E la verità delle cose è che la procreazione assistita (tranne che nelle sue dimensioni più semplici e elementari) non è terapia, ma artificio; realizza sì il desiderio genitoriale, ma a che sacrificio?
Prima ancora che arrivasse sulle prime pagine dei giornali la notizia del sospetto scambio di embrioni che sarebbe avvenuto nell’Ospedale Pertini di Roma, la parola più incisiva in merito alle pratiche di procreazione artificiale era stata pronunciata in un densissimo riquadro, intitolato "Il graffio", del "Domenicale" del "Sole-24 Ore" della scorsa domenica: «A leggere i diversi commenti di questi giorni, una cosa dovrebbe essere chiara a tutti: la parola bioetica – e persino etica – in Italia ha perso qualunque riconoscibile senso». Parole di per sé provocatoriamente esagerate: esistono ovviamente ancora moltissime persone (e tra esse, oltre a me stesso, inserisco la maggior parte di coloro che leggeranno queste righe) per le quali non solo l’etica ha un senso, ma costituisce la stella polare della vita quotidiana. Ciò non di meno, l’anonimo autore del "Graffio" credo che abbia a suo modo colto nel segno: il dibattito pubblico sulla sentenza della Corte Costituzionale che ha legalizzato l’eterologa non si è incentrato sull’unico paradigma rilevante in tema di fecondazione assistita, quello appunto etico e bioetico, ma su paradigmi di altra natura e di altro spessore: quello dell’autodeterminazione, quello del nuovo orizzonte dei "diritti", quello dell’irresistibilità delle nuove pratiche tecnologiche di frontiera. Paradigmi, questi, che possono attivare discussioni di grande complessità, ma che comunque hanno la pretesa e soprattutto la capacità di mandare in frantumi o comunque di marginalizzare qualunque paradigma etico, che osi venire a contatto con essi.
Qualcosa di assolutamente analogo si rileva nelle discussioni attivate dalla vicenda del Pertini, tutte caratterizzate da interrogativi che fanno riferimento alla sicurezza delle procedure e dei protocolli sanitari e alla qualificazione giuridica della situazione, ma che con l’etica hanno ben poco o assolutamente nulla a che fare. È ovvio, infatti, che a seguito di questa vicenda si attiveranno per il futuro controlli sanitari molto più stringenti e si emaneranno nuove normative per risolvere i tanti interrogativi ai quali per ora nessuno sa dare una risposta adeguata (del tipo: potrà la donna che partorirà i bambini impiantati per errore nel suo utero disconoscerli? Potranno gli stessi bambini pretendere, in un futuro più o meno prossimo, di essere riconosciuti dai loro genitori genetici? ecc.ecc.); ma dovrebbe anche essere chiaro a tutti che il cuore della questione non è questo.
Le questioni di etica sanitaria e gli interrogativi giuridici sono ovviamente rilevanti, ma non colgono l’essenza del problema della procreazione assistita, che non è né sanitario, né giuridico, ma etico. Ma dell’etica sembra che nessuno voglia più parlare, come se la sentenza della Corte Costituzionale avesse definitivamente e trionfalmente dissolto ogni dubbio sull’eticità della procreazione artificiale e della sua forma eterologa. E invece è di etica e primariamente di etica che dobbiamo parlare, perché l’etica non trova le sue radici nelle sentenze dei giudici, ma nella verità delle cose.
E la verità delle cose è che la procreazione assistita (tranne che nelle sue dimensioni più semplici e elementari) non è terapia, ma artificio; realizza sì il desiderio genitoriale, ma col sacrificio di un numero spropositato di vite umane embrionali, create appositamente in provetta; altera i vincoli familiari, moltiplicando le figure genitoriali e creando dissociazioni inquietanti, come quelle tra genitori biologici e genitori sociali; fa venire al mondo esseri umani per i quali la domanda identitaria fondamentale ("di chi sono figlio?") può arrivare a non avere risposta alcuna. Il tutto supportato dalla speciosa giustificazione secondo la quale i figli non sarebbero di chi li procrea, ma di chi li ama e li alleva: se così fosse, basterebbe una dichiarazione solenne del tipo "non amo più mio figlio e non voglio più prendermi cura di lui" per rimuovere, alterare o cancellare del tutto (anche giuridicamente) i vincoli interpersonali generazionali. La verità è che, fondandosi sul sistematico occultamento della verità generativa, la procreazione artificiale fa violenza a tutte le persone coinvolte in queste procedure (come sembra che il legislatore abbia, sia pur indirettamente intuito, quando ha riconosciuto nell’art. 16 della legge 40 il diritto all’obiezione di coscienza a favore del personale sanitario). È da qui che bisogna ripartire, se si ritiene (ma come non ritenerlo?) che una società che arriva a togliere senso all’etica è molto più che una società malata: è una società che cammina a grandi passi verso la propria auto-dissoluzione.
Francesco D'Agostino
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