Alla fine della lezione la ragazza più tremenda, quella che ancora doveva degnarla di uno sguardo, quella che «non mi rompere, tanto io non faccio niente», che tutti danno ormai per persa, 13 anni appena, l' ha fermata sulla porta. C' era una luce strana nei suoi occhi, come se fosse lei, questa volta, ad avere paura. «Minchia professorè, ma dici vero che tu hai fiducia in una come me?». Valentina l' avrebbe abbracciata, ma non poteva, perché gli insegnanti amici fanno più danno dei genitori amici.
del 13 aprile 2007
Valentina studia sempre, anche la domenica pomeriggio. Dalle 15 a mezzanotte i suoi inconsapevoli professori si chiamano Sandro Piccinini, Ciccio Graziani, Teo Teocoli, Fulvio Collovati. Lei prende appunti, vede tutto. E la mattina dopo sciorina il suo sapere davanti alla classe finalmente attenta: «Ragazzi, Guidolin ha fatto un' altra fissaria, il 4-4-2 non funzionava proprio».
È finita che allo stadio c' è andata anche lei, magari senza scavalcare le transenne, come fanno i suoi allievi. E adesso la ragazza contesa dai professori universitari, laureata nel 1998 con una tesi subito pubblicata sui problemi della traduzione artistica dal greco al latino, soffre per gli infortuni di Amauri, come i suoi alunni. «Fa parte del lavoro. Devi sapere che mentre sei lì che spieghi Dante, il loro cuore batte per Zaccardo o per il 'traditore' Luca Toni».
Il fiammifero acceso
 
Ci sono dei giorni brutti nei quali neppure il verbo secondo Sandro Piccinini funziona, e allora Valentina si aggrappa a una frase: «Nel buio di catacomba che ci circonda, il nostro compito è quello di tenere un fiammifero acceso anche a costo di bruciarci le dita». Gesualdo Bufalino, uno dei suoi autori preferiti. Non era destino, per Valentina Chinnici. E non è vero che la vocazione uno se la porta dentro fin dalla culla. Un padre docente universitario, una madre maestra elementare e una sorella insegnante al Classico potevano essere un indizio, ma lei sognava altro. «Il 90 per cento degli iscritti a Lettere antiche non ne vuole sapere di lavorare in una scuola che non sia l' università». È sottopagato, non ti è concesso di studiare, conti meno di zero. Questo è il senso di tante discussioni sul futuro con gli amici, ed è anche una sintesi del male oscuro degli insegnanti. Le facili ricerche sul burn out, le indagini a campione che definiscono «fortemente demotivato» il 70% dei professori italiani, non aiutano a capire. Gli insegnanti vivono quotidianamente la perdita di prestigio sociale, il degrado di un ruolo che era sacro ed ora è considerato accessorio, o peggio.
 
Ogni tanto quelle parole dei suoi compagni di corso le tornano alla mente, quando la voce le si spezza, e gli occhi si fanno lucidi. «Ora questa vuole che si deve studiare, magari?». «Ma che dice questa? È antica!». «Professoressa, un sì cuosa», non ce la fai. Dopo aver cominciato a lavorare in un «esamificio», una di quelle scuole private dove basta che paghi, Valentina ha vinto il concorso ed è finita alla Gregorio Russo, una scuola media definita nelle circolari «ad utenza difficile», quartiere Borgo nuovo alla periferia di Palermo.
Uno di quei posti dove te la devi guadagnare, la lezione. L' ostacolo più alto è quello della «scolarizzazione», termine orrendo e nuovo che fondamentalmente indica come il professore deve per prima cosa insegnare come si sta in classe. «Devo rincorrerli per farli stare seduti». Valentina pensa a sua madre, che aveva classi di 50 alunni, e quando entrava l' insegnante si mettevano sull' attenti. Lei di scolari ne ha solo una quindicina, eppure ogni giorno è una fatica bestiale. «A volte ti senti disarmato, senza parole. Cosa puoi dire a un tuo allievo che con una testata ha appena spaccato il setto nasale al compagno più debole? Che non si fa? Lo sa bene, che non si fa. Lo sospendi? Così l' hai perso per sempre, e chissà dove finisce». All' inizio, tornava a casa e piangeva. «La cosa più umiliante è che loro smettono solo quando capiscono che sei sul punto di rottura. È un continuo provocare per metterti alla prova, vediamo se ti spezziamo come abbiamo fatto con gli altri. Un mio amico pedagogo dice che è il loro modo di chiedere aiuto. Io so solo che è dura, proprio dura». Nelle scuole come questa, capita spesso che si crei una comunione tra insegnanti, un legame comune per affrontare e aiutare ragazzi e famiglie che sono come mari in tempesta. «Io ho imparato tutto da Mario e Mariella, colleghi più anziani di me. Ma questo è mutuo soccorso. E il resto?».
 
Valentina Chinnici è una ragazza colta e sensibile, che parla con pudore di sé, della sua fede, delle vacanze passate al monastero di Bose dal priore Enzo Bianchi, le settimane bibliche e la lectio divina. E si capisce che quel silenzio è l' unico contraltare possibile al rumore dei suoi ragazzi difficili, a un' esperienza che prosciuga. Un anno fa, la pace e le tranquillità interiore non sono bastate, e Valentina «ha fatto il botto», come dicono a Palermo. Si è presa un periodo di sabbatico, attratta dalle sirene dell' università, un assegno di ricerca, una vita più gratificante. Il primo febbraio di quest' anno è tornata, in quello stesso Istituto per il quale provava allo stesso tempo amore e repulsione. «Io non voglio andare in una scuola-bene. Quello dove lavoro è un Istituto difficile, ed è il posto dove c' è bisogno e dove deve stare un buon insegnante, quel che io voglio diventare».
Sarà anche vero che una persona deve trovare le motivazioni dentro di sé, ma conta anche come ti guarda la gente. «L' altro giorno ho incontrato un vecchio professore universitario al quale ho raccontato della mia decisione. 'Sono molto deluso', mi ha detto guardandomi con commiserazione. E in fondo, lo capisco». Non è vero che si vive di solo pane, ci vuole anche dell' altro. Rispetto, considerazione, chiarezza. «Nelle scuole medie è stato smantellato quasi tutto. Una rivoluzione all' anno. Siamo sommersi di progetti e concorsi, cose ambiziosissime rivolte a ragazzi che non fanno attenzione neppure se a spiegare Dante c' è Naomi Campbell». Adesso per la grammatica si usa il metodo naturale, un modo per insegnare la lingua viva. Ma i libri di testo sono ancora fermi al soggetto-predicato verbale-complemento oggetto. «E io che faccio, non li insegno? E se per sbaglio uno di questi ragazzi poi va al liceo? Ho contribuito a creare un frustrato. Qualcuno mi vuole dire che devo fare? Oppure, lasci che sia io a decidere. Nella legge sulle scuole di base c' è l' articolo 6 che parla di 'autonomia di ricerca, sperimentazione, sviluppo'. Fateci provare, almeno».
 
Valentina ha fatto la sua scelta, vuole solo essere aiutata a non pentirsene, perché lei a quella frase sul fiammifero nel buio di catacomba ci crede con tutta se stessa. Pochi giorni fa, in una di quelle giornate in cui non riusciva ad accendere neppure uno sguardo, si è ricordata di Sandro Piccinini. «Lo volete capire che siamo allenatore e squadra? Io ho fiducia in voi». Alla fine della lezione la ragazza più tremenda, quella che ancora doveva degnarla di uno sguardo, quella che «non mi rompere, tanto io non faccio niente», che tutti danno ormai per persa, 13 anni appena, l' ha fermata sulla porta. C' era una luce strana nei suoi occhi, come se fosse lei, questa volta, ad avere paura. «Minchia professorè, ma dici vero che tu hai fiducia in una come me?». Valentina l' avrebbe abbracciata, ma non poteva, perché gli insegnanti amici fanno più danno dei genitori amici. «Sì, ho fiducia in te». «E quando c' è il ricevimento questa cosa a mia madre la dici?». Gliela dirà, tranquilla. Bisognava sentirla, Valentina, mentre raccontava questo episodio. La sua voce, l' espressione del suo sguardo. Ci sono dei momenti che ne vale la pena, anche a costo di scottarsi le dita.
Marco Imarisio
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