La valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano sono alla base di una prospettiva di crescita durevole e sostenibile per ogni Paese, quale fattore fondamentale del suo vantaggio competitivo.
del 22 aprile 2010
 
          La valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano sono alla base di una prospettiva di crescita durevole e sostenibile per ogni Paese, quale fattore fondamentale del suo vantaggio competitivo.
 
          Con l’espressione capitale umano si fa riferimento alle competenze, conoscenze ed abilità acquisite dagli individui che facilitano la creazione di benessere personale, sociale ed economico. Questa definizione pone al centro della scena l’individuo con le sue scelte di domanda di istruzione e di formazione anche “permanente”. Come il capitale fisico, anche il capitale umano è infatti soggetto a deprezzamento, in quanto anche le conoscenze e le competenze “invecchiano”. Continui investimenti in formazione sono perciò necessari per garantire un adeguato livello dello stock di capitale umano nel tempo.
          Anche se l’istruzione viene offerta a livello nazionale, lo sviluppo e la valorizzazione del capitale umano può rappresentare nei rapporti tra Paesi e macroaree un ambito importante di cooperazione e di integrazione a fronte di obiettivi comuni, tra cui in primo luogo il progresso della scienza e delle conoscenze. Ciò vale anche nell’attuale contesto di accresciuta concorrenza quale conseguenza della globalizzazione, in particolare tra le due macroaree più avanzate (Europa e Stati Uniti), oggetto di quest’analisi comparata.
I ritardi dell’Europa e dell’Italia rispetto agli Stati Uniti
          Nei rapporti tra Unione Europea (UE) e Stati Uniti anche in questo ambito si pongono quindi particolari e delicate questioni, sia per l’inevitabile concorrenza tra i sistemi di alta formazione e di ricerca di base ai due lati dell’Atlantico, che per le opportunità di cooperazione.
          I rapporti economici tra le due macroaree sono inquadrati nel sistema multilaterale del WTO (l’Organizzazione Mondiale del Commercio), all’interno del quale il libero scambio è il principio ispiratore. La concorrenza è quindi inevitabile, e per molti aspetti salutare, data la rilevanza strategica delle attività legate al capitale umano. Ciò, tuttavia, non è in contraddizione con lo sviluppo di forme di cooperazione e integrazione; inoltre la concorrenza, oltre a stimolare il miglioramento e l’efficienza, è strumento di contaminazione già di per sé benefico.
          La qualità e la reputazione dei sistemi educativi e di ricerca si riflettono anche sulla loro attrattività, cioè sulla capacità di attirare “talenti” (studenti, studiosi e ricercatori) da tutto il mondo. Pur essendo presenti in Europa ambiti importanti nella ricerca e nell’alta formazione, che certamente hanno livelli di assoluta eccellenza su scala mondiale, non vi è dubbio sul fatto che gli Stati Uniti mediamente siano considerati migliori, soprattutto negli ambiti scientifici, tecnologici ed economico-manageriali. Per queste ultime aree disciplinari, ciò risulta chiaramente, qualunque sia l’indicatore prescelto (ranking, pubblicazioni, riconoscimenti internazionali come i premi Nobel, ecc.) [1].
          La superiorità del sistema nordamericano è evidenziata anche dalla sua capacità di attrazione di giovani talenti, ben maggiore di quanto non avvenga in senso opposto, come si vede dalle tabelle 1 e 2 [2], soprattutto per l’Italia. Non si tratta di riprendere il dibattito, in certa misura fuorviante, sulla “fuga dei cervelli”, bensì di chiedersi come rendere più equilibrato il rapporto tra le due macroaree.
          È tuttavia importante notare come i giovani talenti europei (e tra questi certamente quelli italiani) diano normalmente ottima prova di sé nelle università e nei centri di ricerca americani. Ciò sembrerebbe confermare la capacità da parte europea di formare in modo più che adeguato i propri studenti, perlomeno sino al livello pre-Ph.D., fornendo loro conoscenze e competenze di base che li aiutano a conseguire risultati di grande soddisfazione nella carriera accademica o professionale, che spesso si svolge nelle istituzioni americane. L’Italia e l’Europa, quindi, in un certo senso forniscono ottimi “semilavorati” agli Stati Uniti, mentre si verifica in misura assai minore il flusso opposto. Le istituzioni europee traggono poi il vantaggio di godere di flussi parziali di ritorno, estremamente utili per i propri ulteriori sviluppi.
          Si tratta certamente di un modello di cooperazione e di integrazione tra le due sponde dell’Atlantico asimmetrico e squilibrato, che andrebbe corretto e modificato, nell’interesse in primo luogo delle istituzioni educative e di ricerca dell’UE, ma alla lunga anche di quelle degli Stati Uniti. Il fenomeno del brain drain in sé, infatti, non può essere condannato, essendo il segnale di un mercato dell’educazione ormai aperto e fortemente competitivo. Tuttavia, il ribilanciamento dei flussi, grazie a una cooperazione più efficace, può permettere anche ai Paesi beneficiari dei flussi in ingresso di sostenere flussi in uscita, per attingere all’estero la conoscenza distintiva locale.
          Una cooperazione più equilibrata ed una migliore integrazione dovrebbero quindi sviluppare flussi in entrambe le direzioni, a seconda delle specificità e delle eccellenze che più possono attirare giovani talenti, come pure affermati studiosi, sfruttando e favorendo le migliori aree di specializzazione, a tutto vantaggio di entrambe le macroaree coinvolte.L’urgenza di modernizzare il sistema educativo in Italia e in Europa
          Per ottenere un flusso più equilibrato, i sistemi di ricerca e di alta formazione europei debbono rivedere in modo profondo i fondamenti stessi del loro operare, e ciò vale in modo particolare per l’Italia [5], dove le resistenze al cambiamento sono assai elevate.
          La Commissione Europea, subito dopo la revisione di metà termine della Strategia di Lisbona per rafforzare la competitività dell’UE (primavera 2005), ha invitato gli Stati membri ad adottare le misure che ritenevano necessarie, e a rendere l’istruzione terziaria strumentale ad un’economia basata sulla conoscenza [6].
          La modernizzazione del sistema educativo deve avvenire sia sul fronte quantitativo sia su quello qualitativo. È ancora bassa, soprattutto in Italia, la percentuale di laureati (tabella 3), anche se nell’UE gli studenti che ottengono un dottorato (ISCED 6) nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni è andata crescendo dal 1999 al 2003 più che negli Stati Uniti.
          Innanzitutto, i sistemi universitari nazionali, e in particolare quello italiano, debbono superare ogni residua tentazione di autoreferenzialità ed aprirsi con coraggio agli stimoli della concorrenza, all’uso diffuso di parametri di efficienza e di performance nella richiesta e nell’attribuzione di risorse, a forme ben più incisive di collaborazione tra istituzioni e contesto di riferimento, imitando in proposito gli aspetti migliori del sistema universitario e di ricerca statunitense.
          Le università e gli istituti di ricerca europei, e in particolare quelli italiani, debbono adottare procedure di reclutamento e di promozione del proprio personale accademico e scientifico simili a quanto avviene nei sistemi più avanzati. Piuttosto che procedere (come spesso si verifica) per carriere “interne”, questi debbono aprirsi al flusso di nuove idee e di nuove competenze attraverso una presenza attiva sul “mercato dei cervelli”, sia per trovare in tale contesto le risorse di cui hanno necessità, sia per sottoporre i propri aspiranti accademici o ricercatori al vaglio del giudizio di una comunità scientifica quanto mai ampia.
          Con riferimento alle risorse, l’accezione pubblica del “bene educazione” continua a caratterizzarne la fonte principale (tabella 4). Ciò vale soprattutto in Italia, dove nel 2002 le risorse di natura pubblica hanno rappresentato quasi il 93% della spesa complessiva dedicata all’educazione, il 5,11% del PIL. Valore in diminuzione rispetto al 5,26% del 1999 e al di sotto del 5,81% dell’UE sia a 15 sia a 25 Paesi membri.
          La spesa pubblica nel nostro Paese, inoltre, diminuisce agli alti livelli di educazione terziaria (tabella 5), mostrando, sia nel 1999 che nel 2002, un gap quasi strutturale con il valore europeo.
          Secondo quanto espresso dalla Commissione Europea nella comunicazione già citata, l'eccesso di regolamentazione delle università è un ostacolo alla loro modernizzazione e alla loro efficacia. Il fatto che i piani di studio e le normative riguardanti il personale accademico abbiano valenza nazionale tende ad ostacolare la riforma dei piani di studio e l’interdisciplinarietà. La rigidità delle norme d'ammissione e di riconoscimento ostacola l'istruzione, nonché la formazione permanente e la mobilità.
          Alla luce dell'evoluzione della popolazione studentesca, della diversificazione dei programmi, dell’aumento della mobilità in Europa, è sempre più importante assicurare politiche di ammissione flessibili e percorsi di apprendimento personalizzati.
          Anche la disponibilità di borse di studio, da assegnare con criteri più meritocratici, e di prestiti, alloggi e lavori part-time, è importante per rendere le università attraenti ed accessibili ad una popolazione di studenti sufficientemente ampia, e per eliminare la correlazione tra origine sociale e livello accademico. Le università europee, e in particolare quelle italiane, devono diventare molto più attrattive nei confronti di studenti di altri Paesi dell’UE e del resto del mondo. Ciò rappresenta uno stimolo fondamentale al miglioramento (i giovani più brillanti cercano di entrare nelle università migliori) e consente di contribuire alla formazione in altri Paesi di una classe dirigente che ha familiarità con quello dove ha compiuto gli studi universitari, con tutti gli ovvi vantaggi che ne possono derivare. Tuttavia, ciò è possibile solo eliminando gli ostacoli linguistici, ad esempio mediante l’attivazione di corsi di laurea in inglese, e burocratici, come quelli purtroppo assai diffusi in Italia.
Alcune linee di azione per la cooperazione
          Sono comunque necessarie anche iniziative adeguate per conseguire forme di cooperazione e di integrazione più soddisfacenti, pur mantenendo un sano contesto concorrenziale.
          In primo luogo, occorre sfruttare meglio le potenzialità del cosiddetto “processo di Bologna” e raccordarlo, ove opportuno, all’assetto del sistema scolastico americano. Per quanto riguarda l’Italia, ad esempio, le potenzialità del “3 & 2”, soprattutto dopo i recenti miglioramenti introdotti dal D.M. 270 del 22 ottobre 2004, sono notevoli, ma solo in parte sfruttate in tal senso. Infatti, il percorso undergraduate italiano è di tre anni, mentre quello americano è di quattro (a fronte di un anno in più in Italia nel percorso preuniversitario). In assenza di un accordo e di un chiarimento, ciò può essere d’ostacolo per i laureati triennali (italiani o stranieri) che dall’Italia volessero proseguire gli studi negli Stati Uniti. Dal canto loro, gli studenti provenienti dalle high school americane trovano seri ostacoli ad iscriversi alle università italiane, per una normativa che non riconosce sufficiente validità ad un diploma che tuttavia (unitamente ai risultati di test come il SAT, che potremmo benissimo adottare anche noi) consente di aspirare ad essere “matricola” ad Harvard!
          È necessario sottolineare come non sia opportuna una “armonizzazione” rigida; quello che è importante è infatti rendere i sistemi stessi compatibili tra loro, cioè pienamente interfacciabili e quindi in grado di cooperare e di sviluppare forme di integrazione, nella salvaguardia del mantenimento di ogni appropriato margine di concorrenzialità. Questo, infatti, rappresenta la migliore garanzia per il perseguimento dell’efficienza e di elevati livelli di performance.
          Se il lavoro di raccordo è fondamentale e va realizzato al più presto, occorre anche prevedere programmi di cooperazione tra Europa e Stati Uniti che stimolino flussi nelle due direzioni. L’esperienza del programma comunitario Erasmus Mundus [8] rappresenta un punto di partenza importante: bisognerebbe puntare a conseguire una mobilità studentesca tra Europa e Stati Uniti paragonabile a quella ottenuta all’interno dell’UE con il programma Erasmus, ormai operativo da circa vent’anni.
          Iniziative analoghe e forse ancora più urgenti sono necessarie in Italia ed in Europa a livello dei dottorati, al fine di offrire programmi di Ph.D. di riconosciuta qualità internazionale, in grado quindi di attirare giovani talenti da tutto il mondo, come oggi avviene negli Stati Uniti. La capacità da parte di singole università europee di attirare brillanti Ph.D. candidates da altri Paesi, e la loro performance sul job market internazionale, dovrebbero dunque essere tra i parametri di efficienza più importanti nel decidere l’allocazione delle risorse per questo tipo di programmi.
La ricerca
          Per quanto riguarda la cooperazione e le forme più strette di integrazione nella ricerca scientifica, la scarsa attrattività europea rispetto agli Stati Uniti deriva ovviamente non solo dagli ostacoli burocratici e strutturali, simili a quelli messi in evidenza nell’ambito della formazione, ma anche dalla scarsità di risorse (tabella 6). Nel 2002 la media europea era pari a quasi il 2% del PIL contro il 2,69% degli Stati Uniti e l’1,16% italiano. Il problema per l’Italia è che proprio il finanziamento pubblico contribuisce per oltre il 60%, mentre è un terzo nella media dell’UE-15, un quarto negli Stati Uniti e un quinto in Giappone.
          Con le dovute eccezioni, l’industria europea sembra meno interessata di quella americana a contribuire alla ricerca di base, dimenticando che, se si limita ad acquistare i risultati della ricerca altrui, difficilmente potrà ottenere supremazia tecnologica e potere di mercato a livello di economia globale.
          Tale situazione è ancora più preoccupante in Italia, dove il sistema industriale, a parte lodevoli eccezioni, è ancora poco impegnato nella ricerca di base; il nostro Paese registra di conseguenza una scarsa capacità di innovazione, sia nei confronti dell’UE che degli Stati Uniti.
          L’attivazione della ricerca come componente dell’economia basata sulla conoscenza, voluta dal Consiglio Europeo di Lisbona, richiede lo sviluppo di un contesto favorevole al sostegno finanziario, che comprenda anche tutte le necessarie misure fiscali. Il decreto legge per la competitività della scorsa primavera e la legge finanziaria per il corrente anno hanno introdotto delle importanti e positive novità nell’ordinamento italiano, anche se ulteriori miglioramenti sono certamente possibili [10].
          All’interno del dibattito sulla difficoltà di perseguire gli obiettivi fissati nel 2000 al Consiglio Europeo di Lisbona, occorre infatti passare dalla pura retorica a misure concrete ed efficaci, in grado di fungere da stimolo in tutti gli ambiti necessari per sostenere effettivamente lo sviluppo di una “società basata sulla conoscenza”.
          Occorre una consapevolezza molto maggiore del ruolo fondamentale della ricerca quale fattore di sviluppo e di competitività sostenibili nel lungo periodo. Anche in questo ambito l’Italia e l’Europa devono mettere mano ad un processo di modernizzazione, sulla base del quale perseguire forme di cooperazione molto più incisive con il sistema di ricerca americano. Ciò può avvenire in vari modi, sia a livello decentrato, sulla base delle iniziative di singole università e centri di ricerca, sia attraverso una cooperazione più stretta tra i programmi pubblici (nazionali e comunitari per quanto riguarda l’UE) di sostegno e di promozione della ricerca.
Conclusioni
          Europa (e Italia in tale contesto) e Stati Uniti, pur essendo due macroaree in concorrenza tra di loro, hanno un evidente interesse a cooperare maggiormente in tutti i campi, ma soprattutto in quello dello sviluppo delle conoscenze. Da ciò deriverebbero ovvi vantaggi per entrambi, oltre che un rafforzamento della capacità di far fronte alle sfide globali, cui non possono sottrarsi.
          Nel corso del vertice UE-Stati Uniti del 20 giugno 2005, la Presidenza lussemburghese ha infatti proposto un accordo per migliorare l’integrazione economica e quindi la crescita basata su molteplici fattori: programmi di ricerca congiunti, condivisione di best practice, intensificazione degli scambi di capitale umano mediante borse di studio quali la Fulbright e quelle stanziate nel contesto Erasmus Mundus, individuazione di forme di “commercializzazione” della ricerca mirate a diffondere i risultati, e a reperire così ulteriori risorse da investire.
          In entrambi i macrosistemi, il capitale umano e i miglioramenti nella produttività complessiva che il suo incremento può consentire sono concordemente identificati come i fattori chiave dello sviluppo; l’UE nella già citata Strategia di Lisbona, oggi rinominata Growth and Jobs (cioè “crescita e posti di lavoro”) li pone al centro delle azioni da intraprendere per conseguire un marcato recupero di competitività.
          D’altronde è difficile immaginare, nell’ambito dell’economia globale caratterizzata dal dirompente emergere di nuovi protagonisti, quali per esempio Cina e India, altri fattori parimenti promettenti sia per l’Europa che per gli Stati Uniti, non solo al fine di consolidare i livelli di benessere raggiunti, ma anche per cercare di far fronte alle molte sfide che devono fronteggiare sul piano planetario. L’educazione, oltre ad essere fattore di crescita e di coesione economica, è infatti, fondamentale per sostenere il dialogo interculturale necessario per garantire un contesto di sicurezza. Ciò vale in modo particolare per l’Italia, e rappresenta uno dei percorsi più promettenti per recuperare competitività ed attrattività, e quindi per poter godere di tassi di sviluppo più soddisfacenti di quelli attuali.
Note e indicazioni bibliografiche
[1] Si vedano ad esempio le classifiche stilate da «Financial Times», « Wall Street Journal», «Forbes», «The Economist» e altri.
[2] Tutti i dati riportati nelle tabelle di questo articolo utilizzano la fonte Eurostat. Cfr. http://epp.eurostat.cec.eu.int
[3] La classificazione ISCED (acronimo di International Standard Classification of Education) dell’UNESCO include tutti i generi di educazione, istruzione, tirocinio o formazione. Il livello ISCED 1-4 si riferisce al primo stadio dell'educazione terziaria, ossia alla laurea (con le sue diverse tipologie: triennali, quadriennali, etc.). Il livello ISCED 5 copre i programmi master, di durata massima biennale (5A con orientamento accademico, 5B orientati a formazione professionale). Il livello ISCED 6 si riferisce ai dottorati di ricerca.
[4] I dati di UE-15 e UE-25 si riferiscono al 1999 e al 2002. 5 C. Secchi, La scuola e l’università di fronte alle sfide di inizio secolo, « Lecco Economia», n. 2, giugno 2002;
[5] A. De Maio, Una svolta per l’Università, Il Sole 24 Ore Editore, Milano 2002; S. Settis, Quale eccellenza?, Laterza, Roma 2004.
[6] Comunicazione della Commissione «Mobilitare gli intelletti europei: creare le condizioni affinché le Università contribuiscano pienamente alla Strategia di Lisbona». COM (2005) 152 del 20 aprile 2005.
[7] I dati italiani si riferiscono al 1999 e al 2002.
[8] Il programma nasce dalla comunicazione della Commissione del luglio 2001 sul rafforzamento della cooperazione con i Paesi terzi nel settore dell’istruzione superiore. Un anno dopo, visto il parere favorevole del Parlamento europeo e del Consiglio, la Commissione adotta una proposta Erasmus World, successivamente rinominata programma Erasmus Mundus, la cui Decisione operativa è entrata in vigore il 20 gennaio 2004. Per maggiori informazioni: http://europa.eu.int/comm/education/programmes/mundus/index_it.html
[9] GERD è l’acronimo di Gross Domestic Expenditure on R&D e comprende la spesa del settore pubblico e privato: imprese, governo, istituzioni di educazione superiore e non-profit.
[10] Agenzia delle Entrate, «Erogazioni liberali: le agevolazioni fiscali», Ufficio Relazioni Esterne, n. 5, 2005.
Carlo Secchi
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