Spendiamo gran parte delle nostre energie nella domanda: «Mi ami?». Quando cresciamo elaboriamo molti modi più sottili e sofisticati per porre questa domanda. Diciamo: «Hai fiducia in me, t'importa di me, mi aiuterai, parlerai bene di me?», e così via. Molta della nostra sofferenza deriva dalla esperienza di non esser stati amati nel modo giusto...
del 01 gennaio 2002
Uno: Una voce lieve e sommessa
Mi stupisco continuamente perché sono sempre ansioso di fare qualcosa, di vedere qualcuno, di finire un lavoro, mentre sono pienamente cosciente che di lì a un mese, o anche a una settimana, avrò completamente dimenticato che cosa era tanto urgente. Sembra che io condivida questa irrequietezza con molte altre persone.
Poco tempo fa mi ero fermato all'angolo tra Boor Street e Yonge Street, nel centro di Toronto, quando vidi un giovane che attraversava la strada mentre il semaforo stava diventando rosso. Mancò per un pelo di essere investito da una macchina. Intanto centinaia di persone si muovevano in tutte le direzioni. Quasi tutti i volti apparivano piuttosto tesi e seri e nessuno salutava l'altro. Erano tutti assorbiti nei loro pensieri, intenti a raggiungere uno scopo ignoto. Lunghe file di automobili e di camion attraversavano l'incrocio, o svoltavano a destra o a sinistra in mezzo a una grande folla di pedoni.
Mi chiesi: «Che cosa avviene nella mente di tutte queste persone? Che cosa cercano di fare, che cosa sperano, che cosa le spinge?». Mentre stavo fermo a quell'incrocio così pieno di traffico, avrei voluto poter ascoltare che cosa si diceva dentro di sé tutta quella gente. Mi avvidi però che non era il caso che fossi così curioso: la mia irrequietezza probabilmente non era molto diversa da quella delle persone intorno a me!
Perché mi è così difficile rimanere calmo e quieto e lasciare che Dio mi parli del significato della mia vita? Forse perché non confido in Dio? Perché non conosco Dio? Perché mi chiedo se Dio sia veramente accanto a me? Perché ho paura di Dio? Perché, nel profondo di me stesso, io non credo che Dio si preoccupi di quello che accade all'incrocio di queste due strade?
Pure vi è una voce, proprio qui, nel centro di Toronto. «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero» (Matteo 11,28-30).
Posso fidarmi di questa voce e seguirla? Non è una voce molto forte e spesso è soffocata dal clamore del centro città. Pure, se ascolto attentamente, udrò questa voce sempre di nuovo e arriverò a riconoscerla come la voce che parla nel più profondo del mio cuore.
Due: Mi vuoi bene?
La semplice affermazione «Dio è amore» ha conseguenze di lunga portata nel momento stesso in cui cominciamo a vivere la nostra vita basandoci su queste parole. Se Dio che mi ha creato è amore, e soltanto amore, allora io sono stato amato prima che ogni essere umano mi amasse.
Quando ero piccolo continuavo a chiedere a mio padre e mia madre: «Mi vuoi bene?». Facevo così spesso e con tanta insistenza questa domanda che è diventata motivo di irritazione per i miei genitori. Anche se loro mi assicuravano centinaia di volte che mi amavano, io non sembravo mai completamente soddisfatto della loro risposta e continuavo a ripetere la stessa domanda. Ora, dopo tanti anni, mi rendo conto che volevo una risposta che non potevano darmi. Volevo che mi amassero di un amore eterno. So che era così, perché la mia domanda: «Mi vuoi bene?» era sempre accompagnata dalla domanda: «Devo morire?». In qualche modo devo aver saputo che se i miei genitori mi avessero amato di un amore totale, illimitato, senza condizioni, non sarei mai morto. Continuavo quindi a tormentare i miei genitori, nella strana speranza che sarei stato una eccezione alla regola generale secondo cui tutti morranno un giorno.
Spendiamo gran parte delle nostre energie nella domanda: «Mi ami?». Quando cresciamo elaboriamo molti modi più sottili e sofisticati per porre questa domanda. Diciamo: «Hai fiducia in me, t'importa di me, mi aiuterai, parlerai bene di me?», e così via. Molta della nostra sofferenza deriva dalla esperienza di non esser stati amati nel modo giusto.
La grande sfida spirituale è scoprire, col tempo, che l'amore limitato, condizionato e temporaneo che riceviamo da genitori, mariti, mogli, figli, insegnanti, colleghi e amici è un riflesso dell'illimitato, incondizionato ed eterno amore di Dio.
Quando riusciamo a fare questo immenso salto della fede, allora sappiamo che la morte non è più la fine, ma l'ingresso nella pienezza dell'Amore Divino.[1]
Tre: Dal fatalismo alla fede
Siamo sempre tentati dal fatalismo. Quando diciamo: «Beh, sono sempre stato impaziente; immagino che debba accettarlo», siamo fatalisti. Quando diciamo: «Quell’uomo non ha mai avuto un padre e una madre che l’amassero; non c’è da sorprendersi se è finito in prigione», parliamo come dei fatalisti. Quando diciamo: «Da piccola ha subito terribili abusi; come puoi aspettarti che abbia un buon rapporto con un uomo», lasciamo che il fatalismo proietti la sua ombra su di noi. Quando diciamo: «Le guerre tra le nazioni, la fame di milioni di persone, le epidemie di AIDS e la depressione economica in tutto il mondo provano che vi è assai poco da sperare», siamo diventati vittime del fatalismo.
Il fatalismo è 1'atteggiamento che ci fa vivere come vittime passive di circostanze esteriori fuori del nostro controllo.
L'opposto del fatalismo è la fede. La fede è la profonda fiducia che l'amore di Dio è più forte di tutte le anonime potenze del mondo e, da vittime dell' oscurità, può trasformarci in servitori della luce.
Quando Gesù scacciò il demone dal fanciullo pazzo, i suoi discepoli gli chiesero: «Perché noi non abbiamo potuto scacciarlo?». Gesù rispose: «Per la vostra poca fede. In verità vi dico: se avrete fede quanto un granello di senape, potrete dire a questo monte: spostati da qui a là, ed esso si sposterà, e niente vi sarà impossibile» (Matteo 17,19-20).
È importante identificare i tanti modi in cui pensiamo, parliamo o agiamo per fatalismo e, un passo per volta, trasformarli in momenti di fede. Questo movimento dal fatalismo alla fede è il movimento che rimuoverà la fredda oscurità dal nostro cuore, trasformandoci in persone che, fidenti nel potere dell’amore, possono veramente spostare le montagne.
Quattro: Sotto la croce
È così difficile guardare la vita dall' alto, dal punto di vista di Dio. Di recente il mio caro amico Jonas mi ha telefonato e con voce rotta mi ha detto che sua figlia, Rebecca, era morta quattro ore dopo là sua nascita. Jonas, sua moglie Margaret e il loro piccolo Samuele avevano tanto desiderato questo nuovo bambino. La bimba era nata prematura, ma avrebbe ancora potuto vivere; era subito diventato chiaro, tuttavia, che non avrebbe vissuto a lungo. Jonas battezzò la piccola Rebecca; lui e Margaret la tennero tra le braccia per un momento, e poi tutto fu finito.
Jonas mi disse: «Tornando dall'ospedale ho continuato a dire a Dio: “O Dio, tu mi hai dato Rebecca, e ora io te la rendo”. Ma è un tale dolore, è un felice avvenire cancellato, e un tale sentimento di vuoto».
«Rebecca è tua figlia», gli dissi, «e rimarrà per sempre la figlia tua e di Margaret. Vi è stata data solo per poche ore, ma quelle poche ore non sono vane. Abbi fiducia che Samuele ha una sorellina e che Margaret e tu avete una figlia che dimora nell' eterno abbraccio di Dio. Tu l'hai segnata col segno della croce di Gesù con il quale Samuele, Margaret e tu stesso siete stati segnati, e sotto quel segno il vostro amore crescerà sempre più profondo e più grande, anche se il vostro cuore è lacerato».
Parlammo a lungo al telefono. Avremmo voluto abbracciarci e piangere insieme; avremmo voluto stare assieme e trovare qualche consolazione nell' amicizia reciproca.
Che cosa significa questo evento? Forse perché sia rivelata la gloria di Dio? È così difficile dire di «sì» a questo, mentre tutto è oscuro.
Guardo Maria che tiene in grembo il corpo morto di Gesù. Penso a Margaret e Jonas che hanno tenuto nelle braccia la piccola Rebecca. E prego.
Cinque: Una vita riconoscente
Come possiamo vivere una vita davvero riconoscente? Quando riguardiamo a tutto quello che ci è accaduto, facilmente dividiamo la nostra vita tra cose buone di cui essere grati e cose cattive da dimenticare. Ma con un passato così diviso non possiamo andare liberamente verso 1'avvenire. Con tante cose da dimenticare, possiamo soltanto andare zoppicando verso il futuro.
La vera gratitudine spirituale abbraccia tutto il nostro passato, gli eventi buoni come quelli cattivi, i momenti gioiosi come quelli tristi. Dal punto in cui stiamo, ogni cosa che è avvenuta ci ha portato a questo momento, e vogliamo ricordarlo tutto come una parte della guida di Dio. Questo non significa che tutto quello che è accaduto in passato sia buono, ma significa che anche il male non è avvenuto al di fuori dell’amorevole presenza di Dio.
La sofferenza di Gesù stesso gli fu imposta dalle forze delle tenebre, eppure egli parla della sua sofferenza e della sua morte come del suo cammino verso la gloria.
È molto difficile riuscire a portare tutto il nostro passo sotto la luce della gratitudine. Vi sono tante cose di cui ci sentiamo colpevoli e proviamo vergogna, tante cose che semplicemente vorremmo che non fossero accadute. Ma ogni volta che abbiamo il coraggio di guardare «tutto» e di guardarlo come Dio lo vede, la nostra colpa diventa una felice colpa e la nostra vergogna una felice vergogna, perché ci hanno portato a un riconoscimento più profondo della misericordia di Dio, a una convinzione più forte della guida di Dio, a un impegno più radicale per una vita al servizio di Dio.
Quando tutto il nostro passato viene ricordato con gratitudine, siamo liberi di essere mandati nel mondo a proclamare la buona notizia agli altri. Come il rinnegamento di Pietro, una volta perdonato, non lo ha paralizzato, ma è diventato per lui una nuova fonte di fedeltà, così tutti i nostri fallimenti e tradimenti possono essere trasformati in gratitudine e renderci capaci di diventare messaggeri di speranza.
Sei: Le benedizioni dei poveri
Jean Vanier, il canadese che ha fondato una rete internazionale di comunità per persone mentalmente disabili, ha osservato più di una volta che Gesù non ha detto: «Beati coloro che si curano dei poveri», ma «Beati i poveri». Per quanto semplice questa osservazione possa sembrare, essa ci dà la chiave del Regno.
Io voglio aiutare. Voglio fare qualcosa per le persone che ne hanno bisogno. Voglio offrire consolazione a quelli che sono nel dolore e alleviare le sofferenze di chi patisce. Certo, non vi è nulla di sbagliato in questo desiderio. È un desiderio nobile e pieno di grazia.
Ma se non comprendiamo che la benedizione di Dio mi viene da coloro che voglio servire, il mio aiuto avrà vita breve e presto verrà «bruciato».
Com' è possibile continuare a occuparsi dei poveri quando i poveri diventano sempre più poveri? Come è possibile assistere i malati quando la loro salute non migliora? Come posso continuare a consolare i morenti quando la loro morte non fa che portarmi altro dolore? La risposta è che tutti hanno in serbo una benedizione per me, una benedizione che ho bisogno di ricevere. Il ministero è innanzi tutto il ricevere la benedizione di Dio da coloro ai quali rendiamo il nostro servizio.
Che cos'è una benedizione? È intravedere il volto di Dio. Vedere Dio: è questo il cielo! Possiamo vedere Dio nel volto di Gesù, e possiamo vedere il volto di Gesù in coloro che hanno bisogno delle nostre cure.
Una volta ho chiesto a Jean Vanier: «Come trovi la forza di vedere tante persone ogni giorno e ascoltare tutti i loro problemi e le loro pene?». Egli mi sorrise dolcemente [ricordi Madre Teresa, GP II, don Bosco…?] e mi disse: «Essi mi mostrano Gesù e mi danno vita».
Sta qui il grande mistero del servizio cristiano. Coloro che servono Gesù nei poveri saranno nutriti da colui che servono: «Si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Luca 12,37).
Abbiamo tanto bisogno di una benedizione. I poveri sono in attesa di benedirci.
Sette: Il dono di Adamo
Soltanto gradualmente scopriamo le benedizioni che i poveri hanno da offrire a coloro che si prendono cura di loro. Questo mi è diventato chiaro un giorno quando padre Bruno, ex abate di un monastero contemplativo (!), è venuto alla Comunità Daybreak dell'Arca per passare qualche mese con noi. La comunità gli chiese di stare in una delle case chiamata la «Nuova casa» e di prendersi cura di Adamo.
Adamo è un uomo gravemente handicappato; non può parlare e non può camminare da solo, non riconosce singolarmente le persone e non è neppure capace di comunicare a segni. Ha un costante bisogno di aiuto in ogni cosa. Alzarsi, fare il bagno, vestirsi, lavarsi i denti, radersi e pettinarsi. La sola cosa che è capace di fare da solo è mangiare! Ama mangiare e, con il cucchiaio tenuto saldamente in mano, si porta il cibo dal piatto alla bocca. Può anche tenere un bicchiere o una tazza e bere il latte o una spremuta da solo.
Bruno si era affezionato ad Adamo. Gli dedicava tutto il suo tempo e la sua attenzione. Per tre mesi Bruno e Adamo hanno vissuto in un'intima compagnia.
Quando Bruno se ne andò, venne a trovarmi e mi disse: «Come abate ho tenuto molte conversazioni sulla vita spirituale e ho cercato di viverla io stesso. Ho studiato “La nube della non conoscenza” e altri scritti mistici: avevo sempre saputo che dovevo svuotare me stesso per Dio, lasciando che mi abbandonassero gradualmente pensieri, emozioni, sentimenti e passioni che m'impedivano la profonda comunione a cui anelavo. Quando ho incontrato Adamo, ho incontrato un uomo considerato dal mondo una persona gravemente disabile, ma che era stato scelto da Dio per essere portatore della profonda grazia della presenza di Dio. Trascorrendo le mie ore e le mie giornate con Adamo mi sono sentito trasportato in una profonda quiete interiore.
Nel «vuoto» di Adamo mi era presente - come lo era stata per altri - la pienezza dell' amore divino, una possente attrazione verso la vita mistica; cioè una vita in comunione con Dio».
Le parole di Bruno mi hanno profondamente commosso e mi hanno reso consapevole che Dio aveva mandato Adamo a Bruno per esserne la guida spirituale (!!!).
Otto: A due a due
Viaggiare è di rado un bene per la vita spirituale. Specialmente viaggiare soli. Aeroplani, aeroporti, autobus e pullman per il terminal, treni e stazioni ferroviarie piene di gente che si sposta qua e là, con una confusione di riviste, libri e oggetti inutili: è tutto troppo, troppo sensuale e distraente perché si possa concentrare il cuore e la mente su Dio. Quando viaggio solo mangio molto, bevo molto e mi guardo molto intorno. Lascio intanto che la mia mente veleggi verso luoghi insani e immaginari, e lascio che il mio cuore sia trasportato da emozioni e sentimenti confusi.
Gesù non vuole che viaggiamo soli. Egli ci manda a due a due, dicendo: «Ecco, vi mando come pecore in mezzo ai lupi, siate astuti come serpenti e semplici come colombe».
Dato che vivo nella Comunità Daybreak, una comunità di persone mentalmente disabili, di rado viaggio da solo. La comunità mi manda fuori con Bill, Francis, David, Peter e tanti altri membri handicappati, non tanto perché loro amino viaggiare, ma anche perché ho bisogno del loro sostegno. Viaggiare insieme sposta radicalmente il significato dei miei viaggi. Anziché spostamenti per andare a fare una conferenza, diventano missioni; anziché situazioni piene di tentazioni, diventano avventure spirituali; anziché momenti di solitudine, diventano opportunità di comunione.
Le parole di Gesù - «dove due o tre sono radunati nel mio nome, qui vi son io in mezzo a loro» - sono diventate molto reali per me. Insieme siamo ben protetti contro le potenze di seduzione che ci circondano e insieme possiamo rivelare qualcosa di Dio che nessuno è in grado di rivelare da solo. Insieme, davvero possiamo essere astuti come serpenti e semplici come colombe.
Fonte: Henri J.M. Nouwen, Vivere nello Spirito (titolo originale Here and now. Living in the Spirit)
[1] Espresso in modo bellissimo al n. 5 e in tutta la 1° parte di Deus Caritas est
Henri Jozef Machiel Nouwen
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