L'annuncio evangelico a tutte le genti, è un comando di Gesù, andate! Da sempre la comunità cristiana ha annunciato. L'annuncio è sempre stato inserito di due storie: quella della salvezza e la storia umana.
del 31 marzo 2010
<!-- @page { margin: 2cm } P { margin-bottom: 0.21cm } -->          L’annuncio evangelico a tutte le genti, è un comando di Gesù, andate! Da sempre la comunità cristiana ha annunciato. L’annuncio è sempre stato inserito di due storie: quella della salvezza e la storia umana. La storia della salvezza è stato il motivo ispiratore del tentativo (da parte dell’uomo) di costruire una storia umana che “sapesse” di vangelo sempre convinti che, pur attraverso mille debolezze, l’Alfa e l’Omega, cioè Gesù morto e risorto, era stato svelato definitivamente una volta per sempre. In questo percorso di annuncio le comunità cristiane nei secoli hanno condiviso, fronteggiato, accusato, aiutato..., imperi, governi, poteri...anche in vista dell’annuncio
          Questa “relazione” politico-culturale a volte ha richiesto alcuni compromessi con il vangelo, non più letto e annunciato “sine glossa”. In ogni epoca che i libri di storia hanno descritto come “compromessa” , lo Spirito ha sempre suscitato grandi santi per dare nuova luce al vangelo e alla comunità cristiana. Uno degli esempi sono le missioni agli indios delle americhe: con casi deprecabili e ad altri di una straordinaria luce. Ma cosa è rimasto oggi degli indios? Cos’è di quelle popolazioni? Cosa hanno portato le democrazie degli stati a quelle popolazioni? Quali sono gli effetti di una riserva indiana? Pensiamo agli Yanomami, al popolo Mapuche del Beato Ceferino Namuncurà...Marco Bechis racconta la storia di una di queste riserve. '
          Gli indigeni parlavano sempre il più possibile, come se il silenzio fosse vietato, come se la parola fosse l’unico mezzo di “rappresentazione” nella scena che improvvisavano. Era la loro tradizione orale che li spingeva in quella direzione? Oppure la televisione? Avevano bisogno di sapere meglio come funziona il cinema.'Marco Bechis
Nulla sarà più come prima
          Il suicidio di due giovani donne spinge Nádio (Ambrósio Vilhalva) e il suo popolo a rioccupare le loro terre natali, situate proprio al confine di una fazenda, gestita da una coppia (Leonardo Medeiros e Chiara Caselli) con la figlia Maria (la bellissima Fabiane Pereira da Silva). Tra frequenti invasioni quotidiane e la minaccia della fame, la piccola comunità Guarani è decisa a tenere testa ai fazendeiros della zona, ma il loro habitat è ormai contaminato per sempre...
La disperazione e il dolore di un popolo straziato
          L’incredibile ondata di suicidi commessi dai giovani Guarani, spinge i capi di questi popoli, costretti ormai a vivere in riserve malgestite e a sopportare condizioni lavorative di semi-schiavitù, a riappropriarsi delle loro tekohà, le terre dove sono sepolti i loro antenati. Territori che molto spesso sono occupati da fazendeiros locali, coltivatori di canna da zucchero, commercio in forte espansione in un paese come il Brasile che ambisce a diventare il maggior produttore di bio-combustile del mondo, o anche semplici tenutari che portano avanti i loro affari, in cui rientra anche, spesso, il turismo di birdwatchers, gli osservatori di specie rare di uccelli presenti nel territorio del Mato Grosso do Sul, dove l’intera vicenda è ambientata.
          Manca di mordente quest’opera quarta di Bechis (regista di Garage Olimpo e Figli/Hijos) e non appassiona più di tanto lo spettatore, che resta un semplice testimone, avulso com’è da quello che dovrebbe essere un crescendo di suspense, e che si ritrova, senza averne piena coscienza, nel mezzo di una battaglia improvvisa e forzata. La storia di questo popolo, da quando venne invaso il loro territorio (infatti, i Guarani Kaiowà sono uno dei primi popoli venuti a contatto con gli Europei), non manca certo di respirare sofferenza e lotta, ma il risveglio dell’istinto primordiale di possesso della terra, adorata dai Guarani come una divinità, non è mostrato nel migliore dei modi. Si stringono i tempi e manca qualche passaggio, così tutto il grande lavoro di Bechis e dei suoi collaboratori nell’approcciarsi alla vita, alle abitudini (ormai forse traviate per sempre dalla modernità) e alla volontà di rivalsa di questo popolo, perde di forza e la messa in scena risulta troppo costruita.
          Qualche limite dato dall’inesperienza degli attori protagonisti, selezionati tra oltre 800 indigeni Guarani, viene comunque mascherato con bravura. La scelta di rovesciare lo schema visto in Mission di Roland Joffè (in cui i “falsi” Guarani, allora interpretati dagli indigeni colombiani Waunana, facevano da sfondo alle vicende di Jeremy Irons e Robert De Niro) si rivela coraggiosa e azzeccata, lasciando gli attori professionisti bianchi, tra cui un buon Claudio Santamaria e una Chiara Caselli troppo sopra le righe, sullo sfondo a fare quasi da comparse.
          Tutto il lavoro laboratoriale con gli indigeni e la passione con cui Bechis insegna loro cosa vuol dire fare cinema, permette di portare a termine il lavoro, ma il film scorre senza proporre traccia di emozioni, se non nel finale: forse perché, nella loro stessa vita, gli indigeni recitano dei rituali comportamentali per scacciare Anguè, lo spirito maligno della foresta che si è impossessato dei suicidi negli ultimi istanti della loro vita, e non lasciano trasparire nessun sentimento, risultando addirittura cinici all’inverosimile di fronte ad un lutto importante.
          L’unico che trova il coraggio di piangere, rendendosi così vulnerabile nei confronti di Anguè, è il protagonista Osvaldo, apprendista sciamano, rappresentante vivente della fusione tra culture e dell’incertezza che ne consegue e che porta con sé solo una lunga scia di suicidi, solcando un punto di inesorabile non-ritorno. Un plauso convinto per un’opera che tende più al documentario, con intenti informativi ben precisi, che vale la pena di vedere, ma armati di una buona dose di pazienza.
2. Il contesto brasiliano
          460.000 indigeni; 225 popoli diversi; 40-60 gruppi contattati; 12% del Brasile designata come terra indiana; 0% di terra di proprietà dei popoli indigeni. Gli indios brasiliani contemporanei contano oggi una gran varietà di popoli e vivono nelle foreste pluviali tropicali, nelle praterie e nelle savane. Le dimensioni delle tribù variano moltissimo. Da alcune decine di migliaia di persone, come i Guarani e gli Yanomami, a poche unità, come gli Akuntsu, rimasti solo in 6. Insieme al Suriname, il Brasile è l’unico stato sudamericano a non riconoscere i diritti degli Indiani alla proprietà della terra, sebbene siano sanciti dalle leggi internazionali. Inoltre, dispone di un ufficio agli affari indiani (il FUNAI) e di ingenti fondi per progetti a favore dei popoli indigeni. Nonostante questo, e con poche eccezioni, le autorità non proteggono gli Indiani che, durante tutto il ventesimo secolo, si sono estinti mediamente al ritmo di una tribù ogni due anni.
          A minacciare oggi in modo più grave l’esistenza dei popoli brasiliani sono il razzismo, l’impunità generalizzata per i crimini commessi nei loro confronti, il disboscamento, le attività minerarie, i progetti idroelettrici, le strade e il vertiginoso aumento delle coltivazioni per i biocombustibili, specialmente soia, canna da zucchero e mais. Chiave per la sopravvivenza di tutti loro è il pieno riconoscimento dei loro diritti territoriali da parte del governo brasiliano, nel pieno rispetto della Convenzione ILO 169 ratificata dal Brasile nel 2002, e della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni e tribali adottata dalle Nazioni Unite nel settembre 2007.  
3. Las Casas, il santo degli indios
Grazie a lui le leggi coloniali spagnole furono modello di equità, a differenza di quanto avvenne negli altri domini.
Mistificazioni tarde a morire
          Ricordate il 1992, le celebrazioni della scoperta dell'America e gli eroici furori postumi che invasero allora tante primedonne della vita culturale (e non solo) italiana ed europea, tutti impegnati a pretendere a gran voce che la Chiesa cattolica si scusasse per il «genocidio degli indios» perpetrato dai conquistadores spagnoli nel corso del Cinquecento?
          Invano gli storici seri - e non solo quelli di fede cattolica - opposero le ragioni obiettive della ricerca scientifica; invano si disse che abusi e delitti v'erano senza dubbio stati, ma che di genocidio non si poteva parlare (tanto è vero che ancor oggi il Mesoamerica è popolato di indios: semmai sono stati gli indiani delle praterie nordamericane a essere stati eliminati sistematicamente); invano si aggiunse che molti delitti acriticamente attribuiti ai conquistadores si dovettero in realtà (epidemie a parte) ai residenti criollos, cioè ai proprietari terrieri e ag li imprenditori spagnoli e portoghesi nati nel Nuovo mondo e che agivano in dispregio delle leggi della corona e del magistero della Chiesa.
          Allora, dieci anni fa, queste pacate e documentate ragioni vennero sepolte dalla paccottiglia d'una pseudostoria anticattolica: quella medesima ch'era stata sostenuta lungamente in scritti come il Candide di Voltaire e Il barone rampante di Italo Calvino, in cui si taceva come i riformatori illuministi del Settecento avevano in realtà sostenuto lo schiavismo e fossero stati al contrario i «biechi oscurantisti» della Compagnia di Gesù ad organizzare e armare gli indios delle reducciones contro i colti e progressisti razziatori di povera carne umana.
...e la luminisità della figura di Las Casas
          Chissà che il ritorno d'interesse intorno a una figura-chiave della redenzione degli indios e della lotta per i diritti degli oppressi, Bartolomé de las Casas, non consenta la ripresa di quei temi storici tanto calorosamente dibattuti un decennio fa e poi lasciati, al solito, cadere. Bartolomé, sivigliano, figlio d'un compagno di viaggio di Cristoforo Colombo, aveva appena compiuti gli studi a Salamanca quando si recò ventottenne, nel 1502 (esattamente 500 anni fa) a prender possesso delle piantagioni paterne nei Caraibi. Furono proprio la ferocia dei coloni e le sofferenze degli indigeni a far maturare in lui una seria e profonda vocazione religiosa, che sfociò nel 1510 nel suo accesso al sacerdozio.
          Furono le sue spietate denunzie del sistema di sfruttamento schiavistico dell'encomienda ad attrarre su di lui le persecuzioni degli ambienti spagnoli locali ma anche l'attenzione del governo centrale. Nel 1516, richiamato in Spagna, fu ufficialmente incaricato dal cardinal Francisco de Cisneros - il grande francescano che in quel momento era anche reggente del regno, in attesa che il giovane Carlo V ne assumesse il governo - di tutelar e i diritti degli indios. Il Cisneros seppe immediatamente interessare anche il sovrano alla causa che il Las Casas difendeva: questi, rientrato nel Nuovo Mondo, vestì nel 1523 l'abito domenicano, il che lo pose in parte al riparo dalle persecuzioni dei notabili criollos e degli stessi prelati spagnoli incaricati di reggere la Chiesa coloniale, e con gli schiavisti spesso in combutta.
          Da allora fra Bartolomé tempestò sistematicamente il governo centrale di denunzie, resoconti, suppliche e documentazioni stringenti sugli abusi degli spagnoli e le sofferenze degli indigeni. Si dovette al lavoro stringente di Bartolomé, tradotto in un documento terribile - la Brevissima relazione sulla distruzione delle Indie - la promulgazione da parte di Carlo V, nel 1542, delle «Nuove leggi sulle Indie», un autentico caposaldo di saggezza e di equità: nel nome delle quali i persecutori d egli indios potevano essere condannati, imprigionati e perfino soggetti alla pena capitale. Certo, la lontananza delle colonie dal centro del governo, la difficoltà delle comunicazioni, la debolezza delle istituzioni del governo coloniale e i frequenti casi di collusione e di corruzione fecero sì che tali sagge leggi restassero in gran parte lettera morta: ma il processo era avviato, il precedente era stato posto.
          Nominato nel 1544 vescovo di Chiapa in Guatemala, il Las Casas non poté reggere alle violenze dei suoi avversari che la sua azione aveva colpito nel vivo dei loro interessi. Dovette piegarsi a tornare nel 1547 in patria, addirittura per preservare la vita: ma quella ritirata si trasformò in una vittoria. Chiuso in un convento, fra Bartolomé scrisse la sua documentata, implacabile Storia delle Indie: non cessava intanto di spronare il sovrano a far giustizia oltremare. E Carlo V, il cui austero cristianesimo era impregnato del magistero di Erasmo da Rotterdam, si fidava soltanto di lui per le questioni del nuovo mondo e sistematicamente seguiva i suoi consigli. Grazie a lui, la legislazione coloniale spagnola fu un purtroppo spesso tradita ma ciò nonostante straordinario documento di giustizia e di equità.
Non così altri
          Nulla del genere si ebbe mai nelle colonie francesi e portoghesi (salvo il breve momento di unità con la Spagna), meno ancora in quelle inglesi, olandesi, belghe. Fu in gran parte per liberarsi di quelle leggi se le borghesie ispano-americane dell'Ottocento insorsero contro il loro governo centrale: e nelle repubbliche «liberate» lo schiavismo continuò e in qualche caso - come in Cile e in Argentina - si ebbe tardivamente, nell'Ottocento, il genocidio degli indios. Quel genocidio che i presbiteriani coloni inglesi del Nordamerica perpetrarono ferocemente tra Sei e Ottocento senza che la corona britannica, finché durò la sua autorità sulle colonie, vi si opponesse. Una verità scomoda, che la propaganda pseudostorica anticattolica ha cercato di dissimulare fino ai giorni nostri.
 
Franco Cardini
Versione app: 3.25.3 (26fb019)