Ciò che mi lascia insoddisfatto, inquieto, quando arrivo alla diagnosi, è una domanda: che senso ha per la vita di quel bambino, o di quella donna, il difetto genetico che ho scoperto? Perché è presente in loro, e non in me? «La nostalgia di Dio che abita il cuore umano» è il più potente «impulso alla ricerca scientifica».
del 14 maggio 2012 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) return; js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk')); 
          Nel suo discorso al Policlinico Gemelli di giovedì 3 maggio 2012, Benedetto XVI ha sollecitato un fecondo incontro tra scienza e fede nel mondo della ricerca e della medicina, «spesso condizionato da riduzionismo e relativismo» che portano a oscurare il valore della vita e il significato della malattia. Insieme a don Roberto Colombo, docente alla Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica e studioso di malattie genetiche dell’uomo, rileggiamo l’importante intervento del Papa.
Benedetto XVI ha sottolineato che la riduzione «tecnopratica» della ragione porta «a smarrire il senso delle cose» che le scienze della vita scoprono. Da dove nasce questo smarrimento culturale dello scienziato moderno?
          Quando un genetista incontra un paziente affetto da un disordine ereditario è anzitutto attratto dalla sua patologia, quello che noi chiamiamo il fenotipo clinico, etimologicamente «ciò che si vede della sua malattia». È il metodo stesso della conoscenza della realtà che lo guida: il «male invisibile» si manifesta attraverso segni visibili. Poi, la ragione – fatta per spalancare l’intelligenza a tutti i fattori della realtà – lo guida alla ricerca dell’origine della malattia trasmessa in quella famiglia: un «errore» nella sequenza delle basi del Dna, la delezione di un frammento del gene, o un’altra anomalia nei cromosomi. Infine, vuole spiegare il nesso causale tra il difetto molecolare che ha scoperto nelle cellule del paziente e la sua malattia. Sta male perché una delle migliaia di proteine del corpo è  assente o non funziona, bloccando così alcuni delicati processi fisiologici. Molti colleghi si fermano qui nella loro ricerca diagnostica: la ragione scientifica sembra avere esaurito il suo compito.
Che cosa resta da indagare alla ragione dello scienziato e del medico?
          Ciò che mi lascia insoddisfatto, inquieto, quando arrivo alla diagnosi, è una domanda: che senso ha per la vita di quel bambino, o di quella donna, il difetto genetico che ho scoperto? Perché è presente in loro, e non in me? Come può essere che dalla meravigliosa architettura della vita scaturisca una creatura che soffre per un difetto nel suo corpo? Ovvero, dove sta la radice profonda, la consistenza della nostra vita, nella quale posso cercare, domandare il significato di quello che scopro nel malato e in me stesso? È questo il punto, specifico di un biologo e medico, in cui si accende il quaerere Deum di cui parla il Papa: è l’inizio della ricerca dell’Assoluto, di ciò che è e non può non essere, a partire dal contingente, da quello esiste e non esiste nella realtà del corpo e della mente umana. Nella biomedicina e nella pratica clinica il limite, la finitezza della vita umana rimanda inesorabilmente ad altro da sé come fondamento di sé. Così, Benedetto XVI può affermare che «la nostalgia di Dio che abita il cuore umano» è il più potente «impulso alla ricerca scientifica». Censurare la ragione quando si appella alla trascendenza è anti-scientifico, perché cancella la categoria suprema della ragione stessa, quella della possibilità.
A quale possibilità allude?
          La «strana penombra» – così la chiama il Papa – che grava sull’orizzonte della realtà non può essere ultimamente chiarita dalla sola ragione, ma questa, se è libera di spalancarsi su tutto il reale, lascia aperta la possibilità che l’autore della vita, Dio stesso, si faccia incontro a noi e ci sveli il volto profondo della realtà della vita umana che lo scienziato e il medico indagano. Una possibilità che storicamente si è realizzata in Gesù di Nazareth. La via della scienza e quella della fede si incontrano attraverso la ragione sul sentiero tracciato da Dio stesso nella storia. Per un uomo di scienza e di medicina non sarebbe ragionevole sbarrare la strada a questo percorso alla ricerca del senso ultimo della vita, della salute e della malattia.
Lo scienziato deve allora diventare filosofo e teologo?
          Non certo nell’accezione accademica di queste discipline. Ogni forma di sapere ha un proprio statuto epistemologico e un percorso di formazione intellettuale autonomo. Nelle università, e in particolare in quella Cattolica, c’è spazio per la ricerca empirica e per quella metafisica-teologica, ma l’intero mondo del sapere non può essere sistematicamente coltivato da una sola persona. È la domanda sul senso ultimo delle cose che si studiano qualunque esse siano – che deve essere vivace in ciascun ricercatore, medico e docente. Gli antichi greci dicevano che un medico deve essere iatros philosophos: uno che, studiando la malattia, ama ricercare in essa il senso della vita e della morte. Per noi, in Università Cattolica, questo senso è una presenza, il cuore di Cristo, il cui volto cerchiamo di scoprire ogni giorno nel nostro lavoro.
Francesco Ognibene
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