fede e, in questo percorso, siamo stati accompagnati anche da fra’ Elia. Ricordo che parecchie persone, venute a trovare Manuela in quei giorni, avevano avvertito un’aria particolare, diversa rispetto a quella che si respira visitando una persona morta. Anche noi avevamo, e abbiamo tuttora, la stessa percezione. Non nego che ci siano momenti duri in cui i miei ragazzi hanno più difficoltà. Tuttavia credo che dobbiamo essere orgogliosi di noi, riconoscendo di essere fortunati. Chi ha vissuto un’esperienza tanto drammatica, non sempre ha avuto la possibilità di affrontarla in modo così sereno.
 
Sono belle le sue parole.
 
È difficile parlarne, ma credo sia giusto farlo. Bisogna dare fiducia e speranza alle persone che stanno vivendo momenti come questi. Oltre a fra’ Elia, che è stata una figura straordinaria, abbiamo conosciuto dei medici che ci hanno aiutato a vivere gli ultimi mesi. Manuela li chiamava «i miei angeli». Ci hanno spiegato che, in questi casi, l’ultimo senso che si perde è l’udito. Quindi, se fino alla fine il malato ascolta una voce familiare, si sente comunque e sempre coccolato. In questa situazione i miei figli sono stati bravissimi. Non era facile. E Manuela, nonostante il dolore e la difficoltà, ha accettato di attraversare questo momento, l’ha proprio accettato.
 
Una malattia che non perdona lascia il tempo di salutare la vita. Possiamo chiederle l’ultimo ricordo bello?
 
I sorrisi che ci ha fatto qualche ora prima.
 
Molte persone attraversano il dolore accompagnati dalla solitudine. Com’è stato per la sua famiglia?
 
La forza della famiglia. Cesare Prandelli con la moglie Manuela e i figli Nicolò e Carolina.All’inizio della malattia abbiamo mantenuto il riserbo. Manuela non voleva far sapere della sua condizione e, benché io sia per certi aspetti un solitario, ammetto che questa esperienza è davvero difficile da vivere isolati dagli altri. È importante avere qualcuno vicino. Noi non siamo stati lasciati mai soli. La fede ci ha dato tanta energia. Soprattutto la preghiera, fatta insieme ai familiari e ai figli. Abbiamo avuto la fortuna di avere legami importanti e veri già da prima. Penso che la preparazione sia fondamentale per affrontare il dopo. Se arrivi preparato, dopo aver fatto delle tappe, credo sia meno difficile. Se non sei pronto e hai vissuto da solo, poi da solo devi uscirne ed è un lavoro estremamente faticoso. La famiglia di mia moglie è stata straordinaria. Abbiamo organizzato tutto insieme. Io in quel periodo dovevo comunque allenare ed erano mio cognato Franco o mia cognata Raffaella a portare Manuela a fare gli ultimi controlli. Poi c’erano le mie sorelle. La nostra è una tribù, una famiglia allargata, da trent’anni andiamo in vacanza in non meno di venti persone. Tutti erano consapevoli del problema di Manu e tutti hanno partecipato. Nel dopo, con Nicolò e Carolina, abbiamo continuato ad avere gli stessi riferimenti.
 
Se facessimo un paragone calcistico: come va giocata la relazione tra due persone che si amano?
 
Dipende da come vuoi impostare la partita. Se giochi pensando solo al risultato, allora prima o poi perdi e non c’è possibilità di continuità nel rapporto. La partita va giocata con l’amore, la partecipazione, con il saper ascoltare l’altro e saper fare un passo indietro se necessario.
 
In un’intervista lei parla della paura di amare di cui capita di discutere coi suoi ragazzi e con i suoi figli. Bisogna esagerare nell’amare?
 
Fin da piccolo sono stato abituato alla fisicità e a un contatto fatto di abbracci, quasi a «stropicciare» le persone a cui voglio bene. Esprimo ancora in questo modo i miei sentimenti alle mie sorelle o a mia madre che ha ottant’anni. Ho trasmesso questo anche ai miei figli. Molto spesso i ragazzi hanno paura di dire a una persona «ti voglio bene» o «ti voglio abbracciare». I ragazzi hanno paura dei propri sentimenti. Fanno fatica a confidarsi e a dire a una persona certe parole così intime. Ho sempre detto ai miei figli di custodire l’entusiasmo nel comunicare i propri sentimenti, sia che li debbano esprimere sul piano dell’amicizia sia che lo debbano fare nell’ambito del lavoro. Amare significa darsi completamente all’altro, essere a sua disposizione. Bisogna quindi esagerare, non possiamo limitarci concedendo solo pezzettini di noi.
 
Dopo un anno come avete vissuto i momenti che solitamente trascorrevate insieme?
 
Abbiamo passato del tempo insieme agli amici veri, siamo andati al mare, ci siamo coccolati, abbiamo ricordato, cercando comunque di superare il disagio di parlare di alcuni ricordi per noi piacevoli ma che, richiamati alla mente di altre persone, creano sempre un po’ di commozione. Ci siamo detti anche che ci volevamo divertire perché è giusto così. Dopo mesi nei quali la mia indole riservata mi aveva portato a chiudermi ancor di più in me stesso, ero diventato, di fatto, un orso. Quest’estate, grazie agli amici più cari, ho ritrovato il piacere di aprirmi. Con i miei figli abbiamo pensato fosse giusto.
 
Sono molte le manifestazioni d’affetto nei suoi riguardi. Come le frasi di alcuni striscioni, esposti in occasione della partita Inter-Fiorentina del 2007: «Noi scuola di calcio, tu maestro di vita!». e «Uniti nelle vittorie, ancor più nel dolore». Nella sua squadra lei è considerato più un padre e un maestro di vita che un allenatore. Come si spiega la buona fama che l’accompagna?
 
Bisogna sfatare un mito. Mi piace tirar fuori il meglio dalle persone. Tuttavia ci sono momenti in cui alcuni modi di fare non sono accettabili, sono situazioni difficili e di confronto. Se ci pensiamo bene in tutti gli ambienti, anche nelle famiglie, ci sono dei conflitti che, se non sfociano mai nel confronto, precludono la possibilità di poter sanare un rapporto. Lasciare un conflitto nel cassetto e tirarlo fuori dopo mesi significa rovinare una relazione. Bisogna avere la forza e l’energia – non sempre ce l’hai – di cogliere i messaggi che una persona ti sta mandando. Cerco quindi di capire e prevenire. Ovviamente, non sempre ci riesco. In certe situazioni devo essere autoritario, in altre autorevole, in altre democratico. Il fatto di considerare i miei ragazzi degli adulti, li porta a rispettarmi di più.
 
«Violanews.com», con la collaborazione di «Radio Blu» e del «Corriere dello Sport-Stadio», ha pensato di lanciare la proposta per riconoscerle la cittadinanza onoraria e il «Fiorino d’Oro» della città di Firenze.
 
Da questo punto di vista Firenze è esagerata, si parlava di amore prima… Firenze ama veramente molto.
Non posso lasciare Cesare Prandelli senza chiedergli chi vincerà il campionato. Ride. Mi dice che quella è la domanda perfetta, poi si sbilancia: «Vedo bene l’Inter». Ci salutiamo, lo seguo con la coda dell’occhio mentre se ne va e penso a una frase di Madeleine Delbrel: «Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso. Non importa quel che dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una stilografica. Parlare o tacere, rammendare, (allenare una squadra) o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina.(…) è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare».
 
 
La scheda
 
Claudio Cesare Prandelli nasce a Orzinuovi (Brescia) il 19 agosto 1957. Gioca come centrocampista nella Cremonese, nell’Atalanta e nella Juventus. Dal 1990 inizia la carriera come allenatore nell’Atalanta, vengono poi Lecce, Verona, Venezia e Parma.
Nel 2004 è ingaggiato dalla Roma, ma si dimette prima dell’inizio del campionato a causa della grave malattia che già aveva colpito la moglie Manuela Caffi. Nel 2006 Diego Della Valle lo chiama come nuovo allenatore della Fiorentina. Il 26 novembre 2007, all’età di 45 anni, Manuela muore. La testimonianza, fatta di forza silenziosa e riservato dolore, di quest’uomo e della sua famiglia confermerà a Prandelli la stima di tutto il mondo del calcio, oltre che per le sue doti professionali, anche per la sua grande statura umana. Nel 2008, sotto la sua guida, la Fiorentina raggiunge il quarto posto nella Serie A e l’accesso ai preliminari della Champions League 2008/2009.
 
Cosetta Zanotti
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