Il dono dello Spirito da parte di Dio fa comprendere e accogliere ai credenti il suo progetto salvifico, che si manifesta in Gesù, il Cristo crocifisso. Lo Spirito plasma l'identità e l'agire dei discepoli, che proprio in quanto segnati dalla sua opera sono chiamati a vivere in modo “spirituale”, nella sequela di Cristo.
del 03 giugno 2009
10. LA VITA SECONDO LO SPIRITO
Nella tradizione biblica lo “spirito” è la forza vivificante di Dio, che ispira i profeti e anima la vita dei fedeli che aderiscono all’alleanza. Se ne attende un’effusione abbondante per gli ultimi tempi. I primi credenti in Gesù Cristo sono convinti che la sua risurrezione inaugura i tempi ultimi con l’effusione dello Spirito. San Paolo parla dello “Spirito di Dio”, considerandolo al contempo dono di Gesù risorto ai credenti.
 
Lo Spirito di Cristo
Il dono dello Spirito da parte di Dio fa comprendere e accogliere ai credenti il suo progetto salvifico, che si manifesta in Gesù, il Cristo crocifisso. Lo Spirito plasma l’identità e l’agire dei discepoli, che proprio in quanto segnati dalla sua opera sono chiamati a vivere in modo “spirituale”, nella sequela di Cristo.
Lo Spirito suscita e alimenta quelle disposizioni profonde che sono conformi al progetto di Dio, in antitesi con quelle della “carne”, ossia con un’esistenza chiusa in se stessa ed estranea al progetto di Dio. È lo Spirito a far penetrare nel cuore dei credenti l’amore di
Dio, che diventa fonte dell’amore fraterno. Lo Spirito di Dio suscita in chi crede l’atteggiamento di confidenza filiale di Gesù, che si esprime nell’invocazione Abbà, “Padre”.
Anche nelle situazioni di sofferenza lo Spirito ispira e alimenta la preghiera dei credenti in, sintonia con il disegno salvifico di Dio.
Lo Spirito di Cristo Signore è garanzia della libertà dei discepoli nei confronti della vecchia esistenza ed è fonte di un nuovo dinamismo di vita caratterizzato dall’amore. Effuso nel battesimo, costituisce i credenti in una comunità di persone di pari dignità, facendo superare ogni discriminazione etnica o sociale. La comunità animata dallo Spirito per mezzo di doni (o “carismi”) cresce in modo armonico e unitario con la partecipazione di tutti.
È lo Spirito comunicato dal Risorto la fonte interiore e permanente della libertà del cristiano. Essa è prima di tutto liberazione dalla schiavitù del peccato e della morte per l’iniziativa gratuita di Dio attuata in Cristo: è “libertà da” tale schiavitù e “libertà per” donarsi a Dio e agli altri, perché lo Spirito comunica all’intimo dei cuori la capacità di amare secondo la volontà del Padre, rivelata in Gesù.
La “legge”, sintesi delle esigenze etiche e relazionali, cessa di essere una norma esterna perché viene a coincidere con la “legge dello Spirito”, donata da Dio. Si stabilisce così una sintonia tra le aspirazioni profonde dell’essere umano, che cerca la propria realizzazione nelle relazioni giuste e felici con le persone, e le esigenze etiche concentrate nell’amore.
 
I doni dello Spirito
Lo Spirito Santo, dato ai credenti nel battesimo e negli altri sacramenti, fa di essi ’unico corpo di Cristo e comunica loro i vari doni o carismi. Si può parlare di doni dello spirito solo in un contesto di fede, in cui si riconosce che Gesù è il Signore. Poiché tutti i redenti, in forza dello Spirito, riconoscono Gesù Cristo come il Signore, le differenti manifestazioni dello Spirito si impiantano su una base condivisa, e quindi su un’eguale dignità.
Si deve poi riconoscere che all’origine dei vari e molteplici doni spirituali c’è sempre n solo Dio e Signore che opera per mezzo dell’unico Spirito. Perciò non hanno senso concorrenze o contrapposizioni nella manifestazione e nell’esercizio dei vari carismi. Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo paragona la comunità dei credenti al corpo, che “pur essendo uno, ha molte membra e tutte le membra pur essendo molte, sono un corpo solo” (12,12). Egli conclude il confronto tra la comunità cristiana e il corpo con la dichiarazione: “Voi siete corpo di Cristo” (12,27). Tutti i cristiani infatti sono stati immersi in un solo Spirito per formare un solo corpo.
Il criterio ultimo per valutare i carismi suscitati dallo Spirito nella comunità è l’amore.
Ce lo fa capire san Paolo nell’elogio dell’amore contenuto nel capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi, quando dice che anche le esperienze mistiche più prestigiose e perfino gli atti di eroismo più grandi sono privi di valore senza l’amore (che in greco è detto “agàpe” ed è per lo più tradotto col termine “carità”):
“Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come
bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita.
E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la
conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla.
E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto,
ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe.
La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si
gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non
tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità. Tutto
scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta.
La carità non avrà mai fine...
Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più
grande di tutte è la carità!” (13,1-7. 13).
Il dono dello Spirito Santo, che Gesù risorto fa ai credenti, diventa in essi la fonte dell’amore di Dio e li rende capaci di attuare la loro fede in un atteggiamento di donazione reciproca. Lo Spirito di Dio fa nascere da un lato la fede in lui e dall’altro l’amore verso il prossimo. La maturità spirituale dei cristiani si misurerà, allora, sulla qualità delle loro relazioni d’amore, rese possibili dai frutti dello Spirito: “amore, gioia, pace, magnanità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Galati 5,22). La libertà cristiana trova nella carità la sua verifica: essa mette in moto decisioni e comportamenti responsabili e si
orienta alla realizzazione di un progetto in cui l’essere umano si gioca personalmente in una costante disponibilità al servizio.
 
La promessa della vita piena
Lo Spirito donatoci da Gesù ci rende dunque partecipi della vita divina nel tempo e per l’eternità. Ci chiediamo: accogliendolo nel nostro cuore, che cosa ci è dato sperare? Nel libro dell’Apocalisse, il profeta di Patmos descrive l’ultimo atto del dramma della salvezza come “nuova creazione”. L’idea della nuova creazione deriva dalla tradizione biblica, dove i profeti invitano a dimenticare il passato e a guardare alle cose nuove che Dio sta per creare.
San Paolo riprende questo linguaggio per esprimere la consapevolezza che i credenti, uniti mediante il battesimo a Gesù Cristo, sono una “nuova creatura”. L’esperienza della novità di vita nello Spirito, fondata sulla iniziativa radicale di Dio, prefigura e anticipa la comunione piena e definitiva con lui che chi crede attende nella speranza. Nella prospettiva di san Paolo, anche l’attuale condizione del creato è associata al destino dell’essere umano, che lo trascina con sé nella sua storia di peccato. Ma in forza della stessa solidarietà, il creato attende la liberazione dalla sua schiavitù assieme agli esseri umani chiamati a entrare nella gloria di Dio.
Nella visione dell’Apocalisse, espressa col linguaggio evocativo dei simboli, il disegno di Dio sulla storia umana è racchiuso in un rotolo, che solo Gesù Cristo, il messia discendente di Davide, ucciso ma vivo, è in grado di interpretare e di realizzare. Gesù Cristo è il rivelatore e il redentore universale che inaugura la grande liturgia cosmica, in cui tutti gli esseri creati riconosceranno l’assoluta signoria di Dio. Con la sua morte e risurrezione, egli non solo vince le potenze del male e della morte, ma inaugura il tempo e la condizione definitiva della salvezza per tutti quelli che lo seguono anche a costo di perdere la vita fisica. Dopo la vittoria finale sulle forze del male si presenterà la “nuova creazione”, che comprenderà il cielo e la terra, mentre il “mare”, simbolo del caos, scomparirà per sempre.
In questa cornice si colloca la visione della “Gerusalemme celeste”, la “fidanzata e sposa” dell’Agnello, che rappresenta il compimento del disegno della salvezza. In essa si realizzerà la dimora definitiva di Dio con gli uomini. La morte, fonte di ogni dolore, sarà eliminata per sempre. Dio accoglierà gli esseri umani come figli chiamati a partecipare per sempre alla sua vita d’amore. Questo destino è prefigurato nella donna Maria, la madre del Messia.
 
Maria madre della speranza
Nella tradizione evangelica Maria, la vergine madre di Gesù, si presenta come la donna credente che - coperta dall’ombra dello Spirito - si apre al dono della salvezza definitiva, inaugurato dal suo Figlio. Ella accoglie la parola dell’angelo inviato da Dio con l’adesione pronta e fedele dei grandi testimoni della tradizione biblica. Nel canto del Magnificat, Maria esalta la potenza salvifica di Dio, il santo e il misericordioso, che nel suo figlio Gesù porta a compimento la promessa fatta ad Abramo e alla sua discendenza. Come umile serva del Signore, Maria, la “figlia di Sion”, si colloca nella storia del suo popolo, Israele, che, a partire dall’esodo e dal cammino nel deserto, fa esperienza dell’agire potente di Dio. Il Magnificat, sintesi della storia della salvezza, è un canto di speranza, di cui Maria si fa voce.
Alla nascita di Gesù a Betlemme, mentre i pastori riconoscono nel bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia il Messia e il Salvatore, Maria conserva e medita nel suo cuore quanto le è stato annunciato e va realizzandosi. La stessa immagine di Maria compare a conclusione dell’episodio di Gesù dodicenne che, in occasione di un pellegrinaggio a Gerusalemme per la festa di Pasqua, si ferma nel tempio per discutere con i maestri della Legge. Maria e Giuseppe non comprendono le parole di Gesù che rivendica il suo diritto e dovere di dedicarsi alle cose del Padre suo. Il racconto si chiude con una scena paradossale: Gesù ritorna a Nazaret, dove rientra nel suo ruolo di figlio sottomesso, mentre Maria “conserva tutte queste cose nel suo cuore” (Luca 2,51). La madre di Gesù vive nell’attesa del pieno svelamento dell’identità di suo Figlio nella Pasqua di Risurrezione. Maria, in quanto è la credente, che accoglie e conserva nel cuore la parola di Dio, è il prototipo dei discepoli e della Chiesa intera. Quest’identità della Madre di Gesù si trova anche nella tradizione trasmessa nel Vangelo di Giovanni, a partire dal racconto delle nozze di Cana.
Con il dono del vino buono e abbondante, Gesù inaugura la nuova alleanza, fondata su nuove relazioni di amore. Con discrezione, ma anche con determinazione, la Madre entra nella prospettiva della nuova alleanza, richiamando l’attenzione del Figlio sul bisogno venutosi a creare e invitando i servi a fare quello che lui dirà loro. A Cana la Madre anticipa l’ora della rivelazione della gloria di Gesù, che si compirà con la sua morte e risurrezione a Gerusalemme.
La Madre è presente nella scena centrale della crocifissione di Gesù. Prima delle parole “tutto è compiuto”, Gesù le rivela una nuova identità, affidandola come madre al discepolo amato, che l’accoglie come un dono prezioso. Ai piedi della croce nasce la comunità dei credenti, rappresentata dal discepolo e dalla Madre di Gesù. Nel dolore della sua morte avviene il parto, la nascita della nuova creatura, che Gesù ha promesso ai discepoli nel discorso di addio.
In questo orizzonte si colloca anche la visione del capitolo 12 dell’Apocalisse, che presenta il destino finale dell’umanità mediante il grande segno nel cielo, dove compare una donna vestita di sole che partorisce un figlio destinato a regnare come Messia. Per essere sottratto alla minaccia di morte del grande drago, il figlio della donna è portato nel mondo di Dio. Le doglie del parto e il rapimento del figlio presso Dio alludono al mistero pasquale di Gesù, che si prolunga nella storia dei suoi testimoni. Essi sono i figli della donna contro i quali ora combatte il drago.
Nel dramma dell’Apocalisse la figura della madre del Messia si sovrappone a quella di Israele e della Chiesa, sullo sfondo della lotta primordiale tra il serpente antico e la discendenza della donna. Maria è la primizia e l’immagine della Chiesa che vive nell’attesa della salvezza finale. In lei Dio ha fatto risplendere per il suo popolo, pellegrino sulla terra, “un segno di consolazione e di sicura speranza”. Ecco come un figlio della Chiesa dei nostri tempi si rivolge a Maria, la madre di Gesù, figura ideale per ogni donna e per ogni uomo:
Santa Maria, donna dei nostri giorni,
liberaci dal pericolo di pensare
che le esperienze spirituali vissute da te duemila anni fa
siano improponibili oggi per noi…
Facci comprendere che la modestia, l’umiltà, la purezza
sono frutti di tutte le stagioni della storia,
e che il volgere dei tempi non ha alterato
la composizione chimica di certi valori
quali la gratuità, l’obbedienza, la fiducia,
la tenerezza e il perdono.
Sono valori che tengono ancora
e che non andranno mai in disuso.
Ritorna, perciò, in mezzo a noi, e offri a tutti
l’edizione aggiornata di quelle grandi virtù umane
che ti hanno reso grande agli occhi di Dio.
(Preghiera a Maria del vescovo Tonino Bello).
 
 
Conferenza Episcopale Italiana
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