Sono un povero giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e di progredire negli studi. La Società dell'Allegria non era solo momento di svago, di serena aggregazione, ma anche luogo e momento di dibattito religioso e culturale. Era proibito ogni cosa contraria alla Legge del Signore...
del 15 gennaio 2013
Quanta fatica per poter studiare
Don Bosco nel suo racconto evidenzia quanto desiderio coltivasse per poter studiare, dopo la morte di Don Calosso. Superate alcune difficoltà familiari, Giovanni si iscrive alle scuole di Castelnuovo e si stabilisce presso un «onest’uomo di nome Roberto Giovanni» che faceva il sarto. Avendo molto tempo a disposizione si occupa anche nell’apprendere l’arte del sarto. Scrive: «In brevissimo tempo mi pareva di essere divenuto un valente capo sarto». Non tutto fu facile, comunque per Giovanni. Dovette anche affrontare le compagnie, non sempre buone e pulite. Scrive: «Volevano condurmi a giuocare in tempo di scuola… di rubare al mio padrone o a mia madre. Un compagno per animarmi a ciò diceva: “Mio caro, è tempo di svegliarti, bisogna imparare a vivere nel mondo. Chi tiene gli occhi bendati non vede e non cammina”». Giovanni non cedette e rispose con coraggio: «Chi ruba è un ladro e i ladri fanno una triste fine… Mia madre mi vuole molto bene e se dimando danaro per cose lecite me lo dà; senza permesso non ho mai fatto niente, nemmeno voglio cominciare adesso a disubbidirla. Se i miei compagni fanno questo mestiere sono perversi. Se poi lo consigliano ad altri sono scellerati». Nessuno osò più fargli certe proposte.
La scuola procedeva bene. Ma a metà anno l’improvviso trasferimento del suo ottimo professore Don Virano, nominato parroco a Mondonio, lasciò luogo a un nuovo professore che, «incapace di tenere la disciplina, mandò quasi al vento quanto nei precedenti mesi aveva imparato».
Gli anni dirompenti di Chieri
Giovanni aveva 16 anni, quando fu presa la decisione di iscriverlo alle scuole statali di Chieri, a 18 chilometri dai Becchi. Prese pensione presso la Signora Lucia Matta, vedova con un figlio. Poiché gli studi fatti fino allora erano piuttosto incerti, fu iscritto alla classe “preparatoria” al ginnasio (il ginnasio, secondo l’ordinamento scolastico di allora, quando Don Bosco scriveva le Memorie, era di 5 anni, cui seguiva il liceo di 3 anni)… Tra i suoi piccoli compagni, lui per l’età, spiccava come «un pilastro».
Intensificò il suo impegno nello studio tanto da poter passare, in breve tempo, alla II ginnasio. Si era a metà dell’anno scolastico. Scrive: «Il professore al vedersi un allievo alto e grosso, scherzando disse in piena scuola: “Costui o è una grossa talpa o che è un gran talento. Che ne dite?” “Qualche cosa di mezzo, risposi, è un povero giovane che ha buona volontà di fare il suo dovere e di progredire negli studi”. Piacquero quelle parole e con insolita affabilità soggiunse: “Se avete buona volontà, voi siete in buone mani, io non vi lascerò inoperoso. Fatevi animo e se incontrerete delle difficoltà, ditemele tosto ed io ve le appianerò”. Lo ringraziai di tutto cuore». Giovanni studiò davvero e ottenne i risultati ben meritati. «Alla fine di quell’anno scolastico (1831-32), fui con buoni voti promosso alla III ginnasiale». Tre anni in uno. Complimenti, diremmo noi oggi!
A Chieri Giovanni trascorse degli anni meravigliosi, dove la sua giovinezza poté esprimersi in tutto il suo dinamismo e in tutta la sua fantasia. Scrive: «Ma siccome in questa città io non conosceva alcuno, così io mi sono fatto una legge di familiarizzare con nissuno. Tuttavia ho dovuto lottare non poco con quelli che io per bene non conosceva. Taluni volevano guidarmi al giuoco… a rubare alla mia padrona di casa oggetti di valore… Generalmente io diceva che mia madre mi aveva affidato alla mia padrona di casa... e non voleva fare cosa alcuna senza il consenso della medesima buona Lucia». Giovanni si meritò la fiducia della sua padrona tanto che gli affidò il suo unico figlio assai vivace, «amantissimo dei trastulli, pochissimo dello studio». Scrive: «Mi occupai di lui come di un fratello; me lo resi assai docile, ubbidiente e studioso a segno, dopo sei mesi, da accontentare il suo professore». La madre ne fu così contenta che condonò a Giovanni la pensione mensile. Per il carattere fermo, l’intelligenza vivace, il gusto della amicizia attirò ben presto tanti amici, tra essi, particolarmente quelli che gli chiedevano un aiuto per gli studi. Non si tirò indietro. Scrive: «Siccome poi i compagni che volevano tirarmi ai disordini, erano i più trascurati nei doveri, essi cominciarono a fare ricorso a me perché facessi la carità scolastica prestando o dettando loro il tema di scuola. Spiacque tal cosa al professore, perché quella falsa benevolenza fomentava la loro pigrizia e ne fui severamente proibito. Allora mi appigliai a spiegare le difficoltà ed anche aiutare… Con questo mezzo mi preparava l’affezione dei compagni». Nacque così la ben nota «Società dell’Allegria». Scrive: «Cominciarono quelli a venire per ricreazione, poi per ascoltare racconti e per fare il tema scolastico e… anche senza cercarne il motivo... Quelle riunioni solevamo chiamarle Società dell’Allegria; era obbligo stretto a ciascuno di cercare quei libri, introdurre quei discorsi e giochi che avessero potuto contribuire a stare allegri; per contrario era proibita ogni cosa che cagionasse malinconia, specialmente le cose contrarie alla legge del Signore…
Di comune accordo fu posto per base:
1° Ogni membro della Società dell’Allegria deve evitare ogni discorso e azione che disdica ad un buon cristiano;
2° Esattezza nell’adempimento dei doveri scolastici e dei doveri religiosi.
Queste cose contribuirono a procacciarmi stima e io era venerato dai miei colleghi come capitano di un piccolo esercito. Da tutte parti era cercato per dare trattenimenti, assistere allievi nelle case private ed anche per fare scuola o ripetizione a domicilio».
Un modello di società allegra
Don Bosco nel riandare con le Memorie a quegli anni ricorda dei compagni «veramente esemplari». Di alcuni fa i nomi, li ringrazia per i consigli preziosi da loro ricevuti. La Società dell’Allegria non era solo momento di svago, di serena aggregazione, ma anche luogo e momento di dibattito religioso e culturale. Scrive: «Lungo la settimana ci si raccoglieva in casa di uno dei soci per parlare di religione; interveniva liberamente chi voleva… Ci intrattenevamo alquanto in amena ricreazione, in conferenze, in letture religiose, in preghiere, nel darci buoni consigli e nel notarci quei difetti personali che taluno avesse osservato... Mettevamo in pratica – senza saperlo – quel sublime avviso… di Pitagora: “Se non avete un amico che vi corregga i difetti, pagate un nemico che vi renda questo servizio”. Oltre questi amichevoli trattenimenti andavamo ad ascoltare le prediche, spesso a confessarci e a fare la santa comunione». Don Bosco a questo punto ricorda che allora, nell’ordinamento scolastico, la religione occupava parte fondamentale della educazione, tanto che se un professore, anche soltanto per scherzo, avesse pronunciato un parola scurrile o irreligiosa era immediatamente dimesso dalla carica e conclude: «Se facevasi così dei professori, immaginatevi quanta severità si usasse verso gli allievi indisciplinati o scandalosi».
Forse una severità eccessiva, ma Don Bosco dice che produceva, comunque, buoni effetti... Gli allievi erano docili e rispettosi tanto nel tempo di scuola, quanto nelle proprie famiglie. E spesso avveniva che in classi numerosissime alla fine dell’anno erano tutti promossi alla classe superiore…». Oggi ci sembra di essere lontani anni luce! Continua Don Bosco nella sua narrazione: «La più fortunata mia avventura fu la scelta di un confessore stabile nella persona del teologo Maloria, canonico della collegiata di Chieri... Mi incoraggiava a confessarmi e a comunicarmi con la maggior frequenza… Io mi credo debitore a questo mio confessore se non fui trascinato dai miei compagni a certi disordini».
Don Emilio Zeni
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