Voler bene alla persona da educare: solo così si possono aiutare i più giovani ad acquistare fiducia in se stessi e negli altri e ad aprirsi alla realtà, superando il narcisismo iniziale
del 06 settembre 2010
         
          Il tema di questo panel, 'La sfida educativa', corrisponde esattamente al titolo del Rapporto-proposta che il Comitato per il progetto culturale della Cei ha pubblicato un anno fa con l’editrice Laterza. Partecipando alla sua elaborazione ho avuto modo di entrare nel problema e già prima me ne ero interessato quando, dal 2006 al 2008, la diocesi di Roma ha messo l’educazione al centro dei suoi programmi pastorali.
          Questa sfida, ossia 'l’emergenza educativa' (espressione che si è diffusa dopo che Benedetto XVI l’ha usata ripetutamente rivolgendosi alla diocesi di Roma) vuole indicare non una situazione eccezionale e transitoria, bensì una crisi di lungo periodo, profonda e sempre più acuta. Si tratta di un’esperienza, o di una sensazione, largamente partecipata e condivisa, anzitutto dai genitori, dagli insegnanti e in genere da coloro che si occupano di educazione – compresi noi sacerdoti –, ma anche dal più ampio corpo sociale. È interessante però cogliere la sua specificità. In ogni epoca, infatti, l’educazione delle nuove generazioni ha rappresentato per ciascun gruppo umano un compito fondamentale, a cui dedicare risorse ed energie, dando vita a percorsi, regole, usanze e anche riti formativi.
          Con l’accumulazione del sapere e la nascita di sistemi sociali più complessi si sono rese necessarie nuove realtà, come le scuole, specificamente dedicate all’educazione, e negli ultimi secoli la società industriale ha richiesto la scolarizzazione di massa, con tutti i problemi connessi. La novità del nostro tempo, quella che chiamiamo 'emergenza educativa', sembra consistere in una problematicità assai più radicale, che investe il concetto stesso e la possibilità dell’educazione.
          Non si tratta di una crisi delle tecniche educative, oggi sempre più abbondanti e raffinate, e non saranno queste tecniche a poterla superare, per quanto esse possano essere utili e feconde nel loro ambito. Per cogliere il senso di questa crisi sembra infatti indispensabile aver chiaro che l’educazione è ben più di una tecnica o di un insieme di tecniche. Essa è piuttosto un processo umano globale e vorrei dire 'primordiale', paragonabile in certo senso alla gestazione e generazione del bambino: si tratta cioè di aiutarlo a nascere sul piano della consapevolezza di sé, della relazionalità e socialità, della cultura, della libertà e responsabilità.
          La formula classica per indicare l’educazione così intesa è 'formazione della persona'. Perciò, nel Rapporto-proposta della Cei, abbiamo posto all’inizio un capitolo che approfondisce questo concetto di educazione, per proseguire con una serie di altri capitoli che prendono in esame i principali agenti e fattori dell’educazione, secondo un approccio globale e non settoriale. Abbiamo trattato quindi delle specifiche e fondamentali strutture educative, come la famiglia, la scuola e anche la Chiesa, ma abbiamo subito allargato il discorso a realtà come il lavoro, l’impresa, il consumo, e poi i mass media, lo spettacolo, lo sport, luoghi fondamentali di esperienza di vita, o di rappresentazione e interpretazione della vita, che contribuiscono, in maniera spesso determinante, a formare e 'plasmare' la persona e le relazioni tra le persone.
          Accenniamo ora ad alcuni di quelli che chiamerei 'fattori prossimi' dell’attuale emergenza educativa. Di essi si parla ogni giorno e non posso approfondirli: quindi mi basterà richiamarli. Uno, e forse il più importante di essi, è la crisi della famiglia, primo e decisivo ambito dell’educazione. Il ruolo educativo dei genitori sembra soffrire oggi di una tensione tra quella specie di narcisismo degli adulti per il quale i genitori tendono spesso a vedere il figlio come la realizzazione dei propri desideri e, dall’altra parte, l’eccessiva centralità che viene attribuita al bambino, con il rischio di monopolizzare le energie e le preoccupazioni soprattutto della madre (è interessante al riguardo un articolo di Alessandra Farkas sul Corriere della Sera del 25 luglio scorso). Questa tensione tra due diverse centralità, dell’adulto e del bambino, oltre a danneggiare il processo educativo, è una delle cause che spingono molte coppie a fermarsi al figlio unico.
          Non mi soffermo sulle difficoltà del sistema scolastico e universitario, anche perché inclino a pensare che la situazione italiana, almeno per quanto riguarda le scuole pre-universitarie, pur con tutti i suoi problemi, rimanga una delle migliori del mondo occidentale. Mi limito ad osservare che la qualità degli insegnanti è, ovviamente, l’elemento decisivo per la qualità della scuola e che oggi la questione cruciale sembra essere quella di convincere intellettualmente e di motivare esistenzialmente e concretamente gli insegnanti che il loro ruolo non può mettere al primo posto l’uso delle tecniche educative, ma riguarda l’educazione nel senso pregnante di formazione della persona.
          Man mano che crescono, le nuove generazioni diventano sempre più protagoniste e responsabili della propria educazione. Al riguardo esiste oggi un diffuso fattore di crisi: in Italia e in Europa sembra finito il tempo delle attese crescenti, nel quale era forte la speranza, per non dire la certezza, che le generazioni successive avrebbero avuto maggiori e migliori opportunità delle precedenti. Adesso prevalgono piuttosto l’attesa e l’esperienza contrarie: quando parliamo dei nostri giovani e della condizione giovanile sarà bene non perdere di vista questo cambiamento di prospettive e il peso che esso fatalmente esercita su di loro.
          C’è poi un fattore ancora più generale, di per sé tutt’altro che negativo, che influisce sui processi educativi. Mi riferisco alla velocità, enormemente più grande che nel passato e sempre crescente, con la quale si verificano oggi i cambiamenti delle condizioni concrete entro cui si svolge la nostra vita. All’origine di questo fenomeno stanno chiaramente i progressi delle scienze e delle tecnologie. Il problema che ne deriva è, per così dire, quello della sostenibilità antropologica, cioè umana, di una tale accelerazione. In altre parole, dobbiamo domandarci come sia possibile 'metabolizzare' e padroneggiare, culturalmente e moralmente prima ancora che socialmente, il cambiamento generalizzato e sempre più accelerato, ben sapendo che le nostre risorse di consapevolezza critica e di impegno morale non sono suscettibili di analoga accelerazione. Gli effetti di spaesamento e disorientamento che ne possono derivare rischiano di compromettere, negli educatori prima che negli 'educandi', la fiducia e la voglia di educare.
          Giungiamo così al fattore che ritengo più profondo e determinante dell’attuale emergenza educativa. Si tratta di una crisi della cultura e in particolare dell’antropologia, della concezione e interpretazione dell’uomo. Questa crisi ha grosso modo due tappe, come ha precisato il cardinale Angelo Scola in un intervento pubblicato su <+corsivo>L’Osservatore Romano<+tondo> del 21-22 giugno scorso. La prima tappa è costituita dalla scissione tra il mondo 'oggettivo' della razionalità e il mondo 'soggettivo' ed emotivo dei sentimenti e degli affetti. Solo la prima sfera sarebbe di pertinenza dell’educazione (o almeno dell’educazione scolastica), che consisterebbe quindi in una corretta trasmissione di informazioni, tecniche, abilità e competenze: l’educazione significherebbe dunque addestramento all’uso della ragione, e di una ragione circoscritta alla sua dimensione scientifica e strumentale.
          Fuori dall’ambito dell’educazione, come della stessa ragione, resterebbe invece il mondo degli affetti, dominio esclusivo di un soggetto che inventa e costruisce se stesso in un’autonomia tendenzialmente autoreferenziale. La seconda tappa, che sta sviluppandosi proprio in questi anni, sulla spinta degli straordinari progressi delle neuroscienze e delle biotecnologie, supera quella scissione riducendo tutte le espressioni della sfera emotiva, affettiva e morale, compresa la nostra libertà, a pure attività e processi cerebrali che, in prospettiva, potrebbero forse essere riprodotti anche artificialmente. Così il soggetto umano viene ridotto alla razionalità scientifica e strumentale e diventa, come è stato affermato dal filosofo tedesco Marc Jongen, «l’esperimento di se stesso». Se cambia però in modo tanto radicale il nostro concetto di uomo entrano necessariamente in crisi, o comunque in grande movimento, tutti i nostri parametri educativi, dato che l’educazione è, essenzialmente, formazione dell’uomo, della persona umana, finora intesa come libera e responsabile, aperta alla realtà e capace di perseguire la verità.
          Una diagnosi sostanzialmente simile delle origini dell’emergenza educativa è stata formulata da Benedetto XVI nei discorsi e nella lettera sull’educazione rivolti alla diocesi di Roma nel 2007-2008: qui tale origine è individuata nel relativismo, o più esattamente nella 'dittatura del relativismo', che toglie ogni certezza e ogni sicuro punto di riferimento e per conseguenza impedisce di trasmettere da una generazione all’altra delle regole di vita, un significato e degli obiettivi consistenti per i quali impegnarsi, delle fondamenta solide su cui costruire la propria vita personale e sociale. Il filosofo Umberto Galimberti, in un libro che ha avuto molta fortuna, pubblicato da Feltrinelli nel 2007, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, ritiene analogamente che il nichilismo, ossia il venir meno di tutti i fondamenti, i valori e le certezze, sia la causa profonda dell’attuale disagio giovanile: tra relativismo e nichilismo esiste infatti una parentela davvero stretta.
          Diventano più chiare, e più preoccupanti, a questo punto le dimensioni dell’attuale emergenza o sfida educativa: parallelamente, appare più difficile suggerire delle strade per uscirne, o almeno per attenuarla e contrastarla. Una prima indicazione è che la terapia decisiva deve porsi al medesimo livello di profondità, cioè a livello culturale e antropologico. Sembra indispensabile, cioè, non lasciar crescere la frattura tra l’umanesimo che ha nutrito la civiltà occidentale e il nuovo mondo delle scienze e delle tecnologie. In verità questa frattura è più apparente che reale, come sanno e sostengono per primi i più acuti uomini di scienza. Essa tuttavia viene largamente propagandata sia dal versante 'umanista' che da quello 'scientista' e, data la leadership culturale di cui gode oggi il mondo delle scienze, conduce quasi fatalmente a ritenere obsoleta la sostanza stessa dell’umanesimo, ossia la convinzione che il soggetto umano deve avere, e continuare anche oggi ad avere, sempre ragione di fine, e mai di mero strumento.
          A un livello più diretto e concreto, oso proporre, telegraficamente, alcuni 'fondamentali' dell’educazione (analogamente ai 'fondamentali' degli sport). Il primo di essi è voler bene alla persona da educare e testimoniare questo bene con il nostro comportamento: solo così si possono aiutare i più giovani ad acquistare fiducia in se stessi e negli altri e ad aprirsi alla realtà, superando il narcisismo iniziale. Un secondo 'fondamentale' è non evitare le domande che gli educandi ci pongono, esplicitamente o implicitamente, anche quando queste domande non possono avere una risposta 'neutrale' e puramente informativa, ma chiamano in causa l’orientamento da dare alla propria vita e quindi le nostre scelte: si dovrà sicuramente rispondere in maniera rispettosa e non prevaricante, ma non eludere il problema posto.
          Un terzo 'fondamentale' consiste nel cercare di tenere insieme, nel processo educativo, la disciplina – senza la quale non si forma il carattere e non si viene preparati ad affrontare la realtà della vita – con la promozione della libertà e l’accettazione del rischio della libertà, che non può essere eliminato perché è il segno distintivo della nostra umanità. Infine, un 'fondamentale' di cui non si parla, che anzi si tende a bandire dall’educazione, è a mio modesto parere l’esperienza delle difficoltà e anche della sofferenza: cercando di tenere i più giovani al riparo da ogni contatto con il dolore e le avversità si rischia infatti di far crescere persone fragili, poche realiste e anche poco generose. La capacità di costruire, di amare e di spendersi corrisponde infatti alla capacità di soffrire e alla disponibilità a soffrire insieme.
          Dei 'fondamentali' di questo genere possono apparire fuori dal nostro tempo. Per me la vera sfida educativa, oggi, sta proprio nell’inserire 'fondamentali' di questo genere dentro al nostro tempo, caratterizzato dal progresso scientifico e tecnologico e dalla velocità dei cambiamenti. In caso diverso rischiamo un diffuso impoverimento e 'infragilimento' della nostra qualità umana.
card. Camillo Ruini
Versione app: 3.25.0 (f932362)