I discorsi del presidente Usa Barack Obama alla University of Notre Dame e all'Università islamica Al-Azhar del Cairo si possono utilmente confrontare con elementi della fede e della dottrina sociale cristiana
del 04 settembre 2009
Nelle ultime settimane Barack Obama ha tenuto due importanti discorsi ufficiali in due contesti universitari molto diversi. Il 17 maggio ha parlato alla University of Notre Dame, l’Ateneo cattolico dell’Indiana dove era stato invitato per ricevere una laurea honoris causa in occasione della tradizionale consegna dei diplomi di laurea a 2.900 studenti. Lo scorso 4 giugno, al Cairo, dall’Università islamica Al-Azhar, considerata il principale centro d’insegnamento religioso dell’islam sunnita, ha tenuto un lungo discorso rivolto in particolare al mondo islamico.
      Non voglio fare un commento politico, che non è nelle mie competenze. Ma sono rimasto colpito da molti accenti contenuti nei due interventi del presidente degli Stati Uniti. Al di là dei singoli argomenti toccati, essi hanno espresso uno sguardo sul fatto politico che si può utilmente confrontare con elementi fondamentali della dottrina sociale della Chiesa cattolica.
    
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      Nel discorso di Notre Dame mi hanno colpito già le parole che Obama rivolge fin dall’incipit alla gioventù. Il presidente avverte che stiamo attraversando un momento storico particolare, e qualifica questa circostanza come un privilegio e una responsabilità per i giovani. Già in questo approccio positivo c’è qualcosa di cristiano. I compiti di ogni generazione sono compiti dai quali la Provvidenza di Dio non è assente.
      Per valutare appieno la portata dei due interventi occorre tener presenti due premesse. Innanzitutto c’è da dire che i suoi discorsi riguardano i problemi della società temporale. E la Chiesa ha riconosciuto, anche in importanti encicliche e pronunciamenti del magistero, l’autonomia delle società temporali. Autonomia non significa separazione, antagonismo, isolamento o ostilità tra la società temporale e la Chiesa. Semplicemente, la Chiesa riconosce che la società temporale ha una consistenza propria, con i suoi fini propri. Nel dialogo con tale realtà, il contributo offerto dalla Chiesa – che rappresenta il Vangelo e i valori della grazia – non nega né oscura ma al contrario valorizza questa autonomia della società temporale.
      La seconda premessa è che Obama parla del mondo così come è oggi. Le sue parole si riferiscono agli Stati Uniti, ma coi grandi movimenti di popoli avvenuti negli ultimi decenni, le sue parole possono essere applicate a tutte quelle aree del mondo – in particolare in Occidente – attualmente abitate da società pluraliste. Obama è un capo di governo chiamato a fare i conti con una società pluralista. Questo è un dato da tener presente se si vogliono davvero capire le sue parole.
      Di fatto, il discorso alla University of Notre Dame appare disseminato di riferimenti ripresi dalla tradizione cristiana. C’è, ad esempio, un’espressione che ritorna di frequente, «terreno comune», che corrisponde a un concetto fondamentale della dottrina sociale della Chiesa, quello del bene comune.
      Nella mentalità corrente c’è la tendenza a pensare che la morale riguardi solo l’ambito della vita e dei rapporti privati. Invece, anche la ricerca del bene comune chiama in causa il riferimento a criteri e norme morali (cfr. Pacem in terris, n. 80). La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell’oggetto, della realtà a cui si applica. In questo caso, si tratta della ricerca del bene comune in una società pluralista.
      Il problema è quantomai complesso: come cercare insieme il bene comune in una società in cui ci sono idee diverse e anche conflittuali su ciò che è bene e ciò che è male. E come procedere insieme in tale ricerca senza che nessuno sia costretto a sacrificare niente delle proprie convinzioni essenziali. Mi sembra che possiamo essere d’accordo con il suo modo di impostare la ricerca di soluzioni. Anche perché, nel proporlo, Obama prende le mosse proprio da un dato sempre riconosciuto e preso in considerazione nella tradizione cristiana: le conseguenze del peccato originale. «Parte del problema sta nelle imperfezioni dell’uomo, nel nostro egoismo, nel nostro orgoglio, nella nostra ostinazione, nella nostra avidità, nelle nostre insicurezze, nei nostri egoismi: tutte le nostre crudeltà grandi e piccole che nella tradizione cristiana si intendono radicate nel peccato originale».
      Obama in un certo punto del discorso avverte: «L’ironia ultima della fede è che essa, necessariamente, contempla il dubbio. Conoscere con certezza ciò che Dio ha previsto per noi, o ciò che Egli ci chiede, va al di là delle nostre capacità umane. E chi di noi crede deve confidare nel fatto che la Sua saggezza [la saggezza del Signore, ndr] è superiore alla nostra». In apparenza, ci sono in questo passaggio parole che sembrano stonare con l’insegnamento della Chiesa. Come scrive san Tommaso, la fede come dono di Dio è infallibile. Non c’è dubbio nella fede. Non si sbaglia. Ma il credente può sbagliarsi quando il suo giudizio non procede dalla fede. Di più, è un dato di fatto che il credente, soprattutto davanti a alcune scelte pratiche, si pone delle domande su come debba operare, su quali criteri gli suggerisca la fede. E davanti ai casi concreti della vita, questi criteri possono non apparirgli sempre così evidenti e nitidi, possono sorgere dei casi di coscienza.
      La seconda parte della frase chiarisce il senso che Obama intende dare alle proprie parole: la conoscenza certa di ciò che Dio vuole da noi «supera le nostre capacità umane», ma dobbiamo confidare «nel fatto che la Sua saggezza è superiore alla nostra».
      Dal canto suo, la Chiesa cattolica sostiene e insegna che Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza già con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create. Ma nelle condizioni storiche in cui si trova, l’uomo incontra molte difficoltà a usare con frutto questa capacità naturale, per arrivare con le sole sue forze a una conoscenza vera e certa di Dio personale, come pure della legge naturale inscritta dal Creatore nelle nostre anime. Come spiega anche il Catechismo della Chiesa cattolica ai paragrafi 37 e 38, in cui si cita l’enciclica Humani generis, l’uomo ha bisogno di essere illuminato dalla rivelazione di Dio, non solamente su ciò che supera la sua comprensione, ma anche sulle «verità religiose e morali che, di per sé, non sono inaccessibili alla ragione», perché nell’attuale condizione del genere umano, «a causa delle tendenze malsane causate dal peccato originale», tali verità non possono essere conosciute «senza difficoltà, con ferma certezza e senza mescolanza d’errore».
      Nella dottrina cristiana, tenere conto delle conseguenze del peccato originale non vuol dire diventare complici del peccato, o rinunciare a proporre a tutti gli uomini anche le verità morali la cui conoscenza, nella concreta condizione storica vissuta dagli uomini su questa terra, per molti appare come offuscata.
      Neanche Obama, nel suo discorso, suggerisce di nascondere le proprie certezze morali, come se si dovesse considerare impossibile o perlomeno inopportuno sostenere l’esistenza di verità oggettive nel contesto di una società pluralista. Lui fa soltanto notare che l’esperienza del nostro limite, della nostra stessa fragilità, della nostra miseria, «non deve spingerci lontano dalla nostra fede», ma deve semplicemente «renderci più umili», rimanendo «aperti e curiosi» anche in situazioni di confronto e di contrapposizione su temi eticamente sensibili.
      Così, proprio il tradizionale insegnamento sul peccato originale suggerisce un approccio alla realtà umana che può tornare utile, nelle attuali circostanze storiche vissute nelle società pluraliste.
    
     
Obama durante l’intervento all’Università islamica Al-Azhar, Il Cairo, il 4 giugno 2009 [© Associated Press/LaPresse]
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      Ogni società pluralista vive tensioni, contrasti, divisioni su ciò che è giusto e ciò che è ingiusto. Ma c’è un modo democratico di viverle, che Obama descrive nel suo discorso e che può essere in sintonia con una concezione cristiana dei rapporti tra gli uomini. Obama dice: dobbiamo essere persuasi, come pre-giudizio (dando per una volta a questa parola un’accezione positiva), che l’altro è nella buona fede. Anche quello che non la pensa come me. Dobbiamo evitare la caricatura dell’altro, rispettare l’altro, non demonizzarlo. La democrazia vive di questa ispirazione di natura intimamente cristiana. Quando ho letto i discorsi, ho pensato subito a quell’enciclica tanto bella di Paolo VI, l’Ecclesiam Suam, dove papa Montini scrive che la via dei rapporti umani nella società è quella del dialogo, anche su verità vitali, per le quali si può arrivare a dare la vita.
      Non si tratta di “tirare a noi” questi discorsi. Ma cercare punti d’incontro. Il discorso alla University of Notre Dame mi ha richiamato anche la Dignitatis humanae, grande testo della dottrina sociale della Chiesa, dove si riconosce il dovere delle persone di ricercare la verità, che è un dovere davanti a Dio e scaturisce dalla natura umana. Dunque, quando rispetto l’altro, io rispetto in lui questa capacità di verità.
      Un’altra problematica che talvolta causa tensioni nelle società pluralistiche è la rivendicazione della libertà religiosa degli individui davanti allo Stato. Tale rivendicazione non comporta come scelta obbligata per lo Stato l’indifferentismo religioso, ma la consapevolezza dei limiti delle proprie competenze.
    
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      Mi ha colpito come Obama non abbia evitato di affrontare la questione più spinosa, quella dell’aborto, sulla quale aveva ricevuto tante critiche anche dai vescovi Usa. Da una parte tali reazioni sono giustificate: nelle decisioni politiche riguardo all’aborto sono implicati valori non negoziabili. Per noi è in gioco la difesa della persona, dei suoi diritti inalienabili, di cui il primo è proprio quello alla vita. Ora nella società pluralistica ci sono differenze radicali su questo punto. C’è chi, come noi, considera l’aborto un intrinsece malum; ci sono quelli che lo accettano, e addirittura alcuni che lo rivendicano come un diritto. Il presidente non prende mai quest’ultima posizione. Al contrario, mi sembra che dia dei suggerimenti positivi – lo ha sottolineato anche L’Osservatore Romano del 19 maggio –, proponendo pure in questo caso la ricerca di un terreno comune. In questa ricerca – avverte Obama – nessuno deve censurare le proprie convinzioni, ma al contrario deve sostenerle davanti a tutti e difenderle. Il suo non è affatto il relativismo malinteso di chi dice che si tratta di opinioni che si oppongono ad altre opinioni, e che tutte le opinioni personali sono incerte e soggettive, e dunque conviene metterle da parte quando si parla di queste cose.  
      Inoltre, Obama riconosce la gravità tragica del problema. Che la decisione di abortire «strazia il cuore di ogni donna». Il terreno comune che lui propone è questo: lavorare tutti insieme per ridurre il numero delle donne che cercano di abortire. E aggiunge che ogni regolamentazione legale di questa materia deve garantire in maniera assoluta l’obiezione di coscienza per gli operatori sanitari che non vogliono dare la propria assistenza a pratiche abortive. Le sue parole vanno nella direzione di diminuire il male. Il governo e lo Stato devono fare di tutto affinché il numero di aborti sia il minore possibile. È certo soltanto un minimum, ma è un minimum prezioso. Mi ricorda l’atteggiamento dei primi legislatori cristiani che non abrogarono subito le leggi romane tolleranti verso pratiche non conformi o addirittura contrarie alla legge naturale, come il concubinaggio e la schiavitù. Il cambiamento avvenne con un cammino lento, segnato tante volte da regressi, man mano che nella popolazione il numero dei cristiani aumentava, e, con loro, l’impatto del senso della dignità della persona. All’inizio, per garantire il consenso dei cittadini e custodire la pace sociale, vennero mantenute in vigore le cosiddette «leggi imperfette», che evitavano di perseguire azioni e comportamenti in contrasto con la legge naturale. Lo stesso san Tommaso, che pure non aveva dubbi sul fatto che la legge deve essere morale, aggiunge che lo Stato non deve mettere delle leggi troppo severe e “alte”, perché saranno disprezzate dalla gente che non sarà capace di applicarle.
      Il realismo dell’uomo politico riconosce il male e lo chiama col suo nome. Riconosce che occorre essere umili e pazienti, combatterlo senza la pretesa di sradicarlo dalla storia umana attraverso strumenti di coercizione legale. È la parabola della zizzania, che vale anche a livello politico. D’altro canto, questo non diventa in lui giustificazione di cinismo o d’indifferentismo. La tensione a diminuire per quanto possibile il male rimane persistente. È un obbligo.
 
      Anche la Chiesa ha sempre percepito come lontana e pericolosa l’illusione di eliminare totalmente il male dalla storia per via legale, politica o religiosa. La storia anche recente è disseminata di disastri prodotti dal fanatismo di chi pretendeva di prosciugare le fonti del male nella storia degli uomini, finendo per trasformare tutto in un grande cimitero. I regimi comunisti seguivano esattamente questa logica. Così come il terrorismo religioso, che uccide addirittura in nome di Dio. E quando un medico abortista viene ucciso da militanti antiaborto – è successo di recente negli Usa – occorre ammettere che persino gli slanci ideali più alti, come la sacrosanta difesa del valore assoluto della vita umana, si possono corrompere e trasformarsi nel loro contrario, diventando parole d’ordine a disposizione di un’ideologia aberrante.
      I cristiani sono portatori nel mondo di una speranza temporale realista, non di un vano sogno utopico, anche quando testimoniano la propria fedeltà a valori assoluti come la vita. Santa Gianna Beretta Molla, la dottoressa che muore per aver rifiutato le cure che avrebbero potuto far male alla bambina che portava in seno, con il suo eroismo ordinario e silenzioso tocca i cuori non solo dei cristiani; ricorda a tutti il destino comune cui tendiamo. È una forma profetica dello stile evangelico della testimonianza cristiana.
      Obama, nel suo discorso alla University of Notre Dame, fa proprio su questo aspetto un accenno molto importante. Racconta di quando fu coinvolto in un progetto di assistenza sociale nei quartieri poveri di Chicago – finanziato da alcune parrocchie cattoliche – a cui partecipavano anche volontari protestanti ed ebrei. In quell’occasione gli capitò di incontrare persone accoglienti e comprensive. Vide lo spettacolo delle opere buone alimentate dal Signore tra di loro. E in questo spettacolo fu «attratto dall’idea di far parte della Chiesa. È stato attraverso questo servizio», conclude, «che sono stato condotto a Cristo». Fa anche un elogio commovente del grande cardinale Joseph Bernardin, che allora era arcivescovo di Chicago. Lo definisce «un faro e un crocevia», amabile nel suo modo di persuadere e nel suo tentativo continuo di «avvicinare le persone e trovare un terreno comune». In quell’esperienza, dice Obama, «parole e opere delle persone con le quali ho lavorato nelle parrocchie di Chicago toccarono il mio cuore e la mia mente». Lo spettacolo della carità, che viene da Dio, ha la forza di toccare e attirare la mente e i cuori degli uomini. E questo è l’unico germe di cambiamento reale nella storia degli uomini. Obama cita anche Martin Luther King, di cui si sente discepolo.
      Che solo quarantun anni dopo l’assassinio di King proprio lui sia presidente degli Usa è un segno e una prova dell’efficacia storica della fiducia nella forza della verità. In questi stessi decenni, abbiamo visto tante ideologie fondare le loro pretese di cambiamento sulla violenza, dai programmi rivoluzionari al progetto di esportare la democrazia con la forza militare. E abbiamo registrato solo fallimenti tragici e passi indietro. Il realismo umile di Obama apre nuovi scenari anche a livello geopolitico, come ha testimoniato il suo intervento all’Università islamica Al-Azhar del Cairo.
Barack Obama all’Università Al-Azhar, il 4 giugno 2009 [© Associated Press/LaPresse]
     
      Anche in quell’intervento, Obama ha cercato di individuare un «terreno comune» su cui far procedere i complicati rapporti tra islam e mondo occidentale, con particolare riferimento agli Usa. In tale ricerca, secondo il presidente, ognuno è chiamato a guardare all’interno della propria tradizione per ritrovare i valori fondamentali e gli interessi comuni su cui costruire il rispetto reciproco e la pace. Un tale approccio costituisce una smentita radicale delle tesi sullo scontro di civiltà e un antidoto alla tendenza ad applicare stereotipi negativi agli altri. Obama nel suo discorso, ascoltato da centinaia di milioni di musulmani, si è mosso su tutt’altra linea, accordando piena fiducia alla buona fede e alla capacità di discernimento dei propri interlocutori. Proprio per questo ha potuto toccare con coraggio e chiarezza tutti i punti controversi: l’estremismo violento – che colpisce tutti, a cominciare dai musulmani –, le spedizioni occidentali in Afghanistan e Iraq, l’uso della tortura, la questione israelo-palestinese, riguardo alla quale ha ribadito il diritto dei due popoli a vivere in sicurezza nella propria patria e ha definito «intollerabile» la situazione del popolo palestinese, in sintonia con quanto ha detto il Papa durante la sua recente visita nella terra di Gesù. Sul nucleare, riferendosi all’Iran, Obama ha spiegato che non si può negare a nessuno il diritto all’uso dell’energia nucleare per scopi pacifici. Ribadendo che bisogna tendere a una situazione in cui nessuna nazione – a partire dalla sua – coltivi il progetto di ricorrere al nucleare in campo militare. Nel suo discorso al Cairo, il presidente Usa ha anche ribadito che la democrazia non si può imporre dall’esterno, e che nel cammino verso la democrazia ogni popolo deve trovare la propria strada. Ha sottolineato che la libertà religiosa è fondamentale per la pace. E in terra islamica ha anche parlato dei diritti delle donne. Tra le citazioni dei testi sacri – la Torah, il Corano e la Bibbia – mi ha colpito che dal testo biblico abbia scelto di citare il Discorso della montagna. Quel discorso è rivolto direttamente ai discepoli di Cristo. Non è fatto in primis per la società temporale, politica e civile. Ma Obama ha percepito il suo riflesso positivo e la sua ispirazione sulla vita della civitas. Questo mi ha ricordato l’intuizione di Giovanni Paolo II sul riflesso politico del perdono e delle richieste di purificazione della memoria. Non si vede come si potrà uscire da situazioni intollerabili, come quelle che si vivono in Medio Oriente, se i dolori degli uomini per le cattiverie e i torti subiti non verranno abbracciati e sciolti dalla forza riconciliatrice del perdono.
      Immagino che quest’uomo, Obama, abbia sentito tutte queste cose, quando ha dovuto preparare i suoi due discorsi. Questa cosa mi sorprende. E mi appare come un fatto interessante, anche per l’impegno politico dei cristiani nel nostro mondo globale e pluralista.
           
card. George Cottier
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