La formazione di Paolo: Damasco - quarta ed ultima puntata

È assolutamente certo che per Paolo la fede in Cristo e la comunione con Cristo sono nate dall'esperienza fatta a Damasco. Da quando Paolo ha potuto vedere Gesù nella sua gloria, il Signore esaltato e glorioso rappresenta una grande realtà nella sua vita. Da quel momento, egli è «schiavo di Gesù, il Salvatore»...

La formazione di Paolo: Damasco - quarta ed ultima puntata

da Teologo Borèl

del 12 gennaio 2009

Ci rimane solo una chiave per la teologia paolina e si chiama Damasco. Paolo appartiene a quegli uomini che sono avanzati nella vita grazie ad una violenta rottura, e la sua teologia si caratterizza essenzialmente per il fatto ch’è derivata da una svolta nella vita.

 

Noi siamo molto ben documentati sull’esperienza di Damasco. La fonte più autorevole è la testimonianza stessa dell’Apostolo; si trova in Gal 1,12-17 [1]; 1Cor 9,1; 15,8.10; 2Cor 4,6; Fil 3,7.12. A ciò si aggiunge la testimonianza delle comunità della Palestina sulla sua conversione da persecutore in apostolo (Gal 1,23 s.) ed infine il racconto degli Atti (9,1-19), che nei passi 22,4-16 e 26,9-18 viene ripetuto da Luca con alcune varianti. È degno di nota come questo racconto in momenti decisivi coincida con la testimonianza dell’Apostolo: Paolo inizialmente ha perseguitato la comunità cristiana (Gal 1,13.23; 1Cor 15,9; Fil 3,6 / At 9,1 s.; 22,4 s.; 26,9-11); la conversione è localizzata a Damasco o nei pressi di questa città (Gal 1,17 / At 9,3.8.10; 22,5 s.; 10 s.; 26,12); essa consiste nella visione del fulgore luminoso del Signore (2Cor 4,6; cf. 1Cor 9,1; 15,8 / At 9,3; 22,6.11; 26,13).

 

 

Vorrei cercare di dimostrare sulla base di undici osservazioni come tutta la teologia dell’Apostolo trovi le sue radici in questa esperienza.

 

1) È assolutamente certo che per Paolo la fede in Cristo e la comunione con Cristo sono nate dall’esperienza fatta a Damasco. Da quando Paolo ha potuto vedere Gesù nella sua gloria, il Signore esaltato e glorioso rappresenta una grande realtà nella sua vita. Da quel momento, egli è «schiavo di Gesù, il Salvatore» (Rm 1,1), sua proprietà personale, legato a lui come uno schiavo al suo padrone. Non meno di 55 volte, nelle lettere paoline, incontriamo l’espressione «nostro Signore». Non è certo un caso che l’unico passo paolino in cui incontriamo la locuzione «mio Signore» sia quello di Fil 3,8, dove egli parla della sua vocazione come della «conoscenza sovra-eminente di Gesù Cristo, mio Signore». Con quanta forza la cristologia paolina sia determinata dalla sua visione del Cristo a Damasco, lo si vede anche dal fatto che il titolo di Kyrios, in lui, designa in primo luogo il Signore presente nella Chiesa, il Christus praesens, che gli era venuto incontro come il “presente”.

 

2) Paolo era cosciente che un cristiano appartiene, sin da ora, nel Cristo, al mondo futuro di Dio. «Perciò se uno è in Cristo è una nuova creazione; ciò che era antico è passato: ecco, il nuovo è sorto» (2Cor 5,17). «Siano rese grazie al Padre... egli ci ha sottratti al potere delle tenebre e ci ha trasferiti nei Regno del suo Figlio diletto» (Col 1,12 s.). Anche questa consapevolezza, di appartenere qui ed ora al santo mondo di Dio, deriva dall’esperienza di Damasco. Poiché, quando Paolo riferisce l’avvenimento accadutogli in quell’ora con l’espressione: «Dio mi ha rivelato suo Figlio» (Gal 1,16), adopera un termine (apokalyptein), che era il termine tecnico per la rivelazione finale di Dio (cf. Mt 10,26; Lc 17,30; Rm 8,18; 1 Cor 3,13). Lo splendore che lo avvolse significò per lui una reale irruzione del nuovo mondo di Dio nella sua vita.

 

3) Nell’episodio di Damasco si radica la sua comprensione dell’azione salvifica di Dio nel Cristo, che forma il contenuto centrale del messaggio paolino. Dobbiamo qui partire da Gal 3,13: «Cristo ci ha riscattati da questa maledizione della legge, essendo per noi divenuto maledizione. Sta scritto infatti: “Sia maledetto chiunque è appeso al legno del patibolo” (Dt 21,23)». Questa espressione si trova del tutto isolata nel Nuovo Testamento. Nessuno ha osato altrove definire Gesù come riprovato da Dio. Per il carattere inaudito, enorme di questa affermazione esiste soltanto una spiegazione: essa proviene dal vocabolario del persecutore Saulo, traboccante di odio. Così Gal 3,13 ci consente di avere una visione dei motivi che lo spinsero a perseguitare i cristiani. Egli scorgeva in loro i discepoli di un seduttore, del capo di un’eresia che era suo dovere estirpare. Egli aveva una prova concreta tra le mani che questo Gesù di Nazareth fosse un falso Messia: la croce. Ed ora Dio gli faceva vedere con i suoi occhi il dannato e maledetto nella gloria celeste. In questa visione dovette apparire chiaro a Paolo come la morte in croce di Gesù non fosse affatto la morte di un delinquente, ma come i cristiani avessero ragione quando affermavano che questa morte aveva valore di sostituzione per noi. Paolo espresse questa certezza in Gal 2,20, in maniera personalissima: «Mi amò e diede se stesso per me». Egli sopportò la maledizione per me.

 

4) Nell’episodio di Damasco si è stabilita la sua consapevolezza dell’onnipotenza della grazia. «Per grazia di Dio sono quello che sono», afferma Paolo (1Cor 15,10), dando uno sguardo retrospettivo alla sua vocazione. Che Dio abbia collocato nel numero dei testimoni della Resurrezione lui, che le comunità della Palestina consideravano un mostro, perché voleva distruggere radicalmente la Chiesa di Dio (Gal 1,13); più ancora, che Dio lo avesse reso ambasciatore di Cristo (2Cor 5,20); che egli, nelle dure fatiche al servizio del Vangelo, dovesse superare tutti gli altri inviati (1Cor 15,10) per tutto questo esisteva un solo vocabolo: grazia. Nuove realtà creano un nuovo linguaggio. Ciò vale anche nel nostro caso. Charis si riferisce ad un concetto centrale della teologia dell’Apostolo; si trattava di un nuovo uso del termine. Nel greco profano, la parola indicava grazia, amabilità, favore, benevolenza, ringraziamento, ed era usata quasi esclusivamente nel significato profano. Ciò vale anche per il giudaismo ellenistico, in cui appare quasi del tutto isolata e indica l’atteggiamento pieno di bontà di Dio nei confronti degli uomini [2]. Il significato centrale che la parola assume in Paolo non ha alcuna analogia.

 

5) Strettamente collegata è una osservazione più vasta. Con maggior forza di tutti gli altri scrittori neotestamentari, Paolo sottolinea il solo operare di Dio, la sua elezione gratuita, che trascende ogni azione umana (Rm 9-11). In definitiva non si tratta della volontà o degli sforzi dell’uomo, ma soltanto della misericordia di Dio. Con locuzioni volutamente unilaterali, Paolo sottolinea la sovranità assoluta di Dio. «Egli usa misericordia a chi vuole, e indurisce chi vuole» (9,18) come sta scritto: «Io faccio grazia a chi voglio far grazia ed ho pietà di chi voglio avere pietà» (Es 33,14). Paolo ha sperimentato nella conversione della sua vita questo operare esclusivo di Dio. Siamo abituati a chiamare questo momento «la conversione» dell’Apostolo. Paolo dal canto suo non si serve di questa locuzione e l’avrebbe respinta appassionatamente, perché la locuzione «convertirsi» indica una decisione umana, o per lo meno la implica. Ma poiché Cristo «chiama mediante la sua grazia» (Gal 1,15) lui, il persecutore, ogni cooperazione umana veniva esclusa. Dio, soltanto lui, era all’opera. Egli portava a compimento ciò che aveva deciso molto tempo prima che Paolo nascesse (1,15 a). E ciò che era avvenuto, non era una conversione, ma una chiamata (1,15 b).

 

6) Nell’episodio di Damasco si radica la sua consapevolezza della spaventosa natura del peccato. Paolo era certamente già prima cosciente della santità di Dio e della colpa dell’uomo; entrambe appartengono alla parte migliore della sua eredità ebraica. Ma nell’intimo del suo cuore non aveva preso sul serio il peccato; aveva invece creduto di essere «quanto alla giustizia che si può raggiungere con la legge, di condotta irreprensibile» (Fil 3,6). Ora si trova improvvisamente dinanzi al fatto abissale che egli ha bestemmiato il Messia e ha cercato di distruggere la sua comunità. L’amara esperienza che le intenzioni più pie possono condurre alle colpe più gravi, esperienza che egli si è trascinata dietro come un peso lungo la sua esistenza, ha infranto per sempre la sicurezza in se stesso, il «vantarsi di sé dinanzi a Dio», il pensar bene di se stesso.

 

7) Soltanto pensando all’esperienza di Damasco si comprende la posizione radicale dell’Apostolo contro ogni pietà che si basi sulla legge. Paolo sintetizza il significato di quell’ora per la sua vita nel fatto che egli ha vissuto un sovvertimento radicale di tutti i valori; tutto ciò che sino a quel momento era apparso «valido», era diventato per lui «privo di valore», «a confronto del vantaggio sovra-eminente che è la conoscenza di Cristo Gesù mio Signore» (Fil 3,7 s). Prima di Damasco, il contenuto della sua vita era stato lo sforzo, grazie al penoso compimento della legge, di apparire senza macchia dinanzi a Dio (3,6). Ora, pone al posto della legge una novità al centro della sua vita: Cristo, «mio» Signore (3,8). Come tutti gli uomini che progrediscono grazie a una rottura, Paolo vede con maggior severità degli altri l’aspetto negativo del passato. La sua attività si svolge in un’epoca, in cui esiste il pericolo che il cristianesimo divenga una setta giudaica. Il giudeo-cristianesimo sviluppa molto l’idea che la fedeltà alla legge e la fede in Cristo siano pienamente conciliabili. Paolo è cosciente dell’inconciliabilità della giustizia proveniente dalla legge con la «giustizia di Cristo». «Se la giustizia si ottiene mediante la legge, allora Cristo è morto inutilmente» (Gal 2,21).

 

8) Nell’episodio di Damasco ha le sue radici la speranza di Paolo. Certamente l’attesa della resurrezione dai morti e del nuovo mondo di Dio apparteneva già al suo retaggio farisaico (cf. At 23,6-8). Ma ora egli aveva visto la luce del nuovo eone con i propri occhi, aveva visto «la gloria di Dio che brilla sul volto di Cristo» (2Cor 4,6). Questa visione dello splendore di Dio fu da allora in poi il pegno della sua speranza: «Allora conoscerò appieno, come sono conosciuto» (1Cor 13,12).

 

9) Nell’episodio di Damasco ha le sue radici l’impegno missionario dell’Apostolo. Recentemente è stata offerta la prova convincente che la notizia più antica sulla chiamata di Paolo che noi possediamo (più antica dell’auto-testimonianza contenuta nelle sue lettere e del racconto degli Atti degli Apostoli nei suoi diversi contesti) è contenuta in una breve frase che Paolo cita (Gal 1,23) del tutto incidentalmente [3]. Paolo afferma nel versetto precedente (v. 22) che egli, nei primi anni dopo la sua chiamata all’apostolato, personalmente è rimasto sconosciuto alle comunità cristiane della Palestina, ed esse ora hanno saputo che

 

colui che un tempo ci perseguitava

ora predica quella fede

che un tempo voleva distruggere (v. 23).

 

Questi tre versetti, che sono caratterizzati come una citazione grazie al «che» (dass) da cui sono introdotti, sono stati chiaramente formulati sotto la recente impressione dell’accaduto e ci lasciano provare ancora qualcosa del come nelle comunità della Palestina la notizia del fatto di Damasco si fosse diffusa in un baleno e quale lode a Dio (Gal 1,24) esse innalzassero: la doppia menzione della persecuzione fa riecheggiare l’angoscia dei cristiani minacciati, il suono quasi di innodia dei tre versetti, la grande meraviglia per un miracolo inconcepibile di Dio. Per la nostra ricerca è interessante, in questa antichissima fonte sino ad ora nascosta, ed ora scoperta, sulla chiamata di Paolo, che l’oggetto del giubilo non viene espresso in questi termini: il persecutore è diventato un seguace, ma: il persecutore è diventato un predicatore. Paolo perciò deve aver confessato pubblicamente il Cristo molto presto dopo la sua chiamata. In realtà, gli Atti degli Apostoli ci dicono che Paolo già «alcuni giorni dopo» aveva cominciato a predicare Gesù come Figlio di Dio, nella Sinagoga di Cafarnao (At 9,19 s.). Egli stesso afferma del suo dovere missionario: «è una necessità che mi incombe» (1Cor 9,16) o con maggior forza (lì dove la forma indiretta descrive l’azione di Dio): «Dio mi obbliga». Gli uomini che hanno fatto l’esperienza di un subitaneo cambiamento provano con maggior forza che non gli altri il bisogno di far conoscere ciò che ad essi è accaduto (invece il carattere universale della sua missione, ed il compito di predicare ai pagani, sono rivelati all’Apostolo tre anni dopo la sua chiamata, nel corso di una visione nel tempio di Gerusalemme [At 22, 17-21]. Certamente, l’Apostolo afferma [Gal 1,16] che Dio gli ha rivelato il suo Figlio, «affinché lo annunciassi alle nazioni»; tuttavia il termine «affinché» indica qui l’intenzione divina, non un avvenimento attuale [4]. In questa visione di Cristo nel tempio, Paolo si è dapprima opposto alla sua missione fra i gentili, ma un duro: «Va’!» del suo Signore lo ha chiamato all’obbedienza).

 

10) L’episodio di Damasco origina infine la coscienza apostolica di sé e la coscienza della missione nell’Apostolo Paolo. Il titolo di «Apostolo di Gesù Cristo» si incontra per la prima volta in Paolo ed è forse una creazione paolina. Con essa egli si designa come plenipotenziario dell’Altissimo ed esprime che egli non viene dopo i Dodici, anche se non è stato un seguace di Gesù durante la sua vita. Come loro infatti, egli è testimone della Resurrezione (1Cor 9,1; 15,8-10). La sua missione apostolica è collegata alla visione di Cristo. Nessun altro se non Gesù, il Signore in persona, lo ha rivestito di potere, nell’ora della chiamata, per essere suo messaggero (1Cor 9,1). Perciò, lottando per il suo ministero apostolico in Asia Minore, egli dice di essere «Apostolo non per volere umano né per mediazione d’uomo, ma per opera di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha resuscitato dai morti» (Gal 1,1).

 

11) Fin qui ci siamo limitati ai rilievi che ci offrono le lettere paoline, richiamando testi degli Atti solo a comprova. Se analizziamo infine la loro relazione dell’episodio di Damasco, troviamo nella domanda, colma di rimprovero, del Risorto, la stessa in tutt’e tre le relazioni: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», una testimonianza che la concezione della Chiesa dell’Apostolo ha per lo meno una delle sue radici nel suo incontro con Cristo. Il Signore risorto si identifica con la comunità dei suoi fedeli. Chi lo perseguita, perseguita lui. Questa identificazione è fondamentale per la visione paolina della comunità. L’Apostolo in seguito ha così espresso in un’immagine quest’unità fra Cristo e la comunità dei suoi: la Chiesa forma il corpo di Cristo. Egli è il suo capo, ed ogni cristiano è un membro del suo corpo.

 

In sostanza abbiamo visto che tutta l’esistenza di fede dell’Apostolo e tutta la sua teologia si richiamano alla sua visione di Cristo sulla strada di Damasco. Solo partendo da qui possiamo comprenderlo. La sua teologia è la teologia di uno che è stato improvvisamente chiamato. Né Tarso, né Gerusalemme e neppure Antiochia, ma Damasco ci offre la chiave per comprendere la teologia dell’Apostolo Paolo. Gli altri fattori che consideriamo – la cultura ellenistica, l’eredità giudaica e la tradizione cristiana primitiva – non sono svuotati di valore da questa conoscenza, perché furono assunti a servizio della sua missione. Decisivo però è il momento, riferendosi al quale l’Apostolo dice: «Sono stato afferrato da Cristo Gesù» (Fil 3,12).

 

***

 

NOTE

 

[1] Da notare che il v. 16 non può essere tradotto: «per rivelare in me suo Figlio» (ciò che potrebbe indicare una esperienza mistica), ma «per rivelare a me suo Figlio».

 

[2] G. P. Wetter, Charis (Untersuchungen rom Neuen Testament, 5), Leipzig 1913, p. 6.

 

[3] E. Bammel, Galater 1, 23, «Zeitsrchrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 59, 1968, pp. 108-112.

 

[4] At 26,17 s., è da interpretare in maniera analoga al passo di 22,17-21.

 

 

 

Tratto da: Joachim Jeremias, Per comprendere la teologia dell’apostolo Paolo, trad. it. G. Stella, Morcelliana, Brescia 1973 (ed. or. Stuttgart 1971).

 

Joachim Jeremias

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