In vista dell'Harambée 2013 ecco un intervento di Don Pascual Ch√°vez tenuto ai missionari partenti: «io vi direi subito da dove promanava la missionarietà di don Bosco, quali sono state le ragioni del suo immenso zelo missionario...».
Ringrazio di questo momento di incontro in una giornata che è in linea di continuità con l’11 novembre 1875 quando don Bosco inviò la prima spedizione missionaria. E da questo punto di vista vorrei che ci mettessimo in sintonia con quella che è stata l’ispirazione di don Bosco, la sua ispirazione originaria, anche perché il tema che mi è stato chiesto di offrire è quello della missionarietà di don Bosco, la dimensione missionaria della sua vita ma anche del suo carisma, della sua missione, e dunque il testamento spirituale che ci ha lasciato. Questo momento inoltre ci offre l’opportunità per capire meglio qual’è la risposta che siamo chiamati a dare oggi, perché non c’è dubbio che oggi c’è una maniera diversa di concepire la missionarietà, di realizzare la “missione ad gentes”.
Ecco io vi direi subito da dove promanava la missionarietà di don Bosco, quali sono state le ragioni del suo immenso zelo missionario.
Si tratta di 3 grandi elementi, che devono essere un punto di riferimento per tutti noi.
Il primo è quello di essere obbedienti al comando del Signore Gesù che, al momento dell’ Ascensione, prima di partire da questo mondo al Padre, ci ha detto «sarete miei testimoni sino ai confini della terra» (At 1,8). Questo vuol dire che per noi credenti, per noi Salesiani, FMA, membri della Famiglia Salesiana, giovani, la prima ragione per essere missionari è l’obbedienza al Signore Gesù. Da questo profilo non dovrebbe essere una cosa straordinaria l’essere missionari. Purtroppo sta diventando così, tanto da pensare ad essi come eroi, mentre che infatti essi non fanno altro che semplicemente ciò che il Signore Gesù ha chiesto di fare, essere suoi testimoni fino ai confini della terra, vale a dire, un compito sino alla fine del mondo. C’è sempre spazio, dunque, per la missione. Tutti quanti siamo chiamati ad essere missionari, e questo è il tempo per essere missionari, più che mai.
Il secondo elemento che è alla base della grande dimensione missionaria di don Bosco è la convinzione del valore lievitante del Vangelo, cioè la convinzione che il Vangelo ha la capacità di lievitare tutte le culture. In uno dei documenti più belli che abbia mai prodotto la Santa Sede l’Evangelii nuntiandi del 1975, Paolo VI ha detto da una parte quello che era ovvio, cioè che il Vangelo si può inculturare in tutte le culture, e quello è vero, che si può esprimere diversamente secondo le culture, che però il Vangelo è chiamato a non identificarsi con nessuna cultura. Per capire perché non si può identificare con nessuna cultura, basta guardare alla croce. La croce fa saltare per aria la cultura ebraica, che chiudendosi in se stessa, non lasciandosi purificare e trasformare da Gesù e dal suo Vangelo riafferma, secondo quello che dice il Vangelo di Giovanni al capitolo 19 versetto 6: «Abbiamo una legge e secondo questa legge deve morire». La crocifissione mette in crisi le culture in tutto quanto vi è di disumano, in tutto ciò che in esse non corrisponde al disegno di Dio sulla dignità di tutte le persone, qualsiasi sia la loro cultura, il loro sesso, razza, colore della pelle. La croce obbliga la cultura, qualsiasi cultura, a rivedersi: Perciò non esiste evangelizzazione se non viene toccato il nervo della cultura, l’anima della cultura, i centri di decisione della persona. E un esempio lo abbiamo visto in quanto è accaduto nel Rwanda e nel Burundi, due popoli in cui il Vangelo era arrivato già da secoli e che, appena venti anni fa, hanno vissuto un genocidio in cui sono state uccise un milione di persone, la maggioranza delle quali cristiane. Allora cosa vuol dire tutto ciò? Che il Vangelo non aveva raggiunto il nervo della cultura. Ogni cultura è importante, perché è lo spazio dove le persone nascono, crescono, si sviluppano, imparano a rapportarsi, ad affrontare la vita, ma ogni cultura ha tanti limiti. Ecco la convinzione di don Bosco, della forza lievitante del Vangelo capace dunque di assumere sì, ma al tempo stesso di purificare ed elevare le culture. Detto in altre parole tutto il mondo ha bisogno del Vangelo.
Quando parliamo di missionarietà non stiamo pensando soltanto all’Oceania, all’Asia, all’Africa, all’America latina, ma anche all’Europa. Questa cultura dell’Europa di oggi ha tanto bisogno di essere evangelizzata. Perciò anche se non tutti quanti andrete nelle missioni, tutti quanti dovrete essere missionari lì nel posto dove vi trovate.
Il terzo elemento tratteggiante e molto specifico della missionarietà di don Bosco è la sua predilezione per i giovani, consapevole che essi nel tessuto sociale dei popoli non contano, e sembrano dover rassegnarsi ad essere solo dei consumatori di prodotti esperienze e sensazioni o spettatori della storia, invece di protagonisti. Questo però non corrisponde al Vangelo, alla prassi e concezione di Gesù, che quando gli è stata posta la domanda «Chi è il più importante?», ha chiamato un bambino e lo ha posto al centro. Il che vuol dire che i giovani, i bambini e gli adolescenti devono essere al centro: questo è uno degli elementi del patrimonio spirituale salesiano più ricco da portare in tutte le culture dove noi andiamo, e dove solitamente i giovani non contano.
Abbiamo iniziato questo incontro con la domanda se vi era piaciuto il film su don Bosco che è stato trasmesso dalla RAI. A me è piaciuto molto, proprio per questo, perché ci ha fatto vedere un uomo sensibile alla realtà sociale, un uomo che ha visto nei ragazzi poveri ed abbandonati il segno di Dio che gli indicava la sua missione, un uomo che sa che deve forse inaugurare strade nuove come prete, un uomo che non ha avuto altra causa per vivere se non i giovani; un uomo che ha scoperto che anche se i giovani non contano per la società essi sono la porzione più delicata e dunque bisognosa di opportunità, di risorse e di investimenti per il loro sviluppo; un uomo che ha saputo credere ad essi e ha scommesso sulla loro educazione, con uno stile davvero innovativo, fatto di vicinanza, fiducia, amicizia, amore, e che ha dato risultati meravigliosi come lo dimostra il fatto che sono stati quelli ragazzi a condividere con Don Bosco la sua passione educativa e a prolungare la sua opera nella storia. I giovani non sono soltanto il futuro: sono anche il presente!
Cerco ora di precisare meglio ciascuno dei 3 elementi che indicato.
L’obbedienza al comando di Gesù: essere testimoni di Cristo.
Dobbiamo essere testimoni di Cristo per una Europa e per un mondo della speranza, perché sembra che non ci sia più speranza. Sembra che siamo arrivati alla conclusione che è possibile una trascendenza all’infinito nel settore economico e tecnologico, nella consapevolezza della dignità dei diritti, però senza trascendenza, racchiusi in una immanenza senza futuro, condannati come Sisifo a portare in cima alla montagna quella pesante pietra sulle spalle soltanto per sperimentare che quando si sta per raggiungere la vetta, la pietra cade fino al fondo e dover ripartire dal punto di partenza.
Stiamo assistendo alla nascita e allo sviluppo di una cultura senza futuro perché senza speranza. Allora essere cristiani vuol dire scommettere su un mondo, su un’Europa della speranza.
Che significa questo? Giovanni Paolo II lo ha espresso con chiarezza meridiana, cioè dare anima cristiana al processo di integrazione europea. E questo si risolve non solo riconoscendo le radici cristiane dell’Europa nel passato, ma soprattutto con la presenza di cristiani che possano testimoniare e dire che cosa significa essere cristiani in un’Europa che ha deciso di organizzarsi senza Dio, come i costruttori della torre di Babele nel loro tentativo di raggiungere il cielo con le proprie mani, come a voler strappare il cielo a Dio per diventare loro stessi Dio. Cosa significa essere cristiani così da poter dare anima cristiana all’Europa? Significa costruire un mondo accogliente. Il mondo in cui viviamo non è per nulla accogliente. Basti vedere il problema sempre più scottante dei migranti, degli sfollati dalle guerre e guerriglie, delle vittime delle sciagure naturali ma anche delle grandi follie ed ingiustizie; significa scommettere su un mondo più solidale in un contesto di globalizzazione in cui si privilegia il successo individuale, “to be the number one”; significa avere un modo diverso di concepire la persona, la comunità, il tessuto sociale, il mondo. Significa costruire un mondo sempre più rispettoso della diversità. Perciò dicevo che questa spedizione missionaria è in linea di continuità con la prima di don Bosco del 1875 ma anche diversa. Ogni non possiamo mai imporre il Vangelo, possiamo solamente proporlo ma non imporlo. Nove anni fa, quando mi è stato conferito il dottorato honoris causa dall’Università di Torino, è stato dato anche al Prof. Romano Prodi, il quale nella sua lezione magistrale ha presentato la sua esperienza come Presidente della Commissione Europea. Vi ha detto tra le altre cose che, nel suo rapporto con le altri nazione, l’Europa non può imporre la democrazia in nessuna parte del mondo, ma semplicemente proporla. Parallelamente oggi non si può imporre neppure il Vangelo, bisogna essere rispettosi della diversità culturale, religiosa, e collaborare nella costruzione di un mondo sempre più comprensivo, più tollerante.
Ecco che cosa significa essere sempre più obbedienti al comando di Cristo. Mi sembra importante cercare di dare contenuto a questo, farlo diventare programma educativo, programma pastorale, altrimenti diventa uno slogan pubblicitario senza contenuto.
Il secondo punto, quello del valore lievitante del Vangelo.
Qui vorrei parlare concretamente del problema della globalizzazione come viene capita e vissuta nelle sfere economiche, che implica null’altro che il passaggio da mercati nazionali a internazionali, un fenomeno pervasivo perché, come lo constatiamo ovunque, si tratta di un processo di interscambio planetario che pone in collegamento economia, finanza, nazioni, culture, valori, e religioni, quasi omogeneizzando tutto. Risulta facile da capire ed immaginare l’influsso negativo della globalizzazione per i paesi poveri. C’è in fatti uno sfruttamento delle popolazioni, un dominio delle multinazionali, il protezionismo economico, la crisi e fragilità delle economie, l’esclusione delle minoranze, e si potrebbe continuare fino a denunciare i mezzi attraverso cui milioni di uomini e donne sono umiliati nella loro dignità, nei loro diritti che vengono calpestati.
Certo non condanno la globalizzazione. È una realtà umana, dunque non è un destino ma una opportunità, che ha anche risvolti positivi: l’apertura di orizzonti, lo scambio planetario di informazioni, la coscienza delle situazioni povertà e dello sfruttamento ovunque, la creazione di centri culturali internazionali, la consapevolezza di solidarietà internazionale e apertura agli scambi strutturali. Però cosa vuol dire che non è un destino ma che è un’opportunità? Significa che deve essere governata politicamente, orientata positivamente nella direzione sopra indicata della solidarietà universale. Giovanni Paolo II insisteva nella necessità di umanizzare la globalizzazione, di darle un volto umano. E’ questa la scommessa reale della globalizzazione che coinvolge tutti noi e interroga soprattutto le nuove generazioni. Perché il significato più grande non è economico, nemmeno sociale o politico, ma antropologico.
La sfida è allora quella di garantire una globalizzazione incentrata sulla persona che è il presupposto della globalizzazione della solidarietà, della pace e dei diritti umani. Solo incentrandola sulla persona, sui giovani, sugli adulti, sui disabili, sui migranti, cioè partendo dagli ultimi, la comunione tra individui e popoli può essere valutata sopra qualsiasi sistema, idea o ideologia. Io insisto che il problema nel mondo non è la povertà, bensì la cultura imperante, vale a dire un modo di pensare, di concepire la persona umana, di organizzare il tessuto sociale, il rapporto internazionale che favorisce l’individualismo, la cupidigia, l’egoismo, la prevalenza del bene individuale su quello sociale, l’esclusione, la segregazione. Da questo punto di vista non sono convinto che il problema del mondo a livello internazionale sia soltanto “a new governance”, come postulano alcuni, ma che abbiamo bisogno di “un nuovo ordine internazionale”. Ci vogliono piani concreti di azione, investimenti per creare nuove opportunità di lavoro, coraggio per passare dal piano scolastico di pura istruzione ad una pianificazione integrale, consapevoli che l’educazione è una priorità per superare la povertà e cambiare la cultura.
L’Unesco, nel preambolo della sua costituzione, afferma che la crescita economica di una nazione è necessaria ma non sufficiente e che lo sviluppo politico è indispensabile ma non sufficiente, che il vero welfare dipende dalla solidarietà intellettuale e morale della società. Bisogna cercare di toccare le culture tanto colpite da questa globalizzazione, ostaggio dell’economia, con la forza del Vangelo e della nostra presenza educativa. Per globalizzare la solidarietà, la pace, i diritti umani, bisogna puntare soprattutto sull’educazione dei giovani, E’ la nostra opportunità, più che mai, per noi Salesiani, FMA, Famiglia Salesiana, Volontariato Salesiano. È anche necessario e urgente operare perché i giovani sono i più esposti al rischio, al potere ingiusto e cattivo, perché senza esperienza, senza preparazione, fragili. I giovani con la loro presenza sono chiamati ad arricchire i popoli, le culture, a trasformali. Questa era la convinzione di don Bosco. I giovani sono pieni di vita nuova, portano gioia e musica ai nostri cuori.
Orbene, come aiutare i giovani a superare i grandi problemi che affrontano del presentismo, della frammentazione della loro persona, della etica del fai-da-te senza valori assoluti? Ripeto che in questo mondo globalizzato abbiamo bisogno di una nuova cultura: una cultura della libertà responsabile. Diceva Victor Frankl che così come nella costa Est degli Stati Uniti si era innalzata la statua della libertà, inviata dalla Francia come dono, nella costa Ovest dovrebbe esserci la statua della responsabilità. Abbiamo bisogno non soltanto di una cultura dei diritti ma anche dei doveri, una cultura della libertà responsabile al servizio degli altri che ci aiuti a superare questa cultura della logica del potere, dell’individualismo prevalente. Cosa ci vuole per creare questa nuova cultura? Impostare una cultura della essenzialità contro l’impoverimento generale dei beni materiali e spirituali. Una cultura dell’amore contro questa idolatria del corpo e questa prostituzione dello spirito cui stiamo assistendo. Implica onestà culturale per chiamare le cose con il loro nome, chiamare male ciò che è male, buono ciò che è buono, denunciare senza paura ciò che è ingiusto, la violazione dei diritti dei deboli senza demonizzare o canonizzare tutto e tutti. Implica superare il culto del corpo (basta vedere le ore che spendono i giovani e non solo i giovani in attività di body building e fitness) fino a diventar un’idolatria. Mi domando da dove traeva Madre Teresa la luce per vedere i bisogni dei più poveri e l’energia per venire incontro ad essi? Non dal “body building”, ma dal cuore. Va bene la salute e la cura del corpo, ma occorre non arrivare a una corpolatria. Implica il coraggio di essere solidali, di condividere i propri beni materiali e spirituali e lottare contro lo spreco di cose, della natura, del linguaggio, della sofferenza, della gioia dell’amore.
Ecco, miei cari, che cosa significa essere convinti come don Bosco del valore lievitante del Vangelo. Che tutte le culture vanno assunte però vanno anche purificate ed elevate.
Finalmente il terzo punto: la predilezione per i giovani.
Cosa fare? Credere nella centralità dei giovani, come ha detto Gesù, che ha posto il bambino al centro. Questo significa il rispetto del diritto della vita, la salvaguardia della famiglia. Comporta lottare contro l’individualismo, il consumismo, il relativismo etico, la superficialità. Implica più concretamente la cura dei migranti, imparare il dialogo interculturale, lo scommettere sempre di più sull’educazione, la formazione e l’occupazione, la tutela del matrimonio e l’impegno per una cittadinanza molto più attiva. Abbiamo bisogno di essere costruttori di pace.
Vorrei finire con una lettera che ho ricevuto il giorno prima di venire, una lettera di un giovane, Nino Baglieri, un giovane che ha fatto la scelta di diventare Volontario con don Bosco, che ha avuto un incidente che lo ha reso paralizzato dalla testa ai piedi. E’ una lettera che ha scritto ai giovani il 17 luglio 2004, in occasione della sua professione perpetua con cui si è consacrato interamente al Signore anche se inchiodato al letto.
Guardate cosa scrive ai giovani…
---
Aiutatemi a Lodare e Ringraziare Dio per tutto quello che opera nella mia vita
Mi trovo da 36 anni sotto il peso della croce, Gesù rende la mia croce leggera e soave cambiando la mia sofferenza in gioia.
Sono tutto paralizzato, posso muovere solo la testa, ma il mio cuore è pieno di gioia e di tanta forza nel testimoniare il Signore al mondo interno.
Lui mi fa camminare per il mondo pur restando fermo nel mio letto, mi fa abbracciare il mondo anche se le mie mani non si muovono.
Sono felice di poter comunicare a voi tutta la gioia del Signore, Gesù è la vera gioia ed io vi invito ad assaporare la sua gioia, aprite il vostro cuore al suo amore, Gesù è il compagno della vita, l’amico fedele che non si lascia mai, lui si prende cura di ciascuno di voi, vi conduce per mano per le vie di questo mondo.
Credetemi il mondo non da la felicità, fuggite dai venditori di morte, quanti giovani si perdono per le vie del mondo, la droga, il sesso, il potere, divertimenti e piaceri che lascino vuoti, delusi. Si va sempre in cerca di qualcosa che ci da la gioia, ma poi finisce subito e ricomincia la ricerca.
La vera Gioia è dentro di voi, basta scoprirlo, Gesù è la vera gioia, lasciatevi guidare dal suo amore e tutto sarà più facile, lui vi aiuta a superare tutta la difficoltà della vita, nutritevi della sua parola che è Luce per i vostri passi, accostatevi spesso ai Sacramenti, specialmente quello della confessione e della comunione per avere forza e per essere autentici cristiani, figli di Dio.
Il vostro cuore occorre che sia aperto all’Amore della Carità verso i fratelli. Siate portatori di Pace, sempre pronti a perdonare tutto e tutti. Non restiate indifferenti davanti ai problemi dei fratelli, fatevi carico della loro sofferenza.
Don Bosco disse “MI BASTA SAPERE CHE SIETE GIOVANI CHE IO VI AMO ASSAI”
Io vi voglio bene, vi sono vicino con la preghiera e la mia offerta di sofferenza, testimoniate con la vostra vita l’Amore di Dio agli altri giovani, dovrete essere Luce, Lievito e sale della terra, lo Spirito Santo vi darà la forza di essere suoi testimoni.
Siamo chiamati tutti alla Santità, nessuno è escluso, dipende da noi, di come diamo il nostro "“Sì" al Signore. E se qualcuno sente nel proprio cuore la voce del Signore che lo invita a seguirlo più da vicino, ad una vita Consacrata, non abbia paura a dire il proprio “Sì”, totale, un Si alla vita.
Maria Ausiliatrice sia la Guida che vi porti a Gesù, la Maestra e la Compagna della vita.
Auguri di ogni bene Pregate per me…
Alleluja!
Nino Baglieri
---
Roma – 16 Settembre 2013
Don Pascual Chávez
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)