Scriveva Lévinas: «Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell'altro». Ecco ciò che siamo chiamati a vivere nell'incontro con lo straniero al di là della paura e al cuore della nostra identità: incontrare l'altro non significa farsi un'immagine della sua situazione, ma assumersi una responsabilità.
del 25 aprile 2008
Anche in Italia, come ormai in tutta l'Europa occidentale, ci troviamo di fronte a un consistente fenomeno immigratorio: milioni di uomini e donne appartenenti a mondi, etnie, culture, lingue, religioni diverse e fino a ieri di fatto estranee l'una all'altra si trovano a vivere fianco a fianco tra loro e in mezzo a un paese e una cultura «altri», che quanti lo abitano da più tempo chiamano «nostro». Fenomeno certo non nuovo quello della migrazione - basterebbe pensare all'emigrazione italiana da quando esiste lo stato unitario fino a pochi decenni or sono - ma nuova è la convergenza simultanea di diversi flussi migratori verso l'Europa. Una complessità di situazioni che desta interrogativi, dal primordiale «Perché vengono da noi? Non possono restarsene a casa loro?» al più preoccupato «Che ne sarà del nostro Paese, della nostra cultura, del nostro modo di vivere e di convivere?».
 
Le risposte al primo tipo di domanda appaiono più facili, anche se sovente tendiamo a rimuoverle: da sempre, infatti, non è il pane che si muove verso i poveri, ma sono i poveri ad accorrere verso il pane, da sempre quando gli uomini hanno speranza di trovare una vita migliore altrove sono pronti a tentare l'avventura della migrazione, anche a costi umani altissimi. Sofferenze sempre antiche e sempre nuove accentuano periodicamente questa pressione verso l'emigrazione ma oggi paiono convogliarla con particolare intensità verso l'Europa: miseria, carestie e conflitti che affliggono l'Africa, insicurezza e violenze che spingono minoranze osteggiate a cercare asilo altrove - si pensi ai cristiani del Medioriente - guerre e lotte entiche che generano profughi e rifugiati... A questo si aggiunga anche il sogno di un mondo ricco di beni e di consumi senza limiti che i mezzi di comunicazione alimentano a dismisura in popoli appena usciti da ristrettezze economiche e libertarie, come quelli dell'Europa «d'oltrecortina».
 
In un sapiente discorso al Parlamento europeo quattro anni fa, l'allora segretario generale dell'ONU Kofi Hannan attirò l'attenzione sul secondo tipo di problematiche suscitate dal fenomeno migratorio, quello legato alle modalità e alla qualità della futura convivenza nelle nostre società: «I migranti hanno bisogno dell'Europa - disse Hannan - ma l'Europa ha bisogno dei migranti: un'Europa ripiegata su se stessa diventerebbe più meschina, più povera, più debole, più vecchia anche. Un'Europa aperta, invece, sarà più giusta, più forte, più ricca, più giovane se voi saprete governare l'immigrazione. I migranti sono una parte della soluzione e non una parte del problema: essi non devono diventare i capri espiatori di diversi malesseri della nostra società».
 
Oggi sono ormai molti a riconoscere la verità di queste parole e del fatto che c'è bisogno degli stranieri per poter mantenere e aumentare il benessere, che c'è bisogno della loro presenza lavorativa e contributiva perché molti lavori non sono più assunti e svolti da noi; forse meno numerosi sono quanti vedono in questa necessità anche una opportunità di arricchimento culturale, di dilatazione della democrazia, della giustizia, della pace.
 
Ma oltre che interrogativi dalle risposte complesse, la presenza degli stranieri desta anche timori e paure, perché il diverso è veramente e radicalmente altro da me, perché era lontano e ora è vicino, perché era sconosciuto e ora si fa conoscere e vuole conoscere. È fisiologico che la presenza dello straniero ponga noi in questione: proprio perché manca un terreno comune su cui fondare un'intesa e la conoscenza del retroterra da cui proviene, ciò che nasce immediatamente e spontaneamente di fronte allo straniero è la paura. E la paura non va derisa né minimizzata, ma presa sul serio e fronteggiata per capirla e vincerla.
 
Ora, un dato fondamentale di cui tenere conto è che nell'incontro con lo straniero non va messa in conto solo la «mia» paura, la paura di chi accoglie, ma anche e forse soprattutto la «sua» paura, la paura di chi arriva in un mondo estraneo, dove non è di casa, un mondo di cui conosce poco o nulla, un mondo che non gli offre alcuna protezione. Sì, la prima sensazione nel rapporto tra residente che accoglie e immigrato che arriva è la paura, anzi sono due paure a confronto. E non basta invocare elementi ideologici, principi religiosi o etici per esorcizzare la paura: essa va affrontata come presa di consapevolezza della distanza, della diversità, della non conoscenza e, quindi, della non affidabilità. La paura dell'altro è una sensazione paralizzante che va superata non rimuovendola bensì assumendola. Due sono infatti i rischi nella nostra lotta contro la paura: negarne l'esistenza e quindi assolutizzare la differenza dell'altro, sacralizzare l'altro e rinunciare così alla propria cultura, oppure assolutizzare la propria identità intesa come esclusiva ed escludente, assumendo un atteggiamento difensivo dei propri valori fino a farne un presidio da difendere anche con la forza contro ogni minaccia reale o presunta all'identità culturale o religiosa.
 
In entrambi i casi si dimentica che l'identità a livello sia personale che comunitario e sociale si è formata storicamente e si rinnova quotidianamente nell'incontro, nel confronto, nella relazione con gli altri, i diversi, gli stranieri. L'identità infatti non è statica ma dinamica, in costante divenire, non è monolitica ma plurale: è un tessuto costituito di molti fili e molti colori che si sono intrecciati, spezzati, riannodati a più riprese nel corso della storia. Quando il fantasma dell'identità porta a ridurre le relazioni sociali alla materialità del dato etnico, dell'omogeneità del sangue, della lingua parlata o della religione praticata allora si apre la via a forme di politica totalitaria e intollerante. I risorgenti nazionalismi e le tendenze localistiche si accompagnano sempre a spinte xenofobe e razziste che tendono all'esclusione dell'altro e si risolvono in un autismo sociale: una mancanza di ossigeno vitale contrabbandata come nicchia dorata ma che in realtà diviene un sistema asfittico, in uno spazio in cui l'unica pianta in grado di crescere è la barbarie. Scriveva Lévinas: «Io sono nella sola misura in cui sono responsabile dell'altro». Ecco ciò che siamo chiamati a vivere nell'incontro con lo straniero al di là della paura e al cuore della nostra identità: incontrare l'altro non significa farsi un'immagine della sua situazione, ma assumersi una responsabilità senza attendersi reciprocità, fino all'ardua ma arricchente sfida di una relazione asimmetrica, disinteressata e gratuita. Solo così la vicenda dell'incontro con lo straniero si fa occasione di umanità per tutti.
Enzo Bianchi
Versione app: 3.25.0 (fe9cd7d)