La sfida dell'educazione 3 La scuola

Il tema educazione ha innegabile rilievo sociale; ma nei discorsi pubblici deve assumere tratti “laici”; per questo motivo deve ignorare il tema della famiglia, troppo intriso di religione.

La sfida dell'educazione 3 La scuola

da Quaderni Cannibali

del 02 dicembre 2009

 

 

La sfida dell’educazione

 

3. La scuola: il “pedagogismo” e la rimozione del problema educativo

 

 

 

Nel nostro tempo la famiglia vive appartata e sola. È sola nei fatti, e anche sotto il profilo del pensiero: la “filosofia” sottesa alla vita comune ignora la famiglia. Pedagogia e scienze dell’educazione confermano la so-stanziale ignoranza del tema famiglia ad opera del sapere accademico.

 

Il tema educazione ha innegabile rilievo sociale; ma nei discorsi pubblici deve assumere tratti “laici”; per questo motivo deve ignorare il tema della famiglia, troppo intriso di religione.

 

La figura dei genitori assume una densità religiosa agli occhi dei figli; appunto tale densità è condizione della sua efficienza educativa.

 

a) La madre è un simbolo cosmico, della grazia che regna nel mondo. Kosmos significa “ordine”, e anche “ornamento” (da qui “cosmetico”). Proprio perché la terra è cosmo il bambino può avventurarsi in essa senza timore; la terra è attenta a lui; egli dovrà però corrispondere alla legge (illustrazione con l’esempio delle formule per piacere e grazie).

 

b) Il padre è per il figlio “legislatore”, interprete delle leggi che regolano il rapporto di grazia annunciato dalla madre. Nella tradizione biblica la legge è istruzione relativa al cammino della vita. Inaugurato magicamente grazie all’iniziativa gratuita e sorprendente della madre, la quale in prima battuta porta in braccio il figlio, quel cammino in un secondo momento comporta la necessità di volere, camminare con le proprie gambe.

 

Allora è urgente la legge, istruzione sulle forme del cammino che consentono di realizzare la promessa degli inizi. La sua figura di testimone della legge comporta autorità; essa si realizza in un primo momento in maniera spontanea; in un secondo tempo è indispensabile consapevolezza deliberata. Oggi essa appare molto ardua.

 

Nei discorsi pubblici sull’educazione il riferimento alle figure dei genitori è rimosso. Quando interviene, è declinato in termini solo psicologici, non etico-religiosi. Fin dai suoi inizi, la pedagogia ha assunto come re-ferente privilegiato il rapporto tra minore/precettore, e non figlio/genitori. Il primo interesse della pedagogia è la sottrazione del cittadino ai pregiudizi dell’età infantile: non è vero che dobbiamo dipendere dai padri o dai dotti, per sapere; secondo la famosa la definizione di illuminismo data da Kant:

 

L’illuminismo è dunque l’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro, Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d’intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell’Illuminismo.

 

Prima caratteristica della buona educazione è il riferimento a un sapere oggettivo, senza necessità di riferimento al soggetto, alla figura del testimone. Il genitore e in genere l’adulto appare agli occhi del bambino come testimone autorevole della legge sottesa all’alleanza sociale. La pedagogia illuminista pensa che questo modo di vedere sia infantile e debba essere superato. È vero che il modo di vedere del bambino deve essere superato; ma si annunciano i esso due verità di sempre:

 

La vita è possibile unicamente in forza di una volontà che mi precede, mi conosce, esprime nei miei confronti una promessa e insieme un’attesa. 

 

La vita è possibile soltanto grazie al rapporto con tutti gli uomini, prossimi e amici; la legge dell’alleanza con loro non può essere conosciuta che grazie alla testimonianza di quanti a quella alleanza già partecipano in maniera adulta.

 

L’esclusione pregiudiziale d’ogni attenzione alla persona dell’educatore conferisce all’educazione un tratto “puerocentrico” decisamente sospetto (vedi immagine della maieutica:

 

Questo io ho in comune con le levatrici, che anch’io sono sterile…di sapienza. E il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso il mio pensiero su nessuna questione, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano del tutto ignoranti, poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano straordinario profitto, purché il dio glielo permetta. (Teeto 150 c-d)

 

Gli adulti oggi disertano, come Socrate, il compito di rendere ragione del mondo che consegnano alle nuove generazioni, e pi√π radicalmente della speranza che ha autorizzato la loro scelta di generare.

 

Fino a che il costume teneva, il compito dei genitori era realizzato pur senza attenzione riflessa; ora che si sfilaccia, il difetto di un’immagine intellettualistica dell’educazione diventa manifesto.

 

Il pedagogismo: il caso francese

 

Le riforme Berlinguere e Moratti sono state precedute da quella francese degli anni 1988-1992 (Allègre); la critica di quella riforma inventò la categoria di pedagogismo. Essa esprime la denuncia dei rappresentanti della cultura alta contro la concezione “democratica” della scuola: la scuola rinuncia a trasmettere ai minori «un mondo, il nostro (della generazione adulta, n.d.r.), che possa essere ugualmente in certa misura il loro»; rinuncia a trasmettere «saperi e opere»; l’ipotesi sottesa è che il mondo dei padri trovi espressione nei “classici”. La massima di quella scuola è che il minore costruisce da sé il suo sapere; nella scuola dovrebbe prodursi una rinnovata invenzione del sapere e del rapporto sociale; non l’iniziazione alla alleanza di fatto rea-lizzata dalla società adulta.

 

Il pedagogismo tratta la tradizione come semplice repertorio di materiali al quale attingere. La scuola dovrebbe promuovere competenze, prima e più che saperi; e la competenza consiste nella capacità di servirsi dei saperi costituiti. Esorbita dai compiti della scuola l’obiettivo di proporre una sapienza, un sapere del senso della vita.

 

L’alleanza tra pedagogisti e politici definisce la direzione di fondo delle riforme scolastiche degli ultimi tre decenni. Esse hanno creato una crescente distanza tra scuola e cultura degli intellettuali.

 

La denuncia in Italia

 

Anche in Italia è successo qualche cosa di simile (riforme Berlinguere 1997 e Moratti 2003). La reazione degli intellettuali è stata meno vivace che in Francia. Le voci della cultura alta italiana sono rimaste abbastanza marginali; non hanno raggiunto l’opinione pubblica. Accomuna i critici della riforma la denuncia dell’inconsistenza del pensiero sotteso, futile e risibile. La riforma è interpretata come accondiscendenza ai luoghi comuni.

 

La riforma da essere compresa entro la cornice di una dinamica complessiva della vita politica e culturale re-cente, una dinamica omologante che opera nel senso di ridurre, anche per riferimento alla scuola, la singolarità del caso italiano (buon livello della tradizione universitaria, preparazione proporzionalmente alta degli insegnanti; presenza cattolica consistente; attenzione alla scuola e ai temi della formazione del PCI, con le molte istituzioni culturali ad esso afferenti).

 

Si afferma la vague postmoderna. Imperativo categorico, assai più che formare un uomo libero, è produrre un cittadino versatile, capace di rivestire i sempre nuovi ruoli, che il mercato assegna.

 

4. Lo sfondo: la cultura ‘Onu’

 

Il pedagogismo trova alimento e sanzione nei luoghi comuni sottesi al dibattito civile quotidiano. Esso non può evitare di parlare di educazione; lo fa adottando un modello soltanto retorico.

 

L’educazione consisterebbe nello sviluppo dell’Io del minore. Magari si parla della persona, in omaggio alla cultura cattolica; ma si tratta solo di parola; l’idea rimane quella dell’Io autonomo. Il compito di educare non comporta la proposta di un modello di vita buona, ma soltanto che si propizi l’espressione dell’identità del minore. Il profilo dell’educatore è assai meno ambizioso di quello dalla vecchia figura del maestro; è quello di un semplice animatore. All’educatore non è chiesto di esercitare l’autorità, né di insegnare la verità.

 

L’educazione non può cercare criteri di valore riferendosi alle forme effettive della vita comune; il minore dovrà certo apprendere tali forme, ma per servirsene, non cercando in esse la via di accesso alla figura della vita buona.

 

L’immagine di educazione a cui si perviene appare futile. Il suo successo non dipende dal suo merito, ma dalla trasformazione complessiva dei rapporti sociali e del costume. In particolare dipende dalla vague di pensiero del ’68, con il suo rifiuto dell’idea di autorità. Esso interpretava, con strumenti teorici rozzi, il disagio del soggetto nella società di massa. La ricerca psicologica e sociologica e la filosofia postmoderna de-nunciano la crisi endemica di quel soggetto.

 

La precarietà del soggetto è un dato di fatto indubitabile. Dubbio è però che essa abbia alla sua radice abusi di autorità. La protesta antiautoritaria rimuove il compito di intendere le radici della precarietà della coscienza individuale nelle società complesse. Sullo sfondo sta una rimozione più generale, che colpisce in genere ogni tema morale nella cultura pubblica del nostro tempo. Le uniche questioni che contano, le sole che possano essere discusse, sono quelle tecniche e quelle relative alla salute.

 

La rimozione della questione morale ad opera della cultura laica mostra il suo prezzo a margine della questione educativa. Il senso della relazione educativa non può essere inteso che a procedere dalla realizzazione originaria e privilegiata, che si produce nel rapporto tra genitori e figli; di esso appare innegabile la connotazione morale, come pure l’intervento del fattore autorità.

 

Esso rende possibile la prima identificazione del bambino, che ha poi bisogno di articolazione culturale, per consentire al minore di mettere a frutto l’originaria autorizzazione della propria vita nel quadro delle relazioni secondarie. La relazione educativa, iniziata in famiglia, postula una ripresa a livello sociale. Rende ardua tale ripresa la distanza che separa sfera della famiglia e sfera pubblica delle relazioni secondarie.

 

 

La Sfida dell’educazione:

 

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don Giuseppe Angelini

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