La metamorfosi di Amnesty

La posizione è delicata, perché Amnesty non ha proclamato in termini espliciti il diritto all'aborto, ma la depenalizzazione dell'interruzione volontaria della gravidanza in seguito a violenza sessuale o a incesto o quando presenti un rischio per la vita e la salute.

La metamorfosi di Amnesty

da Quaderni Cannibali

del 08 novembre 2007

Dal 2005 Amnesty international ha sottoposto alle proprie strutture interne un cambiamento d'indirizzo in ordine all'aborto. Oltre ai tradizionali ambiti d'azione per difendere i diritti sanciti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo con la lotta alla pena di morte, alle sparizioni, ai processi iniqui, alla tortura, all'impegno a difesa dei diritti fondamentali delle vittime, si apre per l'organizzazione umanitaria un campo specifico sui diritti sessuali e riproduttivi. In aprile il Comitato esecutivo e in agosto il Comitato internazionale (Messico, 400 delegati provenienti da 75 paesi) hanno vidimato il mutamento d'indirizzo. In precedenza la questione non rientrava fra gli interessi dell'associazione umanitaria, non essendo l'aborto previsto come un diritto. La discussione interna è stata vivace, ma alla fine il passaggio è stato approvato: «Sottolineiamo con forza che le donne e gli uomini devono esercitare i loro diritti sessuali e riproduttivi liberi da coercizione, discriminazione e violenza».

 

La posizione è delicata, perché Amnesty non ha proclamato in termini espliciti il diritto all'aborto, ma la depenalizzazione dell'interruzione volontaria della gravidanza in seguito a violenza sessuale o a incesto o quando presenti un rischio per la vita e la salute. Questo ha permesso alla sezione italiana d'affermare che «non svolgerà campagne generali in favore dell'aborto o di una sua generale legalizzazione» e che si opporrà «a misure coercitive di controllo demografico come la sterilizzazione o l'aborto forzati». Tuttavia l'insieme delle richieste (informazioni complete sulla salute sessuale e riproduttiva, l'abrogazione di leggi che prevedano sanzioni penali per chi abortisce, garanzia di trattamenti medici adeguati, la connessione fra aborto, salute riproduttiva e diritti umani delle donne) riprende il linguaggio e la piattaforma di numerose organizzazioni non governative (ONG) che in sede internazionale intendono far passare l'aborto come un diritto.

 

L'allarme lanciato nel giugno scorso dal card. Renato Martino, presidente del Pontificio consiglio della giustizia e della pace e del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti, e successivamente ripreso da molti fra cui il segretario di stato card. Tarcisio Bertone, ha come riferimento un dibattito internazionale in cui molte ONG si sono ritrovate all'insegna della «free choice», la libera scelta abortiva come diritto «in divenire», ingaggiando un duro confronto con la Santa Sede in occasione delle Conferenze ONU del Cairo su popolazione e sviluppo (1994) e di Pechino sulla donna (1995).

 

Il contesto cattolico anglosassone ha immediatamente reagito. Alla condanna della svolta pronunciata da mons. William Skylstad, vescovo di Spokane e presidente della Conferenza dei vescovi cattolici USA, si sono accompagnate le dimissioni da membri dell'associazione umanitaria del vescovo Michael Evans di East Anglia (Inghilterra) e del card. Keith O'Brien di Edimburgo (Scozia).

 

Amnesty, fondata nel 1961, è una delle più grandi associazioni umanitarie: due milioni di iscritti in 150 paesi del mondo (in Italia 80.000). Il suo fondatore, Peter Benenson, era un cattolico e cattolici sono molti dei suoi membri e simpatizzanti. La nostra rivista nella seconda metà degli anni settanta ha sistematicamente alimentato la campagna per i «prigionieri del mese». Le benemerenze di Amnesty sono universalmente riconosciute. La svolta recente (una «decisione non negoziabile» secondo Gabriele Eminente, direttore della sezione italiana) minaccia d'indebolirne l'autorevolezza.

 

Il 18 settembre il presidente di Amnesty Italia Paolo Pobbiati ha rivolto una lettera aperta a mons. Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana, per precisare come non sia corretto affermare che l'aborto è considerato dall'organizzazione un diritto umano. «Amnesty international non auspica, non chiede che una donna violentata abortisca, ma se decide di farlo vogliamo che non sia obbligata a rischiare la propria salute. Chiediamo inoltre che non finisca in prigione per aver preso quella decisione. (...) Amnesty international lavorerà per contrastare tutti quei fattori che favoriscono gravidanze indesiderate o che contribuiscono a portare una donna a scegliere di abortire». Rispetto alla questione dei finanziamenti, la lettera precisa che Amnesty «non ha mai ricevuto, poiché a norma del suo statuto non potrebbe mai sollecitarli né accettarli, finanziamenti dalla Santa Sede». E così conclude: «Nel massimo rispetto per il suo ruolo e per la sua persona, le chiedo la disponibilità a lavorare insieme ad Amnesty international perché si pongano in essere tutte le misure necessarie, legislative, ma anche di educazione e informazione sulla salute sessuale e riproduttiva, affinché si riducano al massimo i rischi di gravidanze indesiderate e, di conseguenza, si riduca l'incidenza del ricorso all'aborto».

 

Mons. Migliore: una scelta di campo

Sulla recente decisione di Amnesty international abbiamo rivolto alcune domande a mons. Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso le Nazioni Unite.

 

- Mons. Migliore, come mai un'associazione nata da laici cattolici e su posizioni liberal si è spostata su indirizzi radicali?

 

«Fin dalla sua fondazione, nel 1961, Amnesty international si è astenuta dal prendere posizione sul diritto o meno della donna a interrompere una gravidanza indesiderata, per il fatto che nel diritto internazionale non figura un diritto all'aborto comunemente accettato. Ora, su questo punto, il diritto internazionale non è mutato. Amnesty international invece ha cambiato la sua politica di neutralità in favore della depenalizzazione dell'aborto e dell'accesso all'aborto nei casi di stupro, incesto, violenza e allorché la gravidanza ponga in pericolo la vita o la salute della madre. La nuova posizione sembra allinearsi con i numerosi gruppi di pressione che aggirano l'ostacolo con la semantica. Promuovendo, cioè, i diritti sessuali e il diritto alla salute riproduttiva, che nella loro comprensione includerebbero anche l'aborto».

 

- La precedente posizione di Amnesty international poteva essere difendibile?

 

«Le linee fondanti e la pratica quarantennale di Amnesty international ne hanno fatto un'organizzazione concentrata non su tutto lo spettro dei diritti umani, quanto piuttosto su alcune questioni come i detenuti politici o i cosiddetti prigionieri di coscienza, la giustizia nei processi, la tortura e la pena di morte. Questo ambito ben preciso d'interesse e d'azione ha costituito sin qui la sua forza e la sua efficacia e ha consentito a molte persone di diverso credo filosofico, politico e religioso di fare causa comune».

 

- Quanto conta il condizionamento reciproco fra organizzazioni non governative a livello internazionale?

 

«Molto. Il mondo delle ONG è assai vario e diversificato e non si possono fare delle generalizzazioni. Tuttavia, quando in particolare si tratta di ONG dotate di cospicue risorse finanziarie, organizzative e logistiche si pone un vero problema di democrazia, di trasparenza e di responsabilità sia all'interno delle organizzazioni sia nei loro rapporti di consulenza e di cooperazione con gli organismi internazionali».

 

- Qual è la differenza fra accettazione della depenalizzazione dell'aborto e «diritti procreativi», fra le cautelose parole e la pratica sul campo?

 

«Stando al comunicato apparso sul sito Internet di Amnesty international, questa chiederà agli stati di fornire a uomini e donne informazioni complete riguardanti la salute sessuale riproduttiva; modificare o abrogare le leggi per effetto delle quali le donne possono essere sottoposte a imprigionamento o ad altre sanzioni penali per aver abortito o cercato di abortire; garantire che tutte le donne con complicazioni sanitarie derivanti da un aborto abbiano accesso a trattamenti medici adeguati, indipendentemente dal fatto che abbiano abortito legalmente o meno; garantire l'accesso a servizi legali e sicuri di aborto a ogni donna la cui gravidanza sia dovuta a una violenza sessuale o a incesto o la cui gravidanza presenti un rischio per la sua vita o la sua salute.

 

Qui risiede una delle maggiori ambiguità e insidie della decisione presa da Amnesty international. Il concetto di salute riproduttiva - che peraltro include campi d'attenzione e d'intervento più che opportuni e indispensabili - rimane un'espressione ambigua. Anzi, da molte parti viene usata come grimaldello per un facile accesso all'aborto. Il segretario di stato del papa e altri dicasteri della Santa Sede, così come presidenti di conferenze episcopali già hanno opportunamente ribadito la posizione della Chiesa sull'aborto».

L.Pr.

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