Avevo ospitato alcuni ragazzi di Bucarest, quelli che vivono nelle fogne della città. Sulle loro braccia ho notato segni di taglio di lametta da barba o bruciature di sigarette: «Per mostrare il mio coraggio!», mi diceva uno. «Per non finire in prigione ma in ospedale», mi diceva un altro. Violenze contro se stessi e violenze subite da altri, maturate in ambiente di grande miseria, di solitudine, di abbandono, cose che da noi non succedono, direbbero i nostri genitori, cresciuti nella normalità.
del 14 gennaio 2008
Avevo ospitato alcuni ragazzi di Bucarest, quelli che vivono nelle fogne della città. Sulle loro braccia ho notato segni di taglio di lametta da barba o bruciature di sigarette: «Per mostrare il mio coraggio!», mi diceva uno. «Per non finire in prigione ma in ospedale», mi diceva un altro.
Violenze contro se stessi e violenze subite da altri, maturate in ambiente di grande miseria, di solitudine, di abbandono, cose che da noi non succedono, direbbero i nostri genitori, cresciuti nella normalità. Lasciando perdere la discussione sul termine «normalità», da noi succedono altre forme di violenza come il drammatico gesto del ragazzino di Milano che a 12 anni, per un rimprovero da lui ritenuto ingiustificato, si è gettato dal terzo piano di casa, chiudendo la sua vita sull’asfalto.
Il suicidio è la forma più estrema di violenza nei confronti di se stessi, un male misterioso, che colpisce la nostra Europa: sembra che siano più i morti per suicidio di quelli per incidenti stradali. Giovani e adulti sono coinvolti in questo dramma, che lascia in chi rimane, mille domande inquietanti: «Come ho fatto a non accorgermi che era stanca della vita? Quando sono entrata nella sua camera e ho visto la finestra spalancata, sono corsa giù... Aveva 23 anni. Nello stesso giorno, sette anni dopo, è toccato a mio marito: non ha retto al senso di colpa per la morte di nostra figlia».
Che dire poi di quel quindicenne della Romagna, che ha lasciato scritto nel suo ultimo messaggio: «Ho avuto tutto, per quello che me ne vado»?
Tante storie diverse per una violenza che ha diverse spiegazioni: in qualcuno è la solitudine, in altri la fragilità psicologica o un’eccessiva sensibilità: «Ha lasciato scritto che non sopportava più la sofferenza del mondo!».
Per quel ragazzino suicida a 12 anni quale spiegazione? Sarà stata la vergogna di essere accusato come ladro di fronte ai compagni, in famiglia? Non gli era forse permesso di sbagliare? Se conoscessi il caso, il giudizio si arresterebbe di fronte al mare di sofferenza che porta giovani e anziani, dei ragazzini a scappare dalla vita.
È possibile prevenire questo tipo di violenza? «Quello che è successo al ragazzino di Milano non potrebbe succedere anche al mio? Mi sembra così normale, ma a volte così strano, che non riesco a capirlo?», si interrogava una mamma. Bisogna evitare ansie, non alimentandole di fantasie che non corrispondono a vere situazioni di disagio. In questi casi, mi sono sentito terribilmente povero: mi sono messo accanto ai genitori non per capire o dare risposte ragionevoli, cosa quanto mai difficile, ma per incoraggiarli con le parole della fede, consolando, sostenendo e cercando di togliere sensi di colpa non giustificati.
La violenza contro se stessi non è solo il suicidio, è anche il poco rispetto della propria salute, del proprio corpo. Senza generalizzare, nasce là dove ci sono ragazzi senza storia, senza radici familiari, senza legami significativi, ragazzi che non si accettano e non si vogliono bene, ragazzi e ragazze facili a deprimersi di fronte a delle frustrazioni o degli insuccessi.
Da: Vittorio Chiari, Un giorno di 5 minuti. Un educatore legge il quotidiano
don Vittorio Chiari
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