La speranza in Dostoevskij

Dostoevskij inizia il suo "Diario di uno scrittore" con un'insolita descrizione di una festa di Natale, riportandoci la scena di questa solennità, nella contemporaneità, come se fosse un avvenimento della nostra vita. A volte ci sembra che tutto sia accaduto così tanto tempo fa, che ci dimentichiamo delle sventure che hanno accompagnato la nascita di Cristo.

La speranza in Dostoevskij

da Quaderni Cannibali

del 21 dicembre 2010

 

          Ecco l’intervento tenuto da Tat’jana Kasatkina (presidente della Commissione di studio dell’opera di Dostoevskij, presso l’Accademia delle Scienze russa) all’Università di Firenze il 25 febbraio 2009.

 

 

           Nel 1876 Dostoevskij inizia a pubblicare un’opera senza precedenti, che prenderà il nome di Diario di uno scrittore. Si tratta di una rivista mensile su cui scrive una sola persona, lo stesso Dostoevskij. Quando presenta al pubblico il programma di questa rivista, lo scrittore dichiara che la sua intenzione è parlare di avvenimenti a suo parere particolarmente interessanti: fatti successi nel mondo, nella vita culturale…

          Così all’improvviso inizia il Diario di uno scrittore, con la descrizione di un avvenimento molto strano. Almeno a prima vista, un avvenimento che non influisce realmente sul destino del mondo: il primo numero della rivista comincia con la descrizione di una festa di Natale al Circolo degli artisti.

          Dopo aver descritto il fatto in sé, Dostoevskij passa a fare delle considerazioni abbastanza inattese. Dice che la festa non è andata male, anche se è stata abbastanza noiosa: tutti i presenti, infatti, desideravano molto avere un bell’aspetto ma non ci riuscivano; desideravano essere intelligenti senza riuscire ad esprimersi; erano a disagio, non si sentivano liberi e, a causa di questo imbarazzo, iniziavano a provare antipatia per quanti avevano intorno. In quell’occasione Dostoevskij aveva fatto un discorso caloroso, che nel Diario occupa un solo paragrafo.

          Dopo aver osservato le persone intorno, radunate per la festa, aveva preso la parola dicendo: «Che impressione! Qui si potrebbe manifestare l’acume più sottile, il fascino più strabiliante, l’intelligenza più inattesa, la bontà più grande… Ognuno dei presenti potrebbe esprimere tutte queste qualità, perché in ognuno è racchiusa quella grande forza, che l’uomo da molto tempo per qualche motivo ha smesso di percepire in sé».

          E continuava: «Ognuno dei presenti potrebbe rendere felici tutti gli altri, bisogna solo volerlo e crederci. È mai possibile - si chiedeva - che il Secolo d’oro [il periodo dei grandi talenti letterari russi del XIX secolo, da Puškin a Gogol’, Tolstoj e lo stesso Dostoevskij; ndr] esista solo sulle tazze di porcellana?!». E concludeva: «La vostra disgrazia sta tutta nel fatto che, per voi, questo è impensabile».

          Il capitoletto s’intitola Il Secolo d’oro in tasca. Dostoevskij parla del fatto che in ogni uomo è presente qualcosa di ignoto a lui stesso, che è molto più grande di lui, molto più buono di lui, molto più ragionevole di lui così come appare normalmente. In ogni uomo è racchiusa una forza che lui stesso non vede: chiunque giungesse a quel “se stesso” che si trova in profondità, potrebbe fare di tutto il mondo che ha intorno un paradiso. È una cosa possibile per ognuno di noi in assoluto.

          Ecco, proprio con questo brano Dostoevskij inizia a pubblicare il suo Diario di uno scrittore, dove aveva dichiarato di voler parlare dei problemi di attualità, che riguardano la vita del mondo. Inizia con la constatazione di qualcosa che noi, pur sapendo, normalmente dimentichiamo: la constatazione, cioè, del fatto che l’uomo è il secondo membro della coppia Dio-uomo. Dostoevskij raccontava spesso dei balli che si tenevano al Circolo degli artisti, ma dietro a quelle danze si cela sempre un’altra danza, una coppia diversa, una coppia costante: Dio e l’uomo. Dio ha già fatto la sua mossa, il suo passo; adesso tocca all’uomo fare il proprio passo, e può farlo in qualsiasi momento. Allora si realizzerà quel secolo d’oro che ognuno, come dice il titolo di questo capitoletto, porta in tasca.

          In seguito, nonostante sembri mancare un nesso con quanto appena detto, Dostoevskij inizia un racconto intitolato Il fanciullo presso Gesù per l’albero di Natale. Dico che “sembrerebbe” non esserci alcun nesso, perché in realtà c’è un legame diretto. Dostoevskij racconta di un bambino che un mattino si desta in un sotterraneo umido e freddo, in un’immensa città di cui non dice il nome. Questo bambino piccolo - non raggiungeva i sei anni - quel mattino aveva cercato più volte di svegliare la mamma, che dormiva a fianco su un tavolaccio, ma la donna per qualche motivo era molto fredda e non reagiva in alcun modo. Restava distesa «su un pagliericcio sottile come una sfoglia», scrive Dostoevskij, ed il bambino - che aveva molta fame - non riusciva a svegliarla in nessun modo. Lo scrittore veste questo fanciullo in modo molto strano (con una vestaglietta), e descrive così lo scantinato: in un angolo è disteso un uomo ubriaco fradicio, sempre vestito in vestaglia, in un altro angolo sta morendo una vecchia scorbutica, che un tempo era stata una balia ed aveva allevato molti bambini. Tutta la storia si svolge alla vigilia di Natale.

          Se abbiamo in mente l’icona russa del Natale, vi è raffigurata una grotta (e la grotta in una città moderna è lo scantinato di una casa normale). Al centro dell’icona è distesa la Madonna, anch’essa su un giaciglio sottilissimo. Negli angoli inferiori, come alle punte di un triangolo, ci sono da un lato san Giuseppe (vestito con un chitone, il cui corrispettivo nell’epoca moderna può essere solo la vestaglia) e dall’altro la levatrice, che era presente nonostante la Madonna di per sé non ne aveva bisogno. Nelle icone in cui la Madonna ha in braccio Gesù (penso soprattutto alle Madonne “della tenerezza”, come quella famosa di Vladimir), il bambino può benissimo essere descritto come un bambino che non ha ancora sei anni, in vestaglia, visto che anche lui porta un chitone. Inoltre, la scena che descrive Dostoevskij accade proprio nel periodo di Natale.

          In sostanza, abbiamo davanti un presepio devastato, in rovine: al posto di san Giuseppe c’è un ubriaco in vestaglia, al posto della levatrice che gioisce per la nascita del bambino c’è una balia stufa di tutto, al centro è distesa la Madonna già morta, per tutta la scena si muove un piccolo Cristo che ha molta fame. Quando Maria e Giuseppe sono arrivati a Betlemme, sono finiti in una grotta proprio perché non avevano trovato nessuno disposto ad accoglierli in casa: davanti ad una donna vicina al parto, la gente preoccupata per il censimento non aveva bisogno di altri problemi. Cristo è nato in una grotta perché nessuno aveva bisogno di Lui.

          Riportando la scena nella contemporaneità, Dostoevskij ci permette di vivere la nascita di Cristo così com’è accaduta allora: ci mostra il mondo indifferente e Chi vi è entrato senza trovare nemmeno una persona che provasse simpatia per lui. A volte ci sembra che tutto sia accaduto così tanto tempo fa, che ci dimentichiamo delle sventure che hanno accompagnato la nascita di Cristo. Ma Dostoevskij, rappresentando questo fatto nella contemporaneità, ce lo fa venire incontro come un avvenimento della nostra vita: così, all’improvviso, con la sensazione di avere a che fare con l’avvenimento intatto iniziamo a fare esperienza della vita di Cristo.

          Nel racconto il bambino cerca ancora una volta di risvegliare la madre morta ed esce nella città freddissima; il gelo è terribile, c’è la neve e la luce dei lampioni, tutti si preparano a festeggiare il Natale. Sono passati duemila anni dalla nascita di Cristo e il Natale è una festa per tutta la città e per tutto il mondo. E di nuovo un piccolo Cristo va in giro per la città… Il primo che lo vede è un poliziotto: se ci chiedessero di immaginare il seguito di quest’incontro, come lo continueremmo?

          Potremmo trovare uno svolgimento diverso da quello di Dostoevskij, potremmo immaginare un finale positivo ad ogni incontro (di per sé il poliziotto si trovava lì proprio per aiutare le persone in difficoltà): per Dostoevskij, invece, il poliziotto guarda il bambino e si gira subito dall’altra parte, perché in quel momento non ha voglia di occuparsene. Il bambino allora continua a camminare e vede dietro un’enorme vetrata a pianterreno una grande festa: vi sono delle donne bellissime vestite magnificamente, c’è uno stupendo albero di Natale e le donne distribuiscono pasticcini a tutti quelli che entrano.

          Anche il bambino apre la porta ed entra, ma viene sgridato da tutti e si spaventa molto. La più caritatevole delle signore presenti gli mette in mano un soldino e lo rimanda fuori al gelo. Il bambino quindi si ferma davanti ad una vetrina in cui ci sono tre piccoli pupazzi. Le mani gli si sono congelate, non riesce più a piegare le dita; il soldino che gli avevano dato era già scivolato via, ma lui - come tutti i bambini - si dimentica in fretta delle sventure, così con gli occhi e la bocca spalancati guarda i pupazzi che suonano e ballano. In quel momento qualcuno lo afferra da dietro, lo strattona e gli fa lo sgambetto e lui cade sulla neve fredda: era un ragazzo cattivo, grande e grosso. Il bambino fa un salto per lo spavento e corre via, nascondendosi in un cortile dietro ad un mucchio di legna. Lì inizia a congelarsi e ha una visione: qualcuno gli tende delle braccia calde, e una voce buona e gentile gli dice «Vieni da me alla festa di Natale, piccino».

          È Cristo, ogni anno organizza una festa di Natale per i bambini che sulla Terra non hanno un albero di Natale. Alla festa ci sono tanti bambini: quelli morti nelle ceste abbandonate davanti a porte di sconosciuti, quelli morti di fame in villaggi sperduti, quelli soffocati per il fumo nei treni, e tanti altri ancora che hanno sofferto nel nostro mondo. E anche tutte le madri di quei bimbi sono lì, in disparte, e piangono. Il racconto si conclude con un portiere, che all’alba seguente trova il piccolo cadavere del bambino assiderato dietro la legna accatastata. È come un doppio finale: termina con la festa da Cristo, e termina con il piccolo cadavere dietro alla legna. Perché l’unico che aveva avuto bisogno di quel bambino era Cristo.

          Bisogna notare che, nel suo cammino, è come se il bambino avesse incontrato tutta l’umanità (prima un uomo, quindi delle donne e poi un bambino) e ne fosse stato rifiutato: l’umanità, che non ha avuto bisogno di Lui, rimane con un piccolo cadavere dietro alla legna. Tutti quelli che hanno incontrato il bambino sono risultati incapaci a collaborare con Dio, perciò Cristo stesso è dovuto nuovamente andare incontro a questo bambino. Tra l’altro qui si vede molto chiaramente che ciò che ha detto Cristo («Ogni volta che avete dato da bere o da mangiare a uno di questi miei fratelli più piccoli, che siete andati a visitarlo in carcere, l’avete fatto a me») non è affatto una metafora, perché in ognuno di questi bambini nuovamente viene sulla terra Cristo. E Dostoevskij ce lo mostra, in modo che possiamo proprio vederlo.

          Ogni volta che ci incontriamo tra noi, che incontriamo un altro uomo, dal fondo del suo essere a noi risplende Cristo; al contrario, quando rifiutiamo gli incontri, rifiutiamo Cristo. Dostoevskij vedeva così tutto il mondo: dietro ad ogni avvenimento della vita contemporanea, per lui c’era l’avvenimento eterno della storia di Cristo. Non come una storia che si ripete, ma come una storia che ogni volta, con ogni nuova persona coinvolta, si rinnova. Per lui era un incontro che, ogni volta, si trasformava in una domanda per la persona a cui capitava questo incontro: perché questo incontro è ciò in cui Dio, ogni volta, spera. Dio spera che l’uomo gli risponda in modo giusto.

          Per documentare con ancor più chiarezza che proprio questo era il modo in cui Dostoevskij vedeva il mondo, racconto una vicenda anch’essa tratta dal Diario di uno scrittore. È la storia di Katerina Prokof’eva Kornilova, una matrigna che aveva gettato dalla finestra la figliastra di sei anni; la donna aveva vent’anni ed era incinta. Dopo questo gesto era andata a costituirsi alla polizia, senza nemmeno guardare cosa era successo alla bimba. Questa, che era caduta dal secondo piano, era ancora viva: si era rialzata e si era messa a camminare, praticamente senza un graffio. La Kornilova era stata arrestata, giudicata e condannata al confino in Siberia.

          Per Dostoevskij, che sapeva benissimo cosa significasse la Siberia, la condanna non era né giusta né necessaria. Nel Diario di uno scrittore scrive che la gravidanza è una condizione molto strana, che una persona potrebbe non essere del tutto cosciente delle sue azioni o addirittura agire contro la propria volontà. Tra i lettori del suo Diario ce n’era uno che lavorava proprio alla Corte di cassazione, che condivideva pienamente le riflessioni di Dostoevskij e aveva deciso di prestare il suo aiuto alla donna. In una lettera, quest’uomo elenca allo scrittore le azioni che ha già intrapreso; anche Dostoevskij gli risponde elencando ciò che ha già fatto. Insomma, si tratta di una lettera di tipo lavorativo, dove però all’improvviso - senza nemmeno andare a capo - Dostoevskij inizia a scrivere di tutt’altro.

          Racconta che a Gerusalemme c’era una piscina, chiamata in ebraico Betzata: in certi momenti un angelo discendeva nella piscina e agitava l’acqua; il primo ad entrarvi dopo l’agitazione dell’acqua, guariva da qualsiasi malattia [cfr. Gv 5,1-9]. Un paralitico si lamentava con Gesù di non avere nessuna persona che lo immergesse nell’acqua. «A giudicare dalla vostra lettera - risponde Dostoevskij all’impiegato della Corte di cassazione - voi volete essere questa persona per la nostra ammalata. Non lasciate passare il momento in cui si agita l’acqua» (cfr. Lettera del 5 novembre 1876 a K. Masljannikov).

          In questo semplice episodio di attualità, Dostoevskij ritrova lo stesso episodio accaduto 2000 anni fa in quella piscina di Gerusalemme. E lo vede non come una storia che si ripete, ma come una storia che si rinnova: il paralitico non aveva trovato nessuno disposto ad aiutarlo, disposto a collaborare con l’angelo mandato da Dio (perché per la sua guarigione dovevano agire in due: Dio doveva mandare l’angelo, e un uomo doveva immergerlo nell’acqua), e per questo aveva dovuto aspettare Cristo, Dio e uomo in una sola persona. Ma Dio si rivolge ad ogni uomo con la speranza di poter trovare un collaboratore.

          E, come Dostoevskij avverte il suo interlocutore, finalmente si è trovata una persona disposta ad aiutare il paralitico: «Volete essere voi questa persona? Allora non fatevi sfuggire il momento in cui il Signore inizierà la sua azione». E pensare che si trattava solo di una lettera di lavoro! Dostoevskij vedeva in questo modo ogni avvenimento della vita.

          Arriviamo così a ciò che don Giussani chiama “presenza”, la presenza come fondamento della speranza. È strano, no? È strano sperare in qualcosa che c’è già: di solito si spera in qualcosa che non c’è ancora, in qualcosa che si aspetta. Ma è strano solo in apparenza, perché la speranza è tale che può essere riposta solo in qualcosa che c’è già e al tempo stesso deve essere raggiunta. La nostra speranza è sempre fondata, proprio perché è sempre già fatto il passo da parte di Dio. L’angelo, cioè, agita l’acqua in continuazione; o, meglio ancora, come è scritto nell’Apocalisse: «Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me» (Ap 3,20). Dio bussa sempre alla nostra porta, ma noi lo lasciamo entrare raramente. La nostra speranza, dunque, è proprio nel fatto che Dio non se ne va e non smette di bussare, perché ce l’ha promesso e perché è fedele, così come Giobbe è stato fedele a Dio. Giobbe era rimasto fedele a Dio anche quando Lui in apparenza l’aveva abbandonato, tradito: proprio per questo Dio è potuto entrare nell’uomo, ha trovato in un uomo abbastanza spazio per entrare.

          L’uomo tradisce continuamente Dio, ma Dio gli rimane fedele nonostante tutte le sue infedeltà.

          Ecco, la speranza è al tempo stesso la certezza dell’uomo (perché Dio ha già fatto il suo passo) e la speranza di Dio (che anche l’uomo faccia il suo passo). Sarebbe quindi più appropriato dire che è Dio che ha speranza in noi, ma se Dio spera in ognuno di noi allora anche noi dobbiamo sperare gli uni negli altri. Come possiamo non sperare in ciò in cui Dio stesso spera? Inoltre, noi sappiamo (non solo sappiamo: lo vediamo anche, perché Dostoevskij ce lo mostra e don Giussani ne parla continuamente) che in ognuno di noi Dio è già presente; a noi spetta solo di rendere questa Presenza visibile al mondo.

          Quest’incontro era introdotto da una citazione molto bella: «Tra mille tormenti io ci sono, in qualsiasi posto mi rinchiudiate, cioè, a qualsiasi profondità di distanza mi teniate». Di cosa parla qui Dmitrij? In sostanza, parla dell’ineluttabilità dell’immagine divina nell’uomo: per quanto l’uomo possa distruggerla, per quanto possa cacciarla in profondità per potere fare quel che gli pare e piace (quel che pare e piace alla sua parte esteriore), per quanto possa tormentare il suo io interiore, comunque questo uomo interiore c’è. Non sparisce, non si distrugge, nonostante tutti i nostri tentativi. E anche questa è una delle fondamenta della speranza.

          Se Dio spera che l’uomo faccia il suo passo, qualcuno potrebbe chiedermi: come può continuare a sperare, se l’uomo Lo tradisce? Se l’uomo non tradisse Dio, Dio non avrebbe bisogno della speranza: avrebbe una certezza. Ma, visto che non arriviamo mai a questo “io” interiore, ripetiamo sempre ciò che i primi uomini hanno detto a Dio nel Paradiso terrestre: «Tu rimani lì, e noi ci occupiamo dei nostri affari» (che di solito sono ciò che abbiamo di più caro). Allora a Dio non rimane altro che sperare. A volte sembra che si tratti di una speranza disperata, come quella di Giobbe che, seduto da solo nella cenere, tutto ricoperto da una piaga maligna, si grattava con un coccio. Ma Dio ci aspetta, così come Giobbe aspettava Dio. Da un punto di vista umano questa posizione si potrebbe definire disperata: anche Giobbe era disperato, ma ciononostante non si è messo a maledire Dio e gli è rimasto fedele.

Allo stesso modo, Dio resta fedele a noi.

          La speranza da parte di Dio, cioè, è come un continuo andare oltre all’evidenza apparente, perché Dio non guarda a questa evidenza, a ciò che appare, ma guarda invece in profondità al nostro “io” interiore. E, per quanto possa essere offuscato, Dio comunque vede che non è morto.

 

Tat'Jana Kasatkina

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