Sansone, ovvero quando l'uomo abbandona Dio... La storia di Sansone non è una vicenda esemplare dal punto di vista vocazionale, tuttavia è assai vicina alla “verità” di ogni vocazione, almeno sul versante umano.
del 04 aprile 2011
          La storia di Sansone è una storia triste. Così triste che è un po’ anche emarginata; è raro, infatti, che questa vicenda venga raccontata negli incontri vocazionali, nei campi-scuola, nelle proposte varie educative. Storia narrata, non laudata, come dice sant’Agostino, eppure è anche una storia vivace e intensa, dai sentimenti netti ed estremi, con tratti umani e divini, classici in questo tipo di racconti, e pure inediti.
          E che sarebbe un peccato non rilevare e lasciar cadere nell’oblio. Poiché potrebbero essere tratti non solo antichi ma anche moderni. E riguardare anche la storia attuale, di ciascuno di noi sempre in guerra con qualche Filisteo.
 
“Concepirai e partorirai un figlio…”
          Manoach aveva la moglie sterile: su entrambi scende la benedizione del Signore che promette loro un figlio, e un liberatore (un “giudice”) a Israele che in quel momento era oppresso dai nemici Filistei. È dunque il figlio della promessa e con un grande progetto divino sulla sua persona; infatti è consacrato a Dio dalla nascita (è un “nazireo” e per questo non gli verranno tagliati i capelli) e reca un nome solenne (in ebraico Sansone significa “sole”).
          È il tratto classico di ogni vocazione, che è anzitutto intervento di Dio nell’impotenza dell’uomo, vita divina che fa vivere l’uomo; e poi sguardo del Creatore sulla creatura: sguardo che vede lontano, che arriva dove gli occhi umani non potranno mai arrivare, che svela l’uomo a se stesso aprendogli una strada del tutto impensata. È così che Gesù chiama Pietro, vedendo in Simone-il-pescatore Pietro-la-roccia, su cui edificherà la sua Chiesa; è così che Gesù chiama Giovanni intravedendo in quel giovane il discepolo che appoggerà il capo sul suo cuore e che avrà poi il coraggio di seguirlo in cima al Calvario, ma soprattutto l’innamorato che intuirà la più folgorante definizione di Dio (“Dio è amore”). Lo sguardo di Gesù è uno sguardo creatore: mi guarda e vede in me un tesoro sepolto, nel mio inverno vede grano che matura, una generosità che non sapevo di avere, strade nel sole, luce di orizzonti sconfinati (E.Ronchi).
“Lo spirito del Signore cominciò ad agire su di lui”
          Sansone nasce, cresce, è benedetto da Dio che ripetutamente “irrompe” su di lui col suo spirito: per tre volte, prima dell’epilogo finale, l’autore sacro osserva che lo spirito del Signore agisce su Sansone (Gd 14,6.19; 15,14), poiché vuole sottolineare che è questo “spirito” l’origine della sua forza straordinaria. Di ciò Sansone è consapevole, come dimostrerà alla fine quando la chiederà nuovamente al Signore (“dammi forza ancora per questa volta…”). Peccato che la usi a modo suo, come un uomo violento e astuto, e per la sua personale affermazione, anche a costo di essere vendicativo e feroce. Egli infatti non porta avanti una vera liberazione secondo il disegno divino: attua colpi di mano, grazie alla forza prodigiosa che Dio gli ha dato, ma la sua condotta non è quella di un pio israelita. Sansone, il forte, è in realtà un debole, che infatti viene traviato e ingannato dalle donne, perdendo così anche la sua forza fisica, quell’energia prodigiosa ricevuta da Dio.
 
“Il Signore si era ritirato da lui”
          In Sansone avviene il contrario di quanto avviene in tanti uomini di Dio, da lui chiamati e a lui fedeli, consapevoli di tutta la loro debolezza e indegnità, che arrivano al punto di vivere la loro stessa debolezza come forza misteriosa che viene da Dio e che si manifesta proprio nell’impotenza umana. Pensiamo a Paolo, prima tentato di liberarsi della sua propria povertà, e poi capace di vantarsi di essa (“quando sono debole è allora che sono forte”, 2Cor 12,10). In Sansone avviene come il processo opposto: era forte e si vantava della sua forza, al punto da presumere di sé e prendersi gioco degli altri, quasi dimenticandosi di Colui che lo aveva reso forte e del fine che gli aveva fissato. E finisce per perdere la sua forza e ritrovarsi debole, abbandonato da Dio e umiliato dagli uomini, lui Sansone-sole, privato della luce degli occhi!          A dire il vero, però, non è Dio che si sia ritirato da lui, ma è Sansone che ha tradito l’amore e la  chiamata che Dio gli ha rivolto. E così facendo, ha anche sciupato i suoi doni. È rischio e terribile tentazione per ogni chiamato: usare il dono ricevuto per sé e non per il progetto pensato da Dio. Come un abuso o un aborto vocazionale.
 
“Signore Dio, ricordati di me! Dammi forza ancora per questa volta…”
          Come la straordinaria forza di Sansone era dovuta alla presenza dello spirito di Dio, così la sua debolezza è il segno che il Signore lo ha abbandonato. Il taglio dei capelli segna la fine della condizione di “nazireo” e, quindi, di consacrato a Dio. L’infedeltà di Sansone, l’abbandono del Signore, la vergogna cui è sottoposto e la sconfitta personale che diventa anche quella di tutto il popolo, non sono però l’ultima parola. Quando il figlio di Manoach ritorna a invocare il Signore, questi lo ascolta, perché non si è dimenticato della sua parola, non si è pentito della chiamata, e gli concede in qualche modo di rientrare nel suo progetto sconfiggendo, per l’ultima volta, i nemici d’Israele.          Non è una storia esemplare, dunque, quella di Sansone, per quel che ci racconta dell’uomo, ma lo è per quel che ci dice di Dio: un Dio disposto a concedere una forza immensa, che viene da lui, a una sua creatura pur di salvare il suo popolo, al di là delle meschinità e ottusità umane; un Dio che crede fino all’ultimo nell’uomo e non ritira la sua parola; un Dio che è sempre più forte di tutti i Filistei di turno che opprimono la nostra vita; un Dio che non ti abbandona mai, semmai sei tu che lo abbandoni.
 
 
Amedeo Cencini
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