La sfida dell'educazione 5 L'educazione quale compito religioso

All'origine dello stupore delle folle di fronte a Gesù sta un'esperienza simile a quella che fa ogni figlio, sorpreso dell'autorità dispiegata ai suoi occhi da gesti e parole del genitore.

La sfida dell'educazione 5 L'educazione quale compito religioso

da Quaderni Cannibali

del 02 dicembre 2009

 

 

La sfida dell’educazione

 

5. L’educazione quale compito religioso: competenza umana e fede

 

 

 

 

Momento psicologico, culturale e religioso della educazione non possono essere giustapposti; di fatto proprio que-sto oggi accade. Nel perseguimento deliberato dell’educazione affetti, cultura e religione sono separati. Abbiamo visto come non debbano essere separati i primi due momenti degli affetti e della cultura: la cultura dà parola agli affetti e così li porta a coscienza. Grazie a questo passaggio è possibile che gli affetti plasmino modi di vedere e di volere. La cultura pubblica di oggi, tutta centrata sugli aspetti della vita pubblica e ignara degli aspetti più antichi e radicali dell’esperienza, con difficoltà propizia il passaggio dal momento emotivo a quello culturale.

 

Recuperare l’unità tra affetti e cultura è indispensabile per intendere la forma religiosa che di necessita assume l’educazione. Consistenza religiosa assume l’esperienza della generazione, il rapporto primario tra figli e genitori; consistenza religiosa deve assumere l’educazione, perché possa riprendere il messaggio elementare della generazione. L’educazione religiosa non si aggiunge ad altri contenuti della educazione; riprende i significati iscritti in quell’esperienza elementare. In tal senso suppone una competenza a proposito del significato religioso dell’esperienza della generazione.

 

1. La verità religiosa della cultura

 

1.1. La cultura censura l’anima

 

La coscienza del singolo sembra oggi condannata a rimanere solitaria; specie nei suoi aspetti più profondi essa è estranea alle forme del confronto pubblico. Per questo motivo gli aspetti più profondi della vita umana minacciano d’essere anche i più confusi; di diventare profondi nel senso psicanalitico, inconsapevoli.

 

1.2. L’anima accede alla censura

 

In realtà la coscienza ha essenziale bisogno di lingua, costume e appartenenza sociale, per prendere forma. Questa necessità comporta certo dei rischi. Lingua e cultura costituiscono soltanto una mediazione del rapporto tra la co-scienza e la verità; rimandano dunque a una verità in nessun modo “definita” dal codice. La ricerca di tale verità esige l’iniziativa libera del singolo; solo attraverso tale iniziativa prende forma il soggetto. Il rischio è che il codice offra invece al singolo il pretesto per abdicare al compito. La verità ardua e trascendente è sostituita allora dalla complicità ammiccante; prende così forma l’uomo “volgare”:

 

Ecco! Io vi mostro l’ultimo uomo.

 

«Che cos’è amore? è creazione? è anelito? è stella?» – così domanda l’ultimo uomo, e strizza l’occhio. La terra allora sarà diventata piccola e su di essa saltellerà l’ultimo uomo, quello che tutto rimpicciolisce. La sua genia è indistruttibile, come la pulce sulla terra; l’ultimo uomo campa più a lungo di tutti.

 

«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini, e strizzano l’occhio [...]

Nessun pastore e un solo gregge! Tutti vogliono le stesse cose, tutti sono eguali: chi si sente diverso, va da sé al manicomio.

 

«Una volta erano tutti matti» – dicono i più raffinati, e strizzano l’occhio.

Oggi si è intelligenti e se si sa per filo e per segno come sono andate le cose: così la materia di scherno è senza fine. Sì, ci si bisticcia ancora, ma si fa pace presto – per non guastarsi lo stomaco. Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte, salva restando la salute.

 

«Noi abbiamo inventato la felicità» – dicono gli ultimi uomini, e strizzano l’occhio.

 

1.3. Il rapporto circolare tra anima e cultura

 

La cultura animi non può prescindere dal riferimento alle forme della cultura comune; questa però non è quella del-la comunicazione pubblica. La ripresa che la coscienza del singolo realizza delle forme simboliche sottese alla vita comune poi non è tautologica; al contrario, soltanto attraverso di essa quelle forme ritrovano la loro verità. Il rap-porto circolare, che intercorre tra coscienza del singolo e forme della cultura, può essere illustrato a procedere dal modello offerto dal rapporto tra la parola e la lingua.

 

La considerazione illumina le forme nelle quali si esprime il disagio giovanile; esse sono spesso grossolane e arro-ganti, dissimulano piuttosto che dire. Il vissuto di sofferenza non ha lingua per essere detto; la sofferenza è quella della vita in cerca di autore, e addirittura autorità; la ricerca dell’autorità è condannata come cosa infantile dalla lingua comune. La lingua per vivere ha bisogno di parole vere. A meno di trovarle, vede consunta la sua attitudine a significare.

 

1.4. Illustrazione evangelica

 

Le folle restarono stupite del suo insegnamento: egli infatti insegnava loro come uno che ha autorità e non come i loro scribi (Mt 7,28s). La legge, della quale Gesù dice sul monte, è nota da sempre; le forme in cui era proposta da-gli scribi, tuttavia, la facevano apparire noiosa, non edificante, né educante. Gesù con il suo insegnamento, sostenu-to da evidente autorità, rinnova lo stupore, e con esso la docilità degli uditori. Le folle apprendono perché si stupi-scono. Non deve sembrare eccessivo l’accostamento: ogni educatore, e anzi tutto ogni genitore, per edificare, deve rinnovare il miracolo dell’autorità e dello stupore.

 

1.5. Lo stupore della folla e quello del bambino

 

All’origine dello stupore delle folle di fronte a Gesù sta un’esperienza simile a quella che fa ogni figlio, sorpreso dell’autorità dispiegata ai suoi occhi da gesti e parole del genitore. Anche in tal caso, l’autorità rimanda al di là del genitore, fino all’autore della propria vita, ancora sconosciuto. La prima nascita, dalla carne e dal sangue, postula la successiva, dallo spirito e a prezzo di libertà. Essa esige di dare parola alla meraviglia iniziale, al senso o alla speranza della vita da essa annunciata. L’oggettivazione del senso nelle forme della cultura esige tuttavia la sempre rinnovata ripresa ad opera del singolo per rimanere parlante. Il tema del peccato universale (un popolo dalle labbra impure, Is 6,5) in questa luce.

 

All’origine di tutti i significati articolati dalla cultura è l’evento originario e sorprendente della prossimità umana. La verità di tale evento non può essere detta altro che a un patto, pronunciare il nome di Dio. Le origini della cultura e della lingua sono legate alla religione. La moderna cultura secolare rimuove tali origini; consuma in tal modo una tradizione di significati che essa che non sa in alcun modo rigenerare.

 

2. Generazione ed educazione: psicologia, cultura e religione

 

Al numero delle esperienze originarie di prossimità appartiene certo anche la generazione; essa concorre al primo dispiegamento di tutti i significati del vivere. Non sorprende che a margine di tale evento sia pronunciato il nome di Dio (vedi alta richiesta dei battesimi anche in una società secolare).

 

2.1. Densità religiosa della generazione

 

A sostanziare il tratto religioso dell’esperienza di generazione concorre il rilievo educativo del rapporto tra genitori e figli, reale molto prima e molto più di quanto i genitori sappiano. Lo svolgersi effettivo del rapporto, le domande dei figli, prima ancora le loro attese inespresse e tuttavia chiare, configurano il senso di ciò che i genitori fanno, e rispettivamente debbono fare. Anche nel loro caso vale il principio generale: ciò che la cultura definisce deriva la sua attitudine a significare dalle realizzazioni concrete. Quando si ignori questo debito delle verità generali nei con-fronti dell’esperienza concreta, quelle verità assumono consistenza di certezze “ideologiche”, che di fatto rimuovo-no i compiti reali.

 

La distanza tra retorica corrente e consistenza obiettiva del rapporto tra genitori e figli appare evidente nel caso dell’educazione morale e religiosa. È diventato un luogo comune esprimersi così: “voglio dare ai miei figli l’opportunità di conoscere anche la religione; poi sceglierà egli stesso”. In realtà, per scegliere da se stesso, egli ha bisogno che altri scelga prima di lui e per lui. La cultura pubblica oggi non offre ai genitori risorse per articolare questo aspetto fondamentale della loro relazione con i figli: essi sono testimoni della legge.

 

2.2. La rigenerazione dei significati elementari

 

La comprensione che il figlio mostra di avere di ciò che i genitori fanno per lui, e di ciò che fanno in generale, por-ta alla luce aspetti innegabili della verità, che tuttavia i genitori non avrebbero saputo riconoscere se non sollecitati da lui. Le sue attese, le sue pretese, le cure delle quali ha ovvio bisogno, costringono il genitore a guardare al mon-do intero con occhi nuovi. Le stesse verità che il genitore supponeva come a lui già note da sempre appaiono ora in realtà non così note come egli credeva. Appunto attraverso le evidenze dischiuse dalla sua concreta esperienza il genitore trova le risorse per comprendere quello che sa sempre conosceva per sentito dire.

 

La legge trova illustrazione più efficace, quando sia considerata nell’ottica del figlio: egli non procede dal già noto alla rinnovata comprensione, ma dal grido alla parola, dalla pretesa prepotente all’invocazione che riconosce la legge. Il passaggio dalla fiducia primaria, ancora soltanto un modo di sentire, alla corrispondente visione del mon-do si produce in maniera progressiva; non può essere inteso come un apprendimento nozionale; ha invece la forma della progressiva realizzazione di un rapporto di reciprocità personale e pratica nei confronti di molti. Soltanto sullo sfondo di tali forme di reciprocità il bambino può appropriarsi della verità dei simboli della cultura, che dal punto di vista nozionale conosce assai presto. Per riferimento a tale necessità del momento pratico si capisce come l’appropriazione della legge possa essere impedita, o proporzionalmente compromessa, dalla qualità dei comporta-menti di coloro che stanno intorno al minore.

 

2.3. Il rischio: il dispotismo della “legge”

 

Nell’esperienza odierna, l’eventualità che la legge appaia agli occhi del figlio come “dispotica” è facile. La legge alla fine si impone comunque, in forza delle necessità della vita sociale. Ma se non appare raccordata al regime dei rapporti della prima esperienza del figlio, pare dispotica. Un tale inconveniente, facilitato dalle forme effettive della vita, minaccia d’essere sanzionato dalle forme della cultura. Mi riferisco in particolare all’interpretazione che Freud propone della legge quale figura correlativa al Super-io.

 

Le distorsioni del rapporto educativo crescono a misura che la cultura pubblica diventa reticente, o censoria, per ciò che si riferisce a quelle esperienze radicali che presiedono alla nascita della coscienza. La presenza esplicita di una referenza religiosa ha di che rimediare alla censura dei significati profondi. Ma perché questo apporto della religione alla educazione si realizzi occorre che l’attenzione religiosa si unisca alla competenza umana, psicologica e culturale dei genitori. Grande è a tale riguardo la responsabilità del ministero pastorale della Chiesa.

 

 

La Sfida dell’educazione:

 

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don Giuseppe Angelini

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