«Noi Salesiani d'Italia chiediamo fermamente al Ministro della Pubblica Istruzione, al Governo di cui fa parte e alle Regioni, di valorizzare e di mantenere istituzionalmente l'offerta dei percorsi sperimentali triennali di Formazione Professionale Iniziale, ai quali si possono iscrivere ragazzi e ragazze dopo la scuola media attuale». Intervento del Rettor Maggiore, don Pascual Ch√°vez al CONVEGNO SU FORMAZIONE PROFESSIONALE E DISAGIO GIOVANILE.
del 03 novembre 2006
 
Intervento del Rettor Maggiore, don Pascual Chávez al Convegno su Formazione Professionale e disagio giovanile in occasione del 50° anniversario dell’Opera Salesiana di Arese 
 
Siamo in tanti quest’oggi a riflettere sulle sfide che vengono dal mondo dei giovani.
Il vostro essere qui è segno che nutrite nel cuore una passione educativa; che avete voglia di riflettere su una delle tante risposte da dare ai giovani: la formazione professionale, da molti considerata scuola di basso profilo, che non riserva prestigio a chi vi lavora. Come se un domani il prestigio sociale sarà ancora determinato dal tipo di lavoro aureolato in mitiche figure professionali, e non invece se esso sarà effettivamente riconosciuto a chi dimostrerà capacità utili allo sviluppo della società civile.
L’essere qui è segno del vostro amore a chi, nel mondo giovanile, soffre maggiormente dei rapidi cambiamenti di questo mondo: è facile mettere al margine quelli che fanno fatica, i ragazzi e le ragazze che fanno problema, chi non accetta facilmente quanto viene proposto o imposto dagli adulti, nella scuola, nel tempo libero, nello stile di vita moderno interessato, come ben sappiamo, più alla quantità che alla qualità, più all’immagine che all’essere.
Mia missione, come superiore della Congregazione Salesiana sparsa nel mondo, è di cogliere le voci, che provengono
·        dai giovani dell’Occidente come di quelli dell’Oriente,
·        giovani del Nord e quelli del Sud:
·        giovani che stanno vivendo il dramma di guerre, che non sembrano terminare mai,
·        giovani che vivono nella miseria e nella povertà più assoluta,
·        giovani della società opulenta, che pure non sazia la fame e sete del loro cuore, sempre inquieto, sempre in cerca di una estasi che non li rasserena, di una felicità a basso costo, ma che non li tranquillizza, anzi li porta a fuggire da se stessi, dagli altri, dalla vita.
 
Li ho incontrati nell’estrema miseria delle favelas del Brasile come nel lusso esibito di paesi dell’Occidente, li ho incontrati nell’abbandono, chiusi in se stessi, nella propria ricerca di sé, così come li ho incontrati nella ricchezza del dono dei giovani del Volontariato Internazionale, al lavoro in Africa o in Asia o sulle Ande latinoamericane.
E’ un mondo misterioso e in rapido mutamento quello dei giovani, per cui noi adulti dobbiamo essere molto attenti e rispettosi, quasi in religioso ascolto delle loro domande, che spesso ci mettono in crisi, incrinando le facili sicurezze nelle quali spesso ci crogioliamo, ritenendo di aver noi adulti tutte le ragioni; senza sentirci in dovere di ascoltare loro, i giovani, che consideriamo immaturi, viziati, poco responsabili o ignoranti e dunque senza diritto di parola di fronte alla nostra intelligenza, alla nostra arroganza di cittadini, appartenenti magari a popoli ricchi di cose ma, forse, poveri di cuore.
Scrivendo ai miei Salesiani, invitandoli a riscoprire don Bosco, un santo antico e sempre nuovo, ho indicato loro alcune urgenze giovanili alle quali dobbiamo tentare di dare una risposta ragionevole, di cuore.
I giovani ricercano qualità di vita, ricercano spiritualità e trascendenza, richiedono un accompagnamento da parte di adulti che li ascoltino, li capiscano e siano capaci di orientarli.
Esiste in loro una forte domanda di nuovi rapporti di amicizia, di affetto, di compagnia, per superare le carenze affettive che li rendono insicuri, poco fiduciosi di sé e incapaci di stabilire rapporti stabili e profondi.
Tra i giovani appaiono nuove forme d’impegno e di partecipazione nel sociale, come le esperienze di volontariato o di servizio civile nelle sue svariate forme e stili. Lo si evince dal pullulare di movimenti no-global, ecologisti, pacifisti, che manifestano il loro desiderio di costruire mondi nuovi.
A fronte riscontriamo la situazione di povertà, generata da un sistema economico neoliberista, che obbliga molti giovani a ricorrere a forme inaccettabili di sopravvivenza.
A fronte riscontriamo la cultura della violenza, vissuta come reazione al disagio: i fenomeni della droga, del terrorismo, delle guerre, i ragazzi soldato, i genocidi... I livelli di delinquenza sono drammaticamente cresciuti nei paesi in via di sviluppo. La delinquenza giovanile è spesso correlata con l’abuso di alcool e di droghe; in Africa essa è correlata alla fame, alla povertà, alla disoccupazione.
Problemi gravissimi, che sento nelle mie carni, che obbligano me, la mia Congregazione Salesiana, a fare nuove scelte di frontiera, partendo non da zero, ma con il bagaglio carismatico delle esperienze che don Bosco ci ha lasciato, profetiche ai suoi tempi ed attuali ancora oggi.
Tra di esse la memoria del “gusto” dell’ educare, l’attenzione ai giovani più in difficoltà, alle fasce popolari, a quelli che contano meno, per i quali l’educatore di Torino ha inventato nel passato varie risposte: dagli oratori, ai convitti, alle scuole umanistiche e a quelle, conosciutissime ed apprezzatissime, della formazione professionale.
Erano gli orientamenti che dava al Ministro Francesco Crispi, il 21 febbraio 1878, quando gli aveva chiesto come affrontare il problema dei ragazzi “discoli”:
 
“Il Governo… può cooperare nei seguenti modi:
1.   Somministrare giardini [spazi] per i trattenimenti festivi; aiutare e fornire le scuole e i giardini del necessario suppellettile;
2.   Provvedere locali per ospizi, fornirli dei necessari utensili per le arti e mestieri, cui sarebbero applicati i fanciulli ricoverandi”.
 
Linguaggio antico che possiamo tradurre: aprire oratori o centri giovanili e dare la possibilità di istruirsi e di formarsi al lavoro, essendo il lavoro una vera disciplina interiore, il segreto per misurare le proprie capacità, un modo per essere al servizio degli altri, sentirsi utili, ritrovare una dignità nuova per chi rischia di dover vivere di espedienti, sulla strada, vittima dell’ignoranza e dell’ozio.
Il primo Oratorio di don Bosco è nato come iniziativa per i giovani lavoratori. Non possiamo dimenticarlo, così come non possiamo dimenticare l’identikit del primo ragazzo accolto: orfano, analfabeta, emigrante, manovale. “In generale, scriverà don Bosco, l’Oratorio [all’inizio] era formato di scalpellini, muratori, stuccatori, selciatori, quadratori e di altri che venivano da lontani paesi”.
Don Bosco stesso era stato un piccolo lavoratore, uno studente lavoratore e aveva conosciuto fin da piccolo la fatica del lavorare sotto padrone.
Nella maturità aveva capito subito che anche la nuova legge del 1859, la famosa legge Casati, non rispondeva ai bisogni dei più poveri, di chi viveva al margine della società: essa si rivolgeva ad altri giovani e non parlava assolutamente di formazione al lavoro. L’istruzione tecnica, pur contemplata, era intesa come percorso formativo delle leve commerciali direttive; all’istruzione professionale non vi era dedicato neppure un accenno.
Don Bosco completerà, a suo modo si intende, quello che mancava nella legislazione con l’istituzione di laboratori e successivamente delle scuole professionali: nascerà in Valdocco la parva charta della Congregazione, il modello che verrà esportata in tutto il mondo di una Casa salesiana che si rivolge a studenti e ai giovani lavoratori, tenendo ben presente che non tutti i suoi ragazzi erano chiamati agli studi classici o magistrali o commerciali. Erano chiamati “artigiani” ed avevano un regolamento e un itinerario educativo studiato appositamente per loro.
Sul modello di Torino, ho trovato case per studenti ed artigiani a Buenos Aires come a Santiago del Cile; a Milano e a Sesto San Giovanni, al Borgo Ragazzi a Roma, in Spagna e in Germania, in Albania, in Russia, ad Alessandria d’Egitto e al Cairo, in Corea come nelle Filippine. Noi salesiani siamo stati chiamati per oltre un secolo - e lo siamo tuttora - sotto tutte le latitudini, presso popoli di ogni razza, cultura e religione a fondare scuole e centri per la formazione professionale. E con noi tanti altri, religiosi, religiose e laici. E se è un fatto che alle scuole professionali salesiane e alle loro esperienze si sono ispirate legislazioni di numerosi paesi, Italia compresa, è pure incontrovertibile il grande contributo che gli ex allievi salesiani - che nella scuola avevano non solo appreso un mestiere ma anche “imparato ad imparare” - hanno dato al sorgere e allo sviluppo industriale di tanti paesi, europei ed extraeuropei.
Sono di don Bosco alcuni dei primi contratti in difesa degli apprendisti: sono del 1852, ben prima che la legislazione negli stati italiani introducesse l’istruzione obbligatoria e vietasse l’impiego lavorativo di minorenni al di sotto dei 9 anni.
Ritengo di avere il diritto di parlare a nome di decine di migliaia di ex-allievi ed allievi delle nostre Case sparse nei cinque continenti, anche di quelli di Arese, dove ragazzi e giovani che talora affettuosamente chiamiamo “piccoli Barabba”, attraverso il lavoro, hanno potuto costruire il loro futuro.
Da una ricerca guidata dal sociologo Gian Carlo Milanesi, leggo come questi ragazzi, a quei tempi inviati dal tribunale per i minori, abbiano maturato “una fondamentale attitudine positiva al lavoro e una mentalità capace di notevole adattamento alle difficoltà che solitamente accompagna il lungo processo di inserimento nel mondo del lavoro, proprio attraverso l’esperienza della formazione professionale, tanto lodata da Paolo VI, il papa che aveva voluto che i Salesiani si misurassero ad Arese con ragazzi e giovani in difficoltà dell’antico riformatorio”.
Le testimonianze di questi cinquant’anni più volte hanno confermato la bontà del metodo, delle scelte iniziali, di quando i Salesiani, entrando in Arese, per prima cosa hanno creato laboratori moderni, all’altezza dei tempi, per formare i ragazzi al lavoro, coinvolgendo le stesse imprese, alcune delle quali, nel tempo, sono intervenute per dotare i laboratori di mezzi e tecnologie innovative e rispondente ai tempi.
Ma quello che valeva un tempo, quello che è valso per un secolo e mezzo, vale ancora oggi? Ce lo siamo domandati nei nostri Capitoli Generali, che prima di me si sono interrogati sull’importanza della formazione professionale.
Il compianto Rettore Maggiore lombardo, don Egidio Viganò, sul tema nel 1988 tenne una magistrale lezione al Teatro La Scala di Milano, in una serata memorabile dove il senatore Spadolini nel suo intervento, esaltava una delle invenzioni più originali e geniali di don Bosco: 
 
“il coadiutore salesiano, la figura del religioso-laico-salesiano che permise di non trasformare i laboratori in serbatoi per le fabbriche del tempo (si ricordi che eravamo nel periodo di sviluppo capitalistico) ma in luoghi dove si mirava a formare l’uomo che lavora: onesto, fedele agli impegni, capaci di creatività, in grado di stare con gli altri, in forme di convivenza e di solidarietà, portando i ragazzi come diceva il santo del lavoro “all’avanguardia del progresso”.
 
Se devo dare una risposta sull’oggi, superando il senso di nostalgia che a volte mi prende quando parlo delle memorie del nostro passato, anticipo una richiesta che vorrei ribadire al termine della mia relazione:
 
noi Salesiani d’Italia chiediamo fermamente al Ministro della Pubblica Istruzione, al Governo di cui fa parte e alle Regioni, di valorizzare e di mantenere istituzionalmente l’offerta dei percorsi sperimentali triennali di Formazione Professionale Iniziale, ai quali si possono iscrivere ragazzi e ragazze dopo la scuola media attuale.
 
Attraverso queste sperimentazioni, infatti, soprattutto per l’impegno alla propria missione che gli Enti di Formazione Professionale assicurano:
·        si prende atto delle diverse situazioni di vita degli adolescenti in ingresso;
·        si corrisponde con flessibilità ai diversi stili di apprendimento dei giovani a rischio;
·        si elaborano adeguati contenuti, progettati per raggiungere obiettivi educativi di pari dignità rispetto a quelli indicati nei percorsi del sistema dell’istruzione;
·        si progetta, infatti, il percorso per conseguire una qualifica professionale di secondo livello europeo, che richiede adeguate conoscenze e competenze;
·        si valorizzano le esperienze operative e le verifiche intermedie e finali;
·        si opera un confronto critico con il mondo del lavoro, le sue esigenze e dinamiche;
·        si matura il senso di responsabilità attraverso stages formativi progettati con le imprese presenti nei rispettivi territori.
 
Per gli educatori salesiani e per i loro collaboratori l’impegno nella Formazione Professionale Iniziale si colloca anche nell’azione “preventiva” del disagio che ragazzi e ragazze incontrano, quando abbandonano la scuola e si disperdono nel lavoro nero o rischiano la devianza. Tale “azione preventiva” è urgente, in quanto emerge sempre più un clima che tende a sminuire il valore della formazione umana, intesa come esigenza di risposte interiori al significato della vita e come sviluppo della capacità di decisioni libere, a vantaggio di una maggiore attenzione ai problemi scientifici e tecnico-produttivi, che rischia di sacrificare all’obiettivo della produzione e della competizione il rispetto della singola persona e dei suoi valori umani.
 
I recenti dati statistici rilevano che, in Italia, su 100 giovani che entrano nella scuola dell’obbligo:
·        5 abbandonano senza conseguire la licenza media
·        12,1 non si iscrivono alla scuola secondaria superiore
·        58,6 conseguono il relativo diploma
·        40 si scrivono all’università
·        11,6 conseguono la laurea
 
Se è vero, come dimostrano le statistiche, che la fuga dalla scuola o l’emarginazione dei soggetti a rischio avviene nel biennio dopo la media, ne consegue che è lì, a quella età, che si deve intervenire con un nuovo impegno educativo, pedagogico, didattico e di orientamento perché non si radicalizzi il disagio e non si trasformi in devianza; l’attendere oltre è rischioso per i giovani coinvolti e per la stessa società.
 
Inoltre si devono prendere in considerazione anche i risultati di studi recenti condotti nell’ambito della pedagogia, che sottolineano la differenza, la diversità e la necessità di percorsi che non umilino i ragazzi, ma che rispondano alle loro reali capacità: le loro intelligenze non sono tutti uguali, e come l’affermazione che “la legge è uguale per tutti” è stata molte volte smentita dalla realtà, così percorsi non diversificati e rigidi lasciano per strada troppi giovani.
In una società della conoscenza credo che si debba apprezzare l’obiettivo educativo, culturale e sociale di offrire a tutti i giovani fino all’età di 16 anni percorsi obbligatori di istruzione e di formazione, nella prospettiva di acquisire un diploma di scuola secondaria superiore o una qualifica professionale entro il 18° anno di età.
Ma nello stesso tempo credo limitante obbligare tutti a seguire un medesimo percorso, senza alcuna libertà di scelta per i giovani e le loro famiglia, nel rispetto delle attitudini, dei vissuti talvolta sofferti, delle capacità e dei talenti di ciascuno.
Se queste sono le opportunità che offrono le sperimentazioni dei percorsi di formazione professionale iniziale ,si dovrebbero, ovviamente, valutare i risultati conseguiti prima di relegare tali interventi a funzioni complementari, di mero “addestramento” o di “adattamento” alle innovazioni tecnologiche.
E’ questa la richiesta che i Salesiani e i loro Collaboratori avanzano con forza e responsabilità civile - in autentica consonanza pure con quanto avviene negli altri paesi d’Europa - in un momento in cui si vogliono operare ampie riforme che incidono sul complessivo sistema educativo del nostro Paese.
Siamo figli ed eredi di un educatore, don Bosco, che ieri si confrontava con la legge Casati, la legge Coppino e tante altre disposizioni di legge, e che oggi ci sprona a misurarci con altre sfide culturali, politiche e sociali che interpellano anche gli Enti di Formazione Professionali che, in Italia, aderiscono alla Federazione nazionale FORMA, che rappresenta circa l’80% della formazione professionale del nostro Paese.
 
Questa nostra richiesta non muove, quindi, sulla base di un retaggio storico, pure glorioso, né da una presenza da “nicchia” sopravvissuta ai tempi moderni, ma da una comune idealità e solidarietà associativa che ci li fa sentire vicini, testimoni di fedeltà alla dottrina sociale della Chiesa e che trova conferma in documenti e intese che la Federazione Forma elabora e socializza.
 
 Don Pascual Chávez Villanueva, SDBArese, 27 ottobre 2006don Pascual Chávez Villanueva
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