È la stagione dei fiori. La loro bellezza sta nello sbocciare, verbo divenuto così pregnante da indicare il dischiudersi stesso di ogni vita. Per quanto si sappia che i petali si allargheranno, risplenderanno, si aggrinziranno fino al loro inesorabile appassire, a primavera il boccio che occhieggia è colto dallo sguardo come un tutto, come un segno di speranza posto sotto l'ala della gratuità.
del 17 aprile 2009
È la stagione dei fiori. La loro bellezza sta nello sbocciare, verbo divenuto così pregnante da indicare il dischiudersi stesso di ogni vita. Per quanto si sappia che i petali si allargheranno, risplenderanno, si aggrinziranno fino al loro inesorabile appassire, a primavera il boccio che occhieggia è colto dallo sguardo come un tutto, come un segno di speranza posto sotto l’ala della gratuità.
Parole evangeliche ci dicono di osservare i gigli del campo che non tessono e non filano. Al loro confronto persino lo splendore di Salomone è poca cosa. Eppure si sa che è bellezza breve che oggi si schiude e domani è gettata nel forno (cf. Mt 6,28-30). Gesù nel suo paragone esorta a guardare l’erba del campo, non un fiore di albero da frutto.
L’interezza dello sbocciare è racchiusa in un frammento che esprime un tutto pur non essendo un assoluto. Per cogliere la bellezza dell’effimero splendore primaverile non bisogna porre mente (come vorrebbe Hegel) al fatto che il frutto subentri al fiore come sua verità dichiarando falsa la precedente forma assunta dalla pianta. Occorre piuttosto rendere lucida e gratuita la nostra pupilla e cogliere il pegno di felicità racchiuso nella rosa che è senza perché, che fiorisce perché fiorisce (Angelo Silesio). Si è chiamati per un istante a liberarsi dall’egemonia dell’utile, dall’incalzante pressione dello sviluppo, per fissarsi in quanto ora sta schiudendosi e che presto declinerà senza lasciare dopo di sé una realtà più vera. Il fiore è natura. In questa veste è classificabile come ogni altra realtà. Scrutato con queste lenti è leggibile anche in modo evolutivo.
Lunghe furono le dispute attorno alle orchidee; o, con più rigore scientifico, molto si discusse della ophrys apifera, il fiore «ingannatore» che «imita» la forma dell’ape. Per interpretarlo alcuni si sentivano obbligati a ricorrere a una teleologia vitalistica finalizzata all’impollinazione; altri, di contro, tenevano salda la convinzione stando alla quale, per spiegare la maschera da insetto indossata dal fiore, non fosse necessario introdurre nel meccanismo evolutivo alcuna variante finalistica. Per entrambi gli schieramenti restava egemone l’impulso a riprodursi. Osservati con lo sguardo rivolto al Creatore, utilità, caso e necessità possono, invece, essere racchiusi in una momentanea parentesi.
 
 
La gratuità come puro esserci
 
 Quando lo sguardo accarezza un fiore, il pensiero può spingersi lontano verso le innumerabili, colorite distese che nessun occhio umano, neppure in questo mondo fattosi sempre più densamente popolato, coglie. Là, quando nessuno osserva, il senso della gratuità diviene ancora più elevato. Lo è a causa del suo puro esserci, a cui si accompagna il bisogno del credente di riferirlo allo sguardo di Dio.
 
A Quello domanda, o sdegnoso,
perché sull’inospite piagge;
all’alito d’aure selvagge,
fa sorgere il tremulo fior,
che spiega dinanzi a Lui solo
la pompa del candido velo,
che spande ai deserti del cielo
gli olezzi del calice, e muor.
(A. MANZONI, Ognissanti. Frammenti).
 
I gigli del campo del Vangelo non sono simboli, in quanto la loro forma o il loro splendore alludano ad altro. Essi rappresentano invece il segno di una cura divina che, per quanto nulla sottragga alla fragilità, si presenta ugualmente più radicale di ogni bellezza costruita dall’operatività umana.
Sono molte le culture nelle quali il calice del fiore, nel suo essere concavo e ricettore, si presenta come segno di mite accoglienza, di passività che attende l’azione che scende dall’alto attraverso la pioggia, la rugiada, il polline. Accanto alla gratuità appare perciò traccia della mitezza.
 
 
La simbologia orientale
 
In nessun’altra cultura la simbologia dei fiori ha probabilmente raggiunto l’ampiezza di orizzonte propria dell’Oriente. Ciò ha luogo in modo particolarmente articolato quando interviene l’azione umana che collega il fiore a un contesto di la stagione dei fiori. La loro bellezza sta nello sbocciare, verbo divenuto così pregnante da indicare il dischiudersi stesso di ogni vita. Per quanto si sappia che i petali si allargheranno, risplenderanno, si aggrinziranno fino al loro inesorabile appassire, a primavera il boccio che occhieggia è colto dallo sguardo come un tutto, come un segno di speranza posto sotto l’ala della gratuità. Parole evangeliche ci dicono di osservare i gigli del campo che non tessono e non filano. Al loro confronto persino lo splendore di Salomone è poca cosa. Eppure si sa che è bellezza breve che oggi si schiude e domani è gettata nel forno (cf. Mt 6,28-30). Gesù nel suo paragone esorta a guardare l’erba del campo, non un fiore di albero da frutto. L’interezza dello sbocciare è racchiusa in un frammento che esprime un tutto pur non essendo un assoluto.
Per cogliere la bellezza dell’effimero splendore primaverile non bisogna porre mente (come vorrebbe Hegel) al fatto che il frutto subentri al fiore come sua verità dichiarando falsa la precedente forma assunta dalla pianta. Occorre piuttosto rendere lucida e gratuita la nostra pupilla e cogliere il pegno di felicità racchiuso nella rosa che è senza perché, che fiorisce perché fiorisce (Angelo Silesio). Si è chiamati per un istante a liberarsi dall’egemonia dell’utile, dall’incalzante pressione dello sviluppo, per fissarsi in quanto ora sta schiudendosi e che presto declinerà senza lasciare dopo di sé una realtà più vera. Il fiore è natura. In questa veste è classificabile come ogni altra realtà. Scrutato con queste lenti è leggibile anche in modo evolutivo.
Lunghe furono le dispute attorno alle orchidee; o, con più rigore scientifico, molto si discusse della ophrys apifera, il fiore «ingannatore» che «imita» la forma dell’ape.
Per interpretarlo alcuni si sentivano obbligati a ricorrere a una teleologia vitalistica finalizzata all’impollinazione; altri, di contro, tenevano salda la convinzione stando alla quale, per spiegare la maschera da insetto indossata dal fiore, non fosse necessario introdurre nel meccanismo evolutivo alcuna variante finalistica. Per entrambi gli schieramenti restava egemone l’impulso a riprodursi.
In ciò l’arte dell’ikebana non trova rivali. La costruzione di codici simbolici rende la disposizione dei fiori un linguaggio. Si parte considerando il fiore modello di un’arte spontanea, priva di artifici e perfetta, emblema vegetale del ciclo della vita incalzato dall’effimero. La simbologia però diviene più articolata là dove interviene la mano che ordina e dispone. La composizione è disposta secondo un ritmo ternario: il ramo superiore è quello del cielo, il mediano dell’uomo, l’inferiore rappresenta la terra. Al di fuori di questo ritmo non si dà composizione viva. Come le tre forze naturali vanno armonizzate per formare l’universo, così gli steli devono equilibrarsi nello spazio senza apparente sforzo.
Il loro è un librare e un posarsi a un tempo. Esistono però tipi di disposizione più complessi, come nel caso di fiori con steli discendenti, che esprimono il declino della vita, lo scorrere di tutte le cose verso l’abisso; allora la curva degli steli deve flettersi sempre più verso l’estremità. In Oriente esiste però anche una simbologia non compositiva. Si pensi al loto. Senza inoltrarsi in sentieri complessi, basta cogliere la grammatica di base propria di un fiore che si distende sulla superficie di acque stagnanti. Nel buddhismo il loto diviene simbolo di purezza perché, pur uscendo da melmosi acquitrini, non ne resta contaminato: «Come un loto puro, meraviglioso, non è macchiato dalle acque, io non sonomacchiato dal mondo» (Anguttara Nikaya 2, 39).
Le parole di Gesù però guardano ai campi e non agli stagni. Il Vangelo addita la dimensione creaturale della cura e della precarietà, non quella della fuga. La «provvidenza» non sta nel ritenere che tutto vada per il meglio, che ogni cosa sia assicurata; essa consiste nella convinzione che è dono di grazia esserci ancora. La fragilità dell’esistenza ci conferma che le nostre forze, da sole, non possono garantirci la sussistenza.
I gigli del campo si collegano allo stupore di poter affermare di essere ancora qui nonostante il fatto che nulla, nelle nostre vite, sia in grado di assicurare appieno un simile esito. L’esistenza presa in se stessa garantisce in modo cogente soltanto di essere destinata a finire. Molte sono le cause da cui dipende il termine, incertissimo ne è il tempo; sicuro e fatale è che esso, secondo natura, sopraggiunga.
 
 
La sofferenza delle piante
 
Tutto il regno vegetale e non solo il fiore simboleggia la mitezza. Le piante soffrono. Lo si vede. Si curvano, rinsecchiscono bruciate dal sole, marciscono impregnate dall’acqua, si spezzano con il vento, stentano per aridità del suolo. I vegetali sono anche rigogliosi, prosperano ricchi di linfa vitale, si caricano di fiori e frutti. Gli alberi a volte sono imponenti e maestosi. Le piante si spogliano di foglie, sono nude e raggelate; ma quel legno che sembra la negazione di ogni capacità di vita contiene, sotto la scorza, gemme che esploderanno in primavera.
Dalla morte nasce la vita. Per la simbologia cristiana la croce non può essere che un albero. Le piante donano ristoro con l’ombra e gratificano la vista. Sono polmoni per l’aria degli altri e cibo per uomini e animali. Hanno molte doti; a loro sono però negati occhi, voce e mobilità, perciò sono senza difese rispetto allo sfruttamento. Intere foreste sono mangiate senza che gli alberi riescano a coalizzarsi contro gli invasori. Anche quando le viscere dei vegetali contengono veleni, le piante non sono aggressive: non attaccano nessuno.
 
 
Allorché la scure si avvicina non emettono grida, né guardano con occhi supplichevoli. Quando la sega avanza non fuggono, né tentano di nascondersi. Non oppongono mai resistenza.
Sono un dono continuo che non richiede contropartite. Anche se divengono una minaccia, l’aggressività delle erbacce resta facile da estirpare. Il più delle volte sono però deboli ed esposte a molte insidie. Molti si prendono cura delle piante. Le si concima, le si annaffia, le si pota, le si cosparge di veleni ritenuti benefici. Pochissimi curano le piante per amore di loro stesse. Lo si fa per i vantaggi che danno; si tratti di cibo, di legno, di bellezza, di soddisfazione dell’orgoglio personale («quanto sono belle le tue piante», «hai proprio il pollice verde!»). I vegetali sono inermi e incapaci di difesa. A volte sono tenacissimi, a volte fragili e bisognosi di essere curati.
Sono sempre ciechi e silenti. Nei canti del «servo del Signore» la vittima benefica è paragonata a un agnello muto di fronte ai suoi tosatori (Is 53,7).
Sulla tavola eucaristica vi è però un mutismo più profondo: pane e vino sono di origine vegetale. La spiga è tagliata e il chicco è macinato, il grappolo è amputato e l’acino è stritolato senza che si emettano lamenti. Impastato e cotto, il pane è mangiato senza che si odano proteste. Il vino è bevuto senza che tenti di ribellarsi. Il mondo vegetale è l’area in cui si dispiega il massimo sfruttamento e il dono più continuo. Sarebbe bene ricordarselo di fronte alla verità cristiana che lega la presenza eucaristica di Gesù Cristo al mondo vegetale. Il fatto che si tratti di una realtà incruenta non significa affatto chela simbologia del dono sia meno intensa.
 
Tratto da "Il Regno"
 
Piero Stefani
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