Tra le emergenze si può dunque inserire senza dubbio anche quella che potrebbe essere definita l'emergenza pluralismo, questo sia in termini di principio, sia in termini economici...
del 03 novembre 2009
Comunità cristiana e responsabilità educativa
 
Una particolare responsabilità educativa nella società italiana spetta anche al laicato cattolico, una responsabilità che si esercita principalmente attraverso la famiglia, le parrocchie, le associazioni e i movimenti, la scuola cattolica, la presenza di insegnanti, tra cui un ruolo particolare spetta gli insegnanti di religione (che ormai, come emerge dall’Annuario 2008 sull’insegnamento della religione cattolica in Italia, nell’85,9% è costituito da laici).
 
 
 
Da una indagine realizzata dall’Uffio della Cei per la pastorale della famiglia (2003) che ha coinvolto tutte le diocesi italiane (hanno rispoto in 171 su 225) emerge che nel 70% delle diocesi sono presenti iniziative di vario genere per la formazione permanente degli sposi e dei genitori (le «scuole per genitori» sono presenti nel 60% delle diocesi). In circa il 40% delle diocesi più della metà dei gruppi familiari ha origine da esperienze in ambiti associativi e/o legati ai movimenti. L’80% delle diocesi svolge attività formative per i propri operatori, il 60% delle diocesi ha beneficiato di inizative formative a livello regionale con partecipazione più selezionata, il 20% delle diocesi ha inviato persone a frequentare un Master in scienze del matrimonio e della famiglia. Oltre l’80% delle diocesi dispone di un consultorio familiare di ispirazione cristiana.
 
Negli ultimi anni, anche sulla scorta del Magistero di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI e dell’ azione della Cei, sembra essere cresciuta la consapevolezza che la famiglia è il più importante luogo di socializzazione e il primo ambito di testimonianza: si segnalano a questo proposito due ambiti associativi paradigmatici come il Forum delle associazioni familiari (Donati, Prandini 2003) l’ Age e l’Agesc (Associazione Genitori Scuole Cattoliche) da sempre attive nel ricordare la fondamentale importanza della educazione per il bene della persona e della società.
 
Nel complesso, la situazione della scuola cattolica italiana nell’anno scolastico 2006-07 presenta sul piano quantitativo una serie di indici importanti in crescita rispetto al 1997-1998, come l’aumento degli alunni nelle scuole dell’infanzia, nelle primarie, nelle secondarie di 1° grado, nella Formazione Professionale, nel Nord e tra i maschi. Va rilevato che generalmente la crescita si registra in tutti i livelli in cui è presente una qualche sovvenzione pubblica o che sono immediatamente a ridosso di quelli. I punti di maggiore criticità vanno identificati nelle scuole secondarie di 2° grado, nel Meridione (Fidae e Confap), nell’Italia Centrale (Fidae) e tra le studentesse della Fidae.
 
Dal 1996/97 al 2006/07 gli Istituti della Fidae sono diminuiti di 190 unità passando da 1498 a 1308 (calo del 12,7%). Il totale delle scuole è diminuito in un numero ancora più consistente passando da 2667 a 2301, con un calo percentuale del 13,7%. La riduzione riguarda, in particolare, le secondarie di 2° grado passate da 893 a 648 (-27,4%) e quelle di 1° grado (-15,4%). Tra il 1997-98 e il 2006-07 il totale degli iscritti alle scuole della Fidae è diminuito di 15.433 alunni (-5,5%), passando da 282.082 a 266.649 (il calo più vistoso è ancora una volta quello degli studenti delle secondarie di 2° passati da 81.163 a 63.993 con un calo di 17.620 unità pari al -21,6%).
 
Tra le emergenze si può dunque inserire senza dubbio anche quella che potrebbe essere definita l’emergenza pluralismo, questo sia in termini di principio, sia in termini economici: per ogni studente iscritto in una scuola paritaria lo stato risparmia 5.532 euro (scuola dell’infanzia), 6.500 euro (scuola primaria), 7.582 euro (secondaria di primo grado), 8.057 euro (secondaria di secondo grado). Se chiudessero tutte le scuole paritarie, lo stato vedrebbe aumentare ogni anno la spesa per l’istruzione di 6 miliardi e 245 milioni di euro.
 
Associazioni e movimenti sono ispiratori e promotori non solo di scuole cattoliche, ma anche di centri culturali che con la loro presenza capillare sul territorio (il 4 novembre 2008 ne erano stati censiti 434 in tutta Italia, 288 nel Nord, 74 nel Centro, 72 nel Sud) costituiscono punti di elaborazione critica e di dialogo con i principali attori istituzionale e della società civile. Particolarmente significativa anche la responsabilità educativa di associazioni, movimenti e gruppi nei confronti dei giovani se si tiene conto del fatto che si può stimare (Censis 2002) che circa 1/3 di coloro che hanno tra i 18 e i 30 anni partecipa a una di questa forme associative (Azione Cattolica 15,3%, gruppi parrocchiali senza etichette 11,7%, Rinnovamento nello Spirito 2,3%, Neocatecumenali 2%, Comunione e Liberazione 2%, Terzi ordini 1%, Focolarini 0,7%).
 
I ruoli familiari e il lavoro
 
È ancora presente in Italia il problema della conciliazione tra ruoli familiari (in particolare la maternità) e il lavoro: con la nascita dei figli il 6% delle donne perde il lavoro e il 14% decide di lasciare per dedicarsi maggiormente alla cura dei figli. Il nesso tra sistemi formativi e lavoro presenta punti assai critici. Rispetto alla media degli altri paesi d’Europa, l’Italia è il paese dove la popolazione dei giovani che trovano impiego immediatamente dopo la formazione è più ridotta e dove la popolazione dei giovani che impiegano oltre due anni a trovare un lavoro dopo gli studi è più elevata; a questo si aggiunge che circa il 43% di chi ha un’età compresa tra i 15 e i 35enni svolge un lavoro che non ha attinenza con la formazione ricevuta. Se guardiamo all’importanza che i giovani attribuiscono ai diversi aspetti del lavoro (Zurla 2007), vediamo che prevale la dimensione soggettiva-espressiva («interesse per quello che si fa», «possibilità di esprimere la propria creatività», «opportunità di utilizzare la propria creatività») su che quella oggettiva e strumentale («stabilità del posto di lavoro», «retribuzione»).
 
Il lavoro quindi per i giovani non dovrebbe avere solo, o prima di tutto, una valenza utilitaristica ma anche una valenza umanizzante e formativa. La richiesta di personale con elevato livello di titolo di studio da parte delle imprese ha mostrato negli ultimi cinque anni una continua tendenza alla crescita (come ha mostrato la ricerca L’istruzione tecnica. Un’opportunità per i giovani, una necessità per paese promossa dall’Associazione Treellle nel 2008), che si è accentuata nell’ultimo anno, nel quale per la prima volta la domanda di laureati e diplomati ha superato il 51% delle previsioni complessive di assunzione, mentre rappresentava solo il 37,9% appena quattro anni fa. In particolare, la richiesta di diplomati è passata dal 29,5% del 2004 al 40,6% del 2008.
 
Paradossalmente, la popolazione dei giovani iscritti agli istituti tecnici sul totale degli iscritti alla scuola secondaria superiore è passata dal 45% del 1990 al 35% del 2007 (la percentuale degli iscritti ai licei è passata nello stesso periodo dal 32% al 42%). La domanda di persone in possesso del diploma secondario è spesso subordinata al possesso di due requisiti: un’esperienza di lavoro più o meno specifica rispetto all’attività di lavoro che si andrà a svolgere e una determinata età. In particolare, quando si prevede di assumere un diplomato non ci si accontenta solo del possesso del titolo di studio, ma nel 56,4% dei casi si cerca qualcuno che abbia già maturato un’esperienza nel settore o nella professione. Solo per poco più di 4 diplomati su 10 non è richiesta esperienza oppure è richiesta una esperienza di lavoro generica.
 
Circa ¼ delle imprese richiede che il diplomato abbia maturato almeno 3 anni di esperienza sul lavoro, circa la metà delle imprese richiede almeno 1 o 2 anni di esperienza, solo ¼ delle imprese non richiede nessun tipo di esperienza. A fronte di queste domande ben precise, si può osservare che ben i 2/3 degli studenti secondari non ha mai partecipato a iniziative di stage e/o tirocinio in impresa e che il 68% non ha mai avuto modo di entrare in contatto col mondo del lavoro (cfr. Associazione Treellle 2008). Analizzando l’età richiesta, emerge che nel 62,9% dei casi le imprese richiedono personale che abbia almeno 25 anni di età.
 
 
AA.VV.
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