Il cardinale Grocholewsky: amore, amicizia, costumi e tradizioni non si imparano a scuola, ma in famiglia Il presidente della Conferenza dell'Unesco, Jafaar Bin Hassan: il cuore delle madri è il primo libro dei figli. Il cardinale Egan (New York): solo per i cattolici, da duemila anni, educare significa sviluppare la totalità dell'uomo, in ogni sfaccettatura del suo essere totalità di Dio. E c'è un elemento oggi trascurato, l'anima, il fattore spirituale
del 11 novembre 2006
Nelle sale di cemento e di vetro dell’Unesco si discute di educazione. Parola oggi usata soprattutto nel senso di istruzione, e, in una ulteriore riduzione, quasi come pura trasmissione di nozioni, il più possibile corrispondenti alle richieste del mercato. Il titolo del convegno scelto dalla delegazione della Santa Sede presso l’Unesco - che ha organizzato l’incontro con l’Università Fordham di New York - pare già una contestazione a questa tendenza: “Educare, un cammino all’amore”, una riflessione sulla linea della Deus caritas est. È il cardinale Zenon Grocholewsky, prefetto della Congregazione per l’Educazione cattolica, a aprire il suo intervento citando Maritain, quasi a ricentrare l’oggetto di cui discute: «Ciò che è paradossale è che la sfera extra educazionale - tutto il campo dell’attività umana, il lavoro quotidiano, le dure esperienze dell’amicizia e dell’amore, i costumi, la legge, le tradizioni, le feste religiose e la liturgia - esercita sull’uomo un’influenza più importante per la sua educazione, che l’educazione stessa». Qualcosa di molto più grande, e che comincia molto prima della scuola. In famiglia, prima di tutto (e farà eco al cardinale il presidente della Conferenza dell’Unesco, Jafaar Bin Hassan, con una bella espressione: “Il cuore delle madri è il primo libro dei figli”). Ma, prosegue Grocholewsky, «occorre superare l’equivoco che la scuola sia solo istruzione. Non è semplicemente questione di dotare i ragazzi di competenze, ma di farne degli uomini. Occorre ritrovare nel percorso educativo il senso totale dell’uomo. Benedetto XVI ha detto recentemente in Germania: “Se ci si limita a diffondere soltanto il know-how, se si insegna solo il modo di usare le macchine e i mezzi di contraccezione, allora non stupiamoci se ci ritroviamo con delle guerre e delle epidemie di Aids. Occorre invece formare i cuori”.
Qualcosa deve cambiare nell’educare le nuove generazioni, dicono all’Unesco a Parigi, anche perché il mondo non va avanti come è sempre andato, ma da alcuni anni ha preso come un’accelerazione diversa, nuova, che avvicina alcune distanze, e ne approfondisce altre. Boutros Ghali, ex segretario generale dell’Onu, descrive le minacce della globalizzazione. Disegna uno scenario in cui la scuola secondaria pubblica potrebbe essere sostituita da una scuola privata mirata sul mercato del lavoro e fortemente competitiva, accessibile solo ai benestanti. Al rischio della chiusura su se stesse delle comunità di immigrati. Cita un numero: il Terzo Mondo possiede solo il 5 % dei computer del mondo. E forse, interviene il professor James Conroy dell’Università di Glasgow, «è più facile educare all’amore in un Paese povero o in guerra che in Occidente, dove il modello è la competizione», e l’emarginazione lo spettro. Dove ai bambini delle elementari si fanno fare corsi di lingue e di informatica, già proiettati verso la carriera. E il resto? Il cardinale Edward Egan, arcivescovo di New York, si chiede di cosa si debba occupare l’educazione: «Per i Greci doveva formare soldati, per i Romani oratori, per i nazisti i promotori della razza, per i comunisti dei docili membri del partito. Solo per i cattolici, da duemila anni, educare significa sviluppare la totalità dell’uomo, in ogni sfaccettatura del suo essere immagine di Dio». Ma, aggiunge Egan, c’è un elemento oggi trascurato in quasi ogni forma di educazione. È il fattore anima. «Il mondo è pieno di educatori che ammettono la necessità di preparazione intellettuale, etica, emozionale, ma non vogliono sentir parlare di preparazione spirituale», osserva l’arcivescovo di New York. Il trascendente non è oggetto di opera educativa. È, normalmente, un tabù. Il tabù del laicismo. Da americano pragmatico, tuttavia, il cardinale non si perde in lamenti. Chi ha detto che una scuola che si prenda cura della totalità della persona debba essere meno efficiente? To improve, to improve («Migliorare, migliorare sempre» è la ricetta di Egan, «così che i genitori debbano pregarci di prenderci cura dei loro figli»).
Ma, e l’educatore chi è? Chi davvero è in grado di educare? Dal Libano martoriato è arrivato a Parigi un giovane sacerdote, padre Marwan Tabet, segretario della Scuole cattolica nel Paese. È venuto a ricordare un passo della Deus caritas est sulla carità: «La competenza professionale è una delle prime necessità fondamentali, ma da sola non può bastare. Si tratta, infatti, di esseri umani, e gli esseri umani necessitano sempre di qualcosa in più di una cura solo tecnicamente corretta. Hanno bisogno di umanità. Hanno bisogno della attenzione del cuore». Perché come dice il rappresentante della Santa Sede all’Unesco monsignor Francesco Follo, l’autentica educazione non è tesa a fare assimilare qualcosa, ma a incontrare Qualcuno. E se per impartire nozioni può bastare un rapporto asettico, per suscitare la curiosità e il desiderio di questo incontro occorre passione per il destino dell’altro. Ancora Follo cita il discorso del Papa al convegno ecclesiale di Verona: «Occorre preoccuparsi della formazione della intelligenza della persona, senza trascurare quella della sua libertà e capacità di amare. Solo così si potrà scongiurare quel rischio per le sorti della famiglia umana costituito dallo squilibrio tra la crescita tanto rapida del nostro potere tecnico e quella ben più faticosa delle nostre risorse morali». Contro una cultura che crede di poter continuare solo riproducendo know- how e competenze, la sfida cristiana che educa l’uomo, quello intero.
Marina Corradi
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