È da due mesi che i cristiani dell'Orissa e di altri cinque Stati dell'India sono nel mirino dei fondamentalisti indù le cui violenze hanno provocato finora sessanta morti e decine di migliaia di fuggitivi. Notizie tragiche ma pubblicate senza grande risalto o addirittura ignorate...
del 12 ottobre 2008
Le immagini delle chiese date alle fiamme, dei villaggi distrutti e della gente terrorizzata che per trovare scampo alle persecuzioni è costretta a vivere in campi profughi, incominciano ad apparire in tv.
 
È da due mesi che i cristiani dell’Orissa e di altri cinque Stati dell’India sono nel mirino dei fondamentalisti indù le cui violenze hanno provocato finora sessanta morti e decine di migliaia di fuggitivi. Notizie tragiche ma pubblicate senza grande risalto o addirittura ignorate in tutte queste settimane dai grandi mezzi di comunicazione. Adesso finalmente s’inizia a parlarne. Anche le istituzioni hanno battuto un colpo: nel vertice bilaterale tra Unione Europea e India che si è tenuto qualche giorno fa a Marsiglia il presidente francese Sarkozy, su esplicita sollecitazione del parlamento europeo, ha chiesto al governo di New Delhi di proteggere le minoranze cristiane e di mettere fine all’ondata di violenze nei loro confronti. «È una vergogna nazionale», ha ammesso il primo ministro indiano Manmohan Singh, atteso alla prova dei fatti dopo le parole di condanna. È una vergogna ma a quanto pare il mondo non si scandalizza affatto. 'La caccia al cristiano' ha lasciato sostanzialmente indifferenti le nostre coscienze. A fianco dei monaci buddisti, scesi in piazza la scorsa primavera a sfidare la dura repressione cinese in Tibet, si era schierata l’intera opinione pubblica occidentale. C’erano state dimostrazioni, marce, sit-in di protesta e una campagna martellante su giornali e tv del mondo intero. Nulla di tutto questo per i cristiani dell’India.
 
Come se il loro dramma che si consuma nel buio di una foresta e nel grigiore di una vita da profughi non riuscisse a reggere il confronto mediatico con la protesta colorata, le tonache rosse e arancioni e le teste rapate dei bonzi. O forse perché il tetto bruciacchiato di una povera chiesa nel villaggio indiano di Phulbani e la statua della Madonna profanata e fatta a pezzi nella cattedrale di Jabalpur non coinvolgono emotivamente quanto la bellezza dei monasteri distrutti in terra tibetana, sinonimo di fascino e di mistero. I cristiani perseguitati dell’Orissa non hanno un testimonial come Richard Gere e non entrano come sfondo negli spot pubblicitari delle auto di lusso. Detto in termini brutali: non sono degni d’attenzione, ancor meno suscitano solidarietà. Da dove deriva tanta indifferenza per la loro sorte? Qualcuno dirà che l’Occidente ha dimenticato, anzi vuole cancellare le proprie radici religiose e non trova dunque alcuna motivazione per difendere i cristiani d’Oriente. Ma forse c’è qualche altro motivo, più nascosto e meno confessabile. L’ha scritto Angelo Panebianco, editorialista del Corriere della Sera, uno dei pochi commentatori laici a interrogarsi sul silenzio della nostra società di fronte alle persecuzioni dei cristiani. Perché?
 
A suo dire, «sotto sotto c’è l’idea che se uno è cristiano in India, in Pakistan o in Iraq e se gli succede qualcosa, in fondo se l’è cercata. La tesi dei fondamentalisti islamici o indù secondo cui il cristianesimo altro non è se non uno strumento ideologico al servizio del dominio occidentale sembra condivisa qui da noi da un bel po’ di persone».
 
Sono gli stessi che non perdono occasione di denunciare le presunte invasioni di campo della Chiesa cattolica in Italia e in Europa, ma non hanno nulla da obiettare alla violenze dei fondamentalisti che s’accaniscono contro i cristiani in altre parti del modo. È questa cecità ideologica che, non riconoscendo la verità dei fatti, impedisce la solidarietà con le vittime delle persecuzioni.
Luigi Geninazzi
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