La speranza viene dall'Africa

Nel viaggio in Bénin Benedetto XVI ha affermato di volere sottolineare in particolare tre aspetti. Il primo, nello spirito della stessa esortazione Africae munus, è relativo a quella che nel discorso al Palazzo Presidenziale di Cotonou del 19 novembre, il Papa ha chiamato «la vita sociopolitica ed economica del Continente»...

La speranza viene dall'Africa

da Benedetto XVI

del 21 novembre 2011 (function(d, s, id) { var js, fjs = d.getElementsByTagName(s)[0]; if (d.getElementById(id)) {return;} js = d.createElement(s); js.id = id; js.src = '//connect.facebook.net/it_IT/all.js#xfbml=1'; fjs.parentNode.insertBefore(js, fjs);}(document, 'script', 'facebook-jssdk'));            Dal 18 al 20 novembre 2011 Benedetto XVI si è recato nella Repubblica del Bénin – il Paese africano fino al 1975 noto come Repubblica del Dahomey – per un viaggio apostolico che ha avuto quale primo scopo, come il Papa ha detto al suo arrivo, «consegnare in terra africana l’Esortazione apostolica post-sinodale Africae munus», datata 19 novembre 2011 e successiva alla II Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, tenuta a Roma dal 4 al 25 ottobre 2009.           Nel viaggio in Bénin Benedetto XVI ha affermato di volere sottolineare in particolare tre aspetti. Il primo, nello spirito della stessa esortazione Africae munus, è relativo a quella che nel discorso al Palazzo Presidenziale di Cotonou del 19 novembre, il Papa ha chiamato «la vita sociopolitica ed economica del Continente», di cui ha proposto un bilancio alla luce della dottrina sociale della Chiesa. Il secondo aspetto si riferisce non alla vita politica ma a quella religiosa dell’Africa, e in particolare «al dialogo interreligioso». Il terzo, alla nozione dell’Africa come continente della speranza, nel commosso ricordo di quell’uomo di speranza che fu il cardinale del Bénin, Bernardin Gantin (1922-2008), predecessore dello stesso cardinale Joseph Ratzinger come decano del Sacro Collegio dei Cardinali e grande amico dell’attuale Pontefice, come nel corso del viaggio è stato più volte ricordato.            Al primo punto – l’analisi socio-politica e socio-economica – è dedicata in buona parte anche l’esortazione Africae munus. Questo documento, ha spiegato il Papa, va letto in continuità sia con l’esortazione apostolica postsinodale Ecclesia in Africa del beato Giovanni Paolo II (1920-2005), del 14 settembre 1995 – successiva alla I Assemblea Speciale per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, del 1994, e di cui Benedetto XVI ha voluto sottolineare la speciale insistenza sulla centralità della famiglia e della Chiesa come famiglia di Dio – sia con l’Instrumentum laboris della già citata II Assemblea Speciale per l’Africa dello stesso Sinodo dei Vescovi, corposo documento che il Pontefice andò a presentare in Camerun e Angola nel suo viaggio del 17-23 marzo 2009 e che, benché quasi ignorato dai media europei, costituisce un’autentica enciclopedia dei problemi dell’Africa ed è stato accolto con grande interesse nel Continente cui si riferisce.            L’esortazione Africae munus – il Papa lo ha ricordato più volte in Bénin – ruota intorno a tre parole chiave: riconciliazione, giustizia e pace. I tre concetti sono collegati. «La pace degli uomini che si ottiene senza la giustizia è illusoria ed effimera. La giustizia degli uomini che non trova la propria sorgente nella riconciliazione attraverso la verità nella carità (cfr Ef 4,15) rimane incompiuta; essa non è autentica giustizia». E «una carità che non rispetta la giustizia e il diritto di tutti è erronea». L’Africa, afferma il documento, «vive uno choc culturale che minaccia le fondamenta millenarie della vita sociale e rende talvolta difficile l’incontro con la modernità», un’autentica «crisi antropologica».           La riconciliazione, «realtà pre-politica», risponde a questa crisi contrapponendosi – era questo un tema centrale dell’Instrumentum laboris del 2009 – alla corruzione e ai crimini di matrice tribale, in cui sono coinvolti tanti governi africani. Ma non va confusa con il buonismo. «Per diventare effettiva, questa riconciliazione dovrà essere accompagnata da un atto coraggioso e onesto: la ricerca dei responsabili di quei conflitti, di coloro che hanno finanziato i crimini e che si dedicano ad ogni sorta di traffici, e l’accertamento della loro responsabilità. Le vittime hanno diritto alla verità e alla giustizia». Ai cattolici la Chiesa offre poi il sacramento della Riconciliazione, così importante – ed esposto in Africa a rischi, dal momento che alcune comunità praticano «riti tradizionali di riconciliazione» che, per quanto non sempre da rifiutare, «non possono, in nessun caso, sostituire il Sacramento – che Benedetto XVI suggerisce alle Chiese africane di indire uno speciale Anno della Riconciliazione per rilanciare ovunque la pratica regolare di questo sacramento.           Quanto alla giustizia, certo «la costruzione di un ordine sociale giusto compete senza dubbio alla sfera politica», e «la missione della Chiesa non è di ordine politico», così come ai sacerdoti il Papa raccomanda di non «cedere alla tentazione di trasformarvi in guide politiche o in operatori sociali. Sarebbe tradire la vostra missione sacerdotale». Ma «uno dei compiti della Chiesa in Africa consiste nel formare coscienze rette e recettive delle esigenze della giustizia, affinché maturino uomini e donne solleciti e capaci di realizzare questo ordine sociale giusto», che la Chiesa indica «secondo la sua dottrina sociale» e secondo il diritto naturale, ricordando il legame costitutivo fra giustizia e verità. La festa di Cristo Re è caduta durante il viaggio in Bénin, e – come aveva fatto nell’ultima udienza del mercoledì, del 16 novembre – il Pontefice ha ricordato nell’omelia domenicale a Cotonou che la regalità di Cristo si estende «su tutta la terra», alla società, alla storia. «Il suo Regno può esser messo in pericolo nel nostro cuore. Qui, Dio si incontra con la nostra libertà. Noi – e soltanto noi – possiamo impedirgli di regnare su noi stessi e, di conseguenza, rendere difficile la sua signoria sulla famiglia, sulla società e sulla storia», rifiutando la verità.            Questo richiamo alla verità dovrà necessariamente coinvolgere, ribadisce l’esortazione apostolica, quanto la dottrina sociale naturale e cristiana insegna sulla famiglia. «In ragione della sua importanza capitale e delle minacce che pesano su questa istituzione – la distorsione della nozione di matrimonio come pure di famiglia, la svalutazione della maternità e la banalizzazione dell’aborto, la facilitazione del divorzio e il relativismo di una “nuova etica” –, la famiglia ha bisogno di essere protetta e difesa». In Africa questo comporta «lottare contro alcune pratiche tradizionali che sono contrarie al Vangelo e che opprimono particolarmente le donne», e il Sinodo si è espresso conto la poligamia, l’infibulazione, i matrimoni forzati. Così pure, anche a fronte di «aspetti discutibili di certi documenti di enti internazionali», che vorrebbero imporre legge abortiste agli africani, l’esortazione ricorda che «la posizione della Chiesa non soffre di alcuna ambiguità nei confronti dell’aborto» e che, quanto alla piaga specialmente diffusa in Africa dell’AIDS, qualunque intervento o pedagogia dovrà fondarsi certo sulla compassione per chi ne è vittima, ma anche su «un’antropologia ancorata al diritto naturale e illuminata dalla Parola di Dio e dall’insegnamento della Chiesa».           Infine, quanto alla pace, la Chiesa ricorda che «la pace autentica viene da Cristo (cfr Gv 14,27). Essa non è dunque paragonabile a quella del mondo. Non è il frutto di negoziati e di accordi diplomatici basati su interessi. È la pace dell’umanità riconciliata con se stessa in Dio». E la pace si costruisce intorno al diritto naturale: «solo una verità che trascende la misura umana, condizionata da limiti, pacifica le persone e riconcilia le società tra loro». Non giovano invece alla pace gli atteggiamenti di certi tecnocrati dell’economia internazionale che finiscono, peraltro «con la complicità di quanti esercitano il potere in Africa», per instaurare «un ordine ingiusto che, con il pretesto di ridurre la povertà, ha spesso contribuito ad aggravarla» e un soffocante «pensiero unico sulla vita, sulla cultura, sulla politica, sull’economia».           Contro questo pensiero unico, la Chiesa offre le sue scuole e università cattoliche, di crescente diffusione in Africa ma di cui il Papa chiede che «conservino la loro natura cattolica, assumendo sempre orientamenti fedeli all’insegnamento del Magistero della Chiesa» - anzi, è anche «indispensabile proporre agli studenti una formazione alla Dottrina sociale della Chiesa» - così come occorre che le istituzioni sanitarie cattoliche «siano amministrate secondo le regole etiche della Chiesa, assicurando i servizi in conformità con il suo insegnamento ed esclusivamente a favore della vita», e che la stampa cattolica sia in effetti cattolica e non ospiti tesi contrarie al Magistero.           Nei discorsi tenuti in Bénin, Benedetto XVI ha applicato questi principi generali agli ultimi sviluppi della vita politica africana, dopo la proclamazione dell’indipendenza, il 9 luglio del 2011, della Repubblica del Sudan del Sud, Paese a maggioranza cristiana che si è così separato dal Sudan musulmano, e dopo le cosiddette primavere arabe. La lettura dei fatti politici africani, ha detto il Papa nel Palazzo Presidenziale di Cotonou, è spesso ispirata da griglie riduttive che applicano «il tono sentenzioso del moralizzatore o dell’esperto», l’analisi «alla maniera di un etnologo curioso», o peggio considerano l’Africa solo «un’enorme riserva energetica, minerale, agricola ed umana facilmente sfruttabile per interessi spesso poco nobili. Queste sono visioni riduttive e irrispettose, che portano ad una cosificazione poco dignitosa dell’Africa e dei suoi abitanti».           Se invece si cerca di sfuggire ai riduzionismi, allora ci si accorge che in effetti in Africa «in questi ultimi mesi, numerosi popoli hanno espresso il loro desiderio di libertà, il loro bisogno di sicurezza materiale, e la loro volontà di vivere armoniosamente» sulla base di semplici richieste di dignità economica, umana e politica. Ci siamo trovati di fronte a «una rivendicazione legittima», anche se «a volte violenta». «La Chiesa non offre alcuna soluzione tecnica e non impone alcuna soluzione politica», ma ricorda – sulla base della sua dottrina sociale – che non ci si deve attendere la realizzazione della libertà e della giustizia come esito automatico di un tipo di regime, fosse pure la democrazia: «nessun regime politico è l’ideale», e all’arrivo all’aeroporto di Cotonou il Papa ha invitato a non dimenticare «i Capi tradizionali» che «con la loro saggezza e la loro conoscenza dei costumi» non possono non continuare ad avere un ruolo in Africa: «possono contribuire in modo molto positivo al buon governo», come recita l’esortazione Africae munus.           Il Papa non si è occupato però solo della situazione socio-politica dell’Africa ma anche di quella religiosa. In Africa ha notato anzitutto un fenomeno che da tempo è all’attenzione dei sociologi: l’esplosione di comunità cristiane pentecostali, di nuove forme di cristianesimo autoctone – le cosiddette AIC, sigla sia di African Independent Churches («Chiese africane indipendenti»), sia di African Initiated Churches («Chiese iniziate da africani») – e di movimenti sincretistici che mettono insieme elementi cristiani e altri orientali o derivati dalla religiosità tradizionale africana.           L’esortazione Africae munus cerca di distinguere fra queste tre categorie, pure consapevole che i confini non sono sempre facili da tracciare. Se delle comunità pentecostali e delle AIC il documento afferma che ormai hanno «fatto la loro apparizione nel panorama ecumenico» – per quanto presentino numerosi aspetti problematici –, dei «movimenti sincretistici e sette» l’esortazione dà un giudizio severo, affermando che «talvolta è difficile discernere se siano di ispirazione autenticamente cristiana o siano semplicemente il frutto di una infatuazione per un leader che pretende di avere dei doni eccezionali. La loro denominazione ed il loro vocabolario portano facilmente alla confusione e possono ingannare fedeli in buona fede. Approfittando di strutture statali in elaborazione, dello scardinamento delle solidarietà familiari tradizionali e di una catechesi insufficiente, queste numerose sette sfruttano la credulità ed offrono una copertura religiosa a credenze multiformi ed eterodosse non cristiane. Esse distruggono la pace delle coppie e delle famiglie a causa di false profezie o visioni. Seducono anche dei responsabili politici».           Se nell’incontro con i sacerdoti a Ouidah il Papa ha rinnovato la condanna dei «sincretismi che sviano», conversando con i giornalisti sull’aereo che lo portava in Bénin ha cercato anche di discernere quale lezione dal successo di questo triplice, immenso fenomeno africano – comunità pentecostali, AIC e movimenti sincretistici – possa ricavare la Chiesa Cattolica. «Queste comunità – ha detto Benedetto XVI – sono un fenomeno mondiale, in tutti i continenti, soprattutto sono altamente presenti in modi diversi in America Latina ed in Africa. Direi che gli elementi caratteristici sono poca istituzionalità, poche istituzioni, un peso leggero di istruzione, un messaggio facile, semplice, comprensibile, apparentemente concreto e poi […] liturgia partecipativa con l’espressione dei propri sentimenti, della propria cultura e combinazioni anche sincretistiche tra religioni. Tutto questo garantisce, da una parte, successo, ma implica anche poca stabilità».           Noi cattolici «non dobbiamo imitare queste comunità», ma riflettendo sul loro successo dobbiamo «chiederci cosa possiamo fare noi per dare nuova vitalità alla fede cattolica. E, direi, un primo punto è certamente un messaggio semplice, profondo, comprensibile; importante è che il cristianesimo non appaia come un sistema difficile, europeo, che un altro non possa comprendere e realizzare, ma come un messaggio universale che c’è Dio, che Dio c’entra [con noi], che Dio ci conosce e ci ama e che la religione concreta provoca collaborazione e fraternità. Quindi, un messaggio semplice e concreto è molto importante. Poi, anche che l’istituzione non sia troppo pesante è sempre molto importante, che sia prevalente, diciamo, l’iniziativa della comunità e della persona. E direi anche una liturgia partecipativa, ma non sentimentale: non dev’essere basata solo sull’espressione dei sentimenti, ma caratterizzata dalla presenza del mistero nella quale noi entriamo, dalla quale ci lasciamo formare».           Altre due importanti presenze in Africa sono quelle delle religioni tradizionali e dell’islam. L’esortazione Africae munus ricorda che «la Chiesa vive ogni giorno con gli adepti delle religioni tradizionali africane», le quali offrono un vivo rapporto con gli antenati e «una forma di mediazione fra l’uomo e l’Immanenza». Il dialogo e lo studio di queste religioni non possono però non avere tra i loro scopi «l’individuazione dei veri punti di rottura» rispetto al cristianesimo e la denuncia degli «elementi magici, causa di rottura e di rovina per le famiglie e le società». Né si può dimenticare che «la stregoneria [la quale] conosce ai giorni nostri una certa recrudescenza» «si appoggia sulle religioni tradizionali», costituisce un tragico «flagello» e fomenta «paure che creano legami di soggezione paralizzanti». Pertanto, «il problema della “doppia appartenenza” al cristianesimo e alle religioni tradizionali africane rimane una sfida». Ai sacerdoti a Ouidah il Papa ha ricordato, in questo contesto, che l’amore per Dio «libera dall’occultismo e vince gli spiriti malefici».           Quanto all’islam, l’esortazione Africae munus fa notare la presenza di situazioni molto diverse e «la complessità della realtà musulmana nel Continente africano. In alcuni Paesi regna una buona intesa fra cristiani e musulmani; in altri, i cristiani locali non hanno che una cittadinanza di secondo rango e i cattolici stranieri, religiosi o laici, hanno problemi nell’ottenere visti o permessi di soggiorno; in altri gli elementi religiosi e politici non sono ancora sufficientemente distinti; in altri infine esiste aggressività». Di questa «aggressività» il Papa ha parlato alle autorità politiche e religiose nel Palazzo Presidenziale di Cotonou, ribadendo che «nessuna religione, nessuna cultura può giustificare l’appello o il ricorso all’intolleranza e alla violenza. L’aggressività è una forma relazionale piuttosto arcaica che fa appello ad istinti facili e poco nobili. Utilizzare le parole rivelate, le Sacre Scritture o il nome di Dio per giustificare i nostri interessi, le nostre politiche così facilmente accomodanti, o le nostre violenze, è un gravissimo errore».           Di fronte a tutti questi problemi, la Chiesa propone il dialogo interreligioso. Ma attenzione, ha detto il Papa nello stesso discorso, «il dialogo interreligioso non è facile» e «il dialogo interreligioso mal compreso porta alla confusione o al sincretismo. Non è questo il dialogo che si cerca». Il fondamento del dialogo interreligioso, ha aggiunto il Papa, è l’episodio biblico della torre di Babele. Con il dialogo «la Chiesa tenta così di porre rimedio alla confusione delle lingue e alla dispersione dei cuori nate dal peccato di Babele (cfr Gen 11)». Tornando su un tema a lui caro, Benedetto XVI ha pure precisato che talora occorre concludere che un dialogo teologico non è possibile, ma «questo non significa affatto una sconfitta», perché rimane aperta la strada del dialogo «nel campo sociale e culturale» sulla base della ragione e della ricerca di regole comuni che garantiscano «il rispetto dei diritti di ciascuno».           Infine, il Pontefice non ha mancato di rendere grazie a Dio per la grande crescita quantitativa della Chiesa Cattolica in Africa, che deve diventare sempre di più anche una crescita qualitativa. Sensibile alle ricorrenze, il Papa ha voluto fare coincidere la sua visita con il centocinquantesimo anniversario della prima evangelizzazione del Bénin, di cui ha parlato con i vescovi locali affermando che non è possibile «limitarsi ad una pastorale “di mantenimento”», tanto più che – come ha ricordato nella Messa allo Stadio dell’Amicizia di Cotonou – in Africa ancora «molti sono coloro che non hanno ancora udito il messaggio della salvezza di Cristo»: la missione ad gentes non è finita. Ma nello stesso tempo la crescita della Chiesa in Africa è stata voluta dalla Provvidenza anche in funzione della nuova evangelizzazione dei Paesi di antica tradizione cristiana, dove oggi tanti sacerdoti africani vengono a dare un aiuto e a supplire alla carenza di sacerdoti, in qualche modo ricambiando il dono ricevuto in altre epoche dai missionari, il cui ruolo Benedetto XVI ha ancora una volta difeso a fronte di facili e diffuse denigrazioni.           Ma oggi, afferma l’esortazione Africae munus, «la Chiesa che cammina in Africa è chiamata a contribuire alla nuova evangelizzazione anche nei Paesi secolarizzati, da cui provenivano in passato numerosi missionari e che oggi mancano, purtroppo, di vocazioni sacerdotali e alla vita consacrata». I vescovi africani, talora perplessi, «devono accogliere con generosità la richiesta dei loro confratelli dei Paesi che mancano di vocazioni e venire in aiuto ai fedeli privi di sacerdoti».           Il terzo tema che il Papa ha segnalato come cruciale nel suo viaggio in Bénin è la celebrazione dell’Africa come continente della speranza, nel ricordo del cardinale Gantin. I problemi politici, economici e religiosi dell’Africa sono immensi e Benedetto XVI, come si è visto, non ha mancato di farne l’inventario. Ma ha voluto – perfino con espressioni più impegnative rispetto al precedente viaggio in Camerun e Angola del 2009 – anche sottolineare gli aspetti positivi dello spirito africano: uno spirito giovane, che non è solo un problema ma anche una grande risorsa per un’umanità stanca e invecchiata. Ai giornalisti nel volo che lo portava in Africa il Papa ha fatto notare che «questa freschezza del sì alla vita che c’è in Africa, questa gioventù che esiste, che è piena di entusiasmo e di speranza, anche di umorismo e di allegria, ci mostra che qui c’è una riserva umana, c’è ancora una freschezza del senso religioso e della speranza; c’è ancora una percezione della realtà metafisica, della realtà nella sua totalità con Dio: non questa riduzione al positivismo, che restringe la nostra vita e la fa un po’ arida, e anche spegne la speranza. Quindi direi un umanesimo fresco che si trova nell’anima giovane dell’Africa, nonostante tutti i problemi che esistono e che esisteranno, mostra che qui c’è ancora una riserva di vita e di vitalità per il futuro, sulla quale possiamo contare».            Gli aspetti positivi della concezione africana della vita sono così descritti nell’esortazione Africae munus: «Nella visione africana del mondo, la vita viene percepita come una realtà che ingloba ed include gli antenati, i vivi e i bambini che devono nascere, tutta la creazione ed ogni essere: quelli che parlano e quelli che sono muti, quelli che pensano e quelli che non hanno alcun pensiero. L’universo visibile ed invisibile viene considerato come uno spazio di vita degli uomini, ma anche come uno spazio di comunione ove le generazioni passate sono a fianco, in maniera invisibile, delle generazioni presenti, madri a loro volta delle generazioni future. Questa ampia apertura del cuore e dello spirito della tradizione africana vi predispone, cari fratelli e sorelle, ad ascoltare e a ricevere il messaggio del Cristo e comprendere il mistero della Chiesa».           «Quando dico che l’Africa è il continente della speranza – ha precisato il Pontefice nel Palazzo Presidenziale di Cotonou –, non faccio della facile retorica, ma esprimo molto semplicemente una convinzione personale, che è anche quella della Chiesa. Troppo spesso il nostro spirito si ferma a pregiudizi o ad immagini che danno della realtà africana una visione negativa, frutto di un’analisi pessimista». Dopo avere ricordato che «secondo le Sacre Scritture, tre simboli descrivono la speranza per il cristiano: l’elmo, perché protegge dallo scoraggiamento (cfr 1 Ts 5,8), l’ancora sicura e salda che fissa in Dio (cfr Eb 6,19) e la lampada che permette di attendere l’aurora di un nuovo giorno (cfr Lc 12,35-36)», il Papa ha rilevato che nel senso comunitario e corale che pervade la vita africana si ritrova qualche cosa di questi simboli. Del resto, «la disperazione è individualista. La speranza è comunione».           Se la comunione fa parte della tradizione africana, questa si realizza in pienezza solo nell’incontro con Gesù Cristo sotto lo sguardo amorevole di Maria, Nostra Signora d’Africa, «la Madre della Speranza», come il Papa ha ricordato nell’Angelus allo Stadio dell’Amicizia di Cotonou. Nel commovente incontro con i bambini di Cotonou, il Pontefice – dopo avere confessato che «il giorno della mia prima Comunione è stato uno dei più bei giorni della mia vita» – ha mostrato loro il Rosario: «Guardate! Tiro fuori un rosario dalla mia tasca. Il rosario è come uno strumento che si può utilizzare per pregare. È semplice pregare il rosario. Forse lo conoscete già, altrimenti chiedete ai vostri genitori di insegnarvi. Del resto, alla fine del nostro incontro ciascuno di voi riceverà un rosario. Quando lo avrete in mano, potrete pregare per il Papa – vi chiedo di farlo – per la Chiesa e per tutte le intenzioni importanti».           L’Africa, ha detto il Papa visitando la Basilica dell’Immacolata Concezione di Ouidah, può davvero essere «la terra di una nuova Pentecoste». E l’esortazione Africae munus parla dell’Africa come di «un immenso “polmone” spirituale per l’umanità che appare in crisi di fede e di speranza». Congedandosi dal Bénin nella cerimonia all’aeroporto di Cotonou che porta il nome del cardinale Gantin, Benedetto XVI ha ribadito la sua «intima convinzione che [l’Africa] è una terra di speranza. Ne ho parlato del resto già parecchie volte. Autentici valori, capaci di ammaestrare il mondo, si trovano qui e non chiedono che di sbocciare con l’aiuto di Dio e la determinazione degli Africani». Abbiamo certamente qualcosa da insegnare all’Africa, che ha tanti problemi. Ma dall’Africa possiamo e dobbiamo anche imparare. 

Massimo Introvigne

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