Finché era piccolino mi insegnò mia mamma stessa le preghiere. Appena divenuto capace di associarmi co' miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che ella stessa mi preparò alla prima confessione...
«Più volte fui esortato di mandare agli scritti le memorie concernenti l’Oratorio di S. Francesco di Sales... Ora si aggiunse il comando di persona di somma autorità (ndr: Pio IX), cui non è permesso di porre indugio di sorta, perciò mi fo qui ad esporre le cose minute confidenziali...
Debbo anzi tutto premettere che io scrivo pe’ miei carissimi figli Salesiani…
A che dunque potrà servire questo lavoro? Servirà di norma a superare le difficoltà future prendendo lezione dal passato; servirà a far conoscere come Dio abbia egli stesso guidato ogni cosa in ogni tempo; servirà ai miei figli di ameno trattenimento, quando potranno leggere le cose cui prese parte il loro padre, e le leggeranno assai più volentieri quando, chiamato da Dio a rendere conto delle mie azioni, non sarò più tra loro…
È un padre che gode parlare delle cose sue ai suoi amati figli, i quali godono pure nel sapere le piccole avventure di chi li ha cotanto amati...
Quando poi, o figli miei, leggerete queste memorie dopo la mia morte, ricordatevi che avete avuto un padre affezionato, e ricordandovene pregate Dio pel riposo eterno dell’anima mia.
La prima infanzia
Il giorno consacrato a Maria Assunta in cielo fu quello della mia nascita l’anno 1815 in Morialdo, borgata di Castelnuovo d’Asti. (ndr: in realtà la data precisa è il 16 agosto). Il nome di mia madre era Margherita Occhiena di Capriglio, Francesco quello di mio padre. Erano contadini, che col lavoro e con la parsimonia si guadagnavano onestamente il pane della vita. Il mio buon padre quasi unicamente col suo sudore procacciava sostentamento alla nonna settuagenaria, travagliata da vari acciacchi, a tre fanciulli, di cui maggiore era Antonio, figlio del primo letto (ndr: il padre era vedovo con un figlio quando sposò Margherita), il secondo Giuseppe, il più giovane Giovanni, che sono io, più a due servitori di campagna. Io non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpì con grave sciagura.
L’amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa in sulla sera si manifestò una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cura e fra pochi giorni si trovò all’estremo di vita.
Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, l’11 maggio 1817. Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occorrenza; soltanto mi ricordo ed è il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci voleva assolutamente rimanere. «Vieni, Giovanni, vieni meco», ripeteva l’addolorata genitrice. «Se non viene papà, non ci voglio andare», risposi. «Povero figlio, ripigliò mia madre, vieni meco, tu non hai più padre». Ciò detto ruppe in forte pianto, mi prese per mano e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché ella piangeva... Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione. Erano cinque persone da mantenere; i raccolti dell’annata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi.
Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano che i mendicanti chiedevano con premura un po’ di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutrimento. Si trovarono persone morte ne’ prati colla bocca piena d’erba, con cui avevano tentato di acquetare la rabbiosa fame. Mia madre mi contò più volte che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino, di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirci... Giunse dopo due giorni aspettatissimo in sulla sera; ma all’annunzio che nulla aveva seco, se non il danaro, il terrore invase la mente di tutti; giacché in quel giorno avendo ognuno ricevuto scarsissimo nutrimento, temevansi funeste conseguenze della fame in quella notte. Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per farsi imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. «Mio marito, prese a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, inginocchiamoci e preghiamo». Dopo breve preghiera si alzò e disse: «Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi». Quindi coll’aiuto del nominato Bernardo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta poté con quella sfamare la sfinita famiglia.
Ognuno può immaginare quanto abbia dovuto soffrire e faticare mia madre in quella calamitosa annata. Ma con un lavoro indefesso, con una economia costante, e con qualche aiuto veramente provvidenziale si poté passare quella crisi annonaria. Questi fatti mi furono più volte raccontati da mia madre e confermati dai vicini parenti ed amici. Passata quella terribile penuria, e ritornate le cose domestiche in migliore stato, venne fatta proposta di un convenientissimo collocamento a mia madre; ma ella rispose costantemente: «Dio mi ha dato un marito e me lo ha tolto; morendo egli mi affidò tre figli, ed io sarei madre crudele, se li abbandonassi nel momento in cui hanno maggior bisogno di me». Le fu replicato che i suoi figli sarebbero stati affidati ad un buon tutore, che ne avrebbe avuto grande cura. «Il tutore, rispose la generosa donna, è un amico, io sono la madre de’ miei figli; non li abbandonerò giammai, quando anche mi si volesse dare tutto l’oro del mondo».
L’opera educativa della mamma
Sua massima cura fu di istruire i suoi figli nella religione, avviarli all’ubbidienza ed occuparli in cose compatibili a quella età. Finché era piccolino mi insegnò ella stessa le preghiere; appena divenuto capace di associarmi co’ miei fratelli, mi faceva mettere con loro ginocchioni mattino e sera e tutti insieme recitavamo le preghiere in comune colla terza parte del Rosario. Mi ricordo che ella stessa mi preparò alla prima confessione, mi accompagnò in chiesa; cominciò a confessarsi ella stessa, mi raccomandò al confessore, dopo mi aiutò a fare il ringraziamento. Ella continuò a prestarmi tale assistenza fino a tanto che mi giudicò capace di fare degnamente da solo la confessione. Intanto io era giunto al nono anno di età; mia madre desiderava di mandarmi a scuola, ma era assai impacciato, per la distanza, giacché dal paese di Castelnuovo eravi la distanza di cinque chilometri. Recarmi in collegio si opponeva il fratello Antonio. Si prese un temperamento (ndr: una decisione). In tempo d’inverno frequentava la scuola del vicino paesello di Capriglio, dove potei imparare gli elementi di lettura e scrittura. Il mio maestro era un sacerdote di molta pietà a nome Giuseppe Lacqua, il quale mi usò molti riguardi, occupandosi assai volentieri della mia istruzione e più ancora della mia educazione cristiana. Nell’estate poi appagava mio fratello lavorando la campagna.
Don Emilio Zeni
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