La morte viene vista troppo spesso come uno show!
del 18 novembre 2010
          I grandi delitti italiani fanno audience, costituiscono il piatto forte della nostra informazione, si parla della morte, dei contorcimenti delle vittime, delle meschinità innominabili dei carnefici, lo si fa soprattutto per sentito dire, per interpretazioni personali, per voglia di gogna, se ne parla senza alcuna compassione per le assenze eterne.  Scompaiono bambini, uomini e donne, ognuno di essi viene “liquidato”, con una tecnica senza preambolo, la morte sopraggiunge senza neppure concedere l’ultima volontà di un perdono. Neanche più gridare è permesso.
          Quando di mezzo ci sono costantemente i più giovani, quando vanno a farsi male gli indifesi, uno stato e una società coesi non mollano la presa, non arretrano di un passo, divengono radice profonda per sostenere il carico che deriva dalla cultura universale che considera illegittimo, ingiusto e disumano appropriarsi con la forza e la violenza della vita altrui, soprattutto di donne e bambini.
           E morte che aggredisce le carni e le menti, che spedisce al Creatore senza tentennamenti, è morte che non bisogna rimuovere ma neppure renderla una danza, una gita turistica, una maniera nuova di passare il tempo.
          Di fronte ad accadimenti così indicibilmente cruenti, forse occorre meno parlottio da salotto, minore orecchio al ruminare di pancia, che confondono i percorsi dell’esistenza, anche quella più soggetta a torsioni e abbandoni della propria umanità.
          A che serve istituire la vacanza di fine settimana nei luoghi della morte, dove invece è necessario approfondire e riflettere sulle questioni più urgenti e dolorose, fatti eclatanti sconvolgono la speranza, il futuro dei bambini, che invece dovrebbero essere e rimanere simbolo di un rispetto inalienabile, che lega indissolubilmente le scelte più importanti, per un tempo che non è mai finito. Rispetto che non è paura, che nulla ha a che fare con il linguaggio mediatico che assorda, ammorba le coscienze, sino al punto da scambiare la disperazione circostante con la possibilità di partecipare a un film, a una esposizione virtuale delle proprie inadempienze personali, mimetizzate nell’incultura ridotta a disturbo psicologico.
          Lutti e tradimenti privano la vita di amore e fiducia, provocando nelle persone che le sopravvivono il bisogno di sfuggire la realtà, le responsabilità, soprattutto quando a osservare, ascoltare, ci sono i nostri figli, quelli che da soli rifanno il montaggio della pellicola.
          Il nuovo asse di coordinamento sociale è basato sulla fiction, non è importante comprendere quanto accaduto, ma sapere tutto del misfatto, con una curiosità che non avvicina alla verità, ma rimanda indietro, alla iniziale paura di partecipare alla compassione che non fa sconti a chi gioca con la libertà degli altri, con la stessa ricerca della verità.
          La morte come uno show, il gioco delle percentuali sulla colpevolezza, delle statistiche sull’innocenza, fino ad arrivare a proporre con virulenza l’immagine del mostro, dei mostri, di quanti sono colpevoli, di alcuni che forse lo saranno, di altri che non lo sono, ma hanno tutte le caratteristiche per esserlo.
          Va in scena la tournee nei perimetri dell’assenza, e mentre la giustizia arranca nello sgomberare il campo dalle trappole dialettiche, i venditori della nuova era comunicazionale, sono gia alla ricerca di sangue fresco appena versato.
Vincenzo Andraous
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