Don Angelo De Donatis, attraverso le indicazioni di Evagrio Pontico cerca di definire questa malattia della vita spirituale, consegnandoci dei rimedi pratici per combatterla!
Affrontiamo oggi il tema della vita spirituale, attraverso l’analisi di una malattia della vita spirituale. Ci domandiamo come affrontarla, anche se poi rispunta sempre. E’ una dimensione negativa che troviamo, ma che va affrontata. La tradizione della Chiesa la chiama l’ “accidia”.
Seguiremo le indicazioni di Evagrio Pontico, un maestro del IV secolo – ed, insieme, del Bunge, un autore moderno che ha affrontato lo stesso tema, studiando Evagrio.
Evagrio chiama l’accidia il “demone del mezzogiorno”, perché è la tentazione che assale il monaco a metà della giornata, quando l’entusiasmo viene meno, quando l’ardore si è spento.
Questo “mezzogiorno” che è anche il mezzogiorno della vita, quando ad un certo punto, l’entusiasmo viene meno, quando non c’è più la gioia profonda di fare una cosa, la gioia di vivere. Ecco perché Evagrio Pontico dice che questo è un demone pericolosissimo.
Noi tante volte traduciamo “accidia” con “pigrizia”. Ma non è la pigrizia, è proprio un disgusto, quando non ti va di fare più niente, quando sei svogliato perché ti è passata proprio la voglia di impegnarti, di andare a fondo alle cose.
Evagrio enumera delle manifestazioni di questo atteggiamento spirituale che adesso per intenderci chiamiamo pigrizia, ma che è molto più profondo della pigrizia.
Evagrio dice: “A volte si ha una paura esagerata degli ostacoli che si possono incontrare”. C’è quasi una paralisi: mi spavento, ho paura di questi ostacoli e mi paralizzo.
Oppure c’è un’avversione a tutto ciò che costa fatica. Sento proprio una repulsione; non mi va perché so che una cosa mi impegna nella fatica e quindi la rifiuto.
Andando avanti, Evagrio dice ancora che c’è una negligenza nell’osservare l’ordine, le regole, mi ribello a questo.
Oppure un’instabilità nel bene. Magari ho scelto di fare delle cose buone però non sono costante, non sono fedele a questo. C’è un’instabilità continua.
Andando avanti, Evagrio parla dell’incapacità di resistere alle tentazioni. L’avversione verso quelle persone che sono veramente zelanti e che diventano odiose proprio perché fanno sempre le cose per bene, sanno osservare le regole.
Un altro sintomo di questa malattia è la perdita di tempo prezioso oppure la libertà che viene concessa ai sensi, alla curiosità, al piacere di divertirsi, di usare di tutto.
L’ultima cosa: la negligenza nei principali doveri del proprio stato. La dimenticanza di vivere quella che è la missione specifica del mio stato, che io sia sposato o sacerdote ecc. e la dimenticanza del fine ultimo della vita. Sono sintomi che riguardano questo tipo di situazione che non è senz’altro bella. La descrizione è quindi negativa e a tutti noi verrà voglia di dire a noi stessi in quali di questi sintomi ci riconosciamo.
S.Bernardo definiva questa accidia, che lui chiamava tiepidezza, l’ombra della morte. Il tiepido assomiglia ad una vigna non coltivata, una vigna che è stata abbandonata. Il tiepido è così: è una casa senza porta, senza chiusura. Qualcun altro ha detto: “E’ un verme che nella radice divora dal di dentro”. Divora soprattutto le virtù principali anche se esternamente la vita continua apparentemente come prima.
Un’altra immagine del pigro a livello accidioso, è quella di colui che nasconde i talenti sotto terra, o la persona non troppo buona né troppo cattiva alla quale si applicano le parole tremende dell’Apocalisse: “Conosco le tue opere, non sei né freddo né caldo, magari tu fossi freddo o caldo, ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca”.
Questi sono i sintomi generali secondo Evagrio Pontico. Se ne vogliamo esaminare qualcuno in maniera specifica, possiamo vedere che uno dei primi sintomi di cui ci accorgiamo quando siamo attaccati da questa tentazione è che c’è una certa irrequietezza interiore. Abbiamo bisogno di cambiare, non ci accontentiamo di rimanere stabili, in una scelta, in una situazione. Ci viene voglia di cambiare casa, lavoro, amicizie, compagnie. Questo è tipico di questa situazione. Non portiamo avanti un lavoro che abbiamo iniziato, ne iniziamo tanti ma non li concludiamo, lo facciamo anche con i libri. Li iniziamo e li lasciamo lì. Il più delle volte non ci rendiamo conto di quello che ci sta accadendo e ci inventiamo tanti motivi per dire che è bene cambiare. Siamo abili in questo, facciamo un sottile ragionamento per trovare tutti quegli aspetti che ci portano a dire che è una cosa giusta non rimanere in questa decisione, che dobbiamo cambiare.
Evagrio menziona più volte questa tentazione del cambiamento perché, ritornando nell’ambiente monastico, era tipica dell’anacoreta, perché l’eremita è esposto all’irrequietezza. Ti viene voglia di scappare, di cambiare, quando sei nella solitudine. Ecco perché un aspetto tipico del monaco è proprio la stabilità, perché essere stabili in un posto significa che c’è anche una stabilità interiore, che non mi lascio prendere dall’irrequietezza continua. Il desiderio di vagabondare fisico è la manifestazione di un disagio che vivo dentro, di un vagabondare dei pensieri, un essere instabili nelle scelte che abbiamo fatto. Ecco perché l’anacoreta fissa il suo corpo nella sua cella e soprattutto i suoi pensieri nel ricordo di Dio. Questa è la vera stabilità, quella che S.Benedetto richiede ai suoi monaci.
I pretesti per un trasloco sono diversi da persona a persona. Ognuno di noi è fatto in modo diverso ed ognuno di noi si inventa delle cose particolari quando è preso dall’accidia per poter giustificare il cambiamento che desidera realizzare. Questa irrequietezza può vestirsi di argomenti sottili. Viene descritto per esempio per il monaco questo aspetto dell’umidità della cella. Siccome questa cella è umida o esposta poco al sole, devo cambiare. Oppure c’è un’altra dimensione. A volte l’accidia si manifesta con una preoccupazione eccessiva per la salute fisica. Diventa quasi un’ossessione. Queste sono spesso manifestazioni dell’accidia, questo timore della malattia..
La tentazione di considerare il lavoro improvvisamente come la causa del proprio malessere. Questo può capitare a volte. La professione svolta con tanta serenità fino al giorno prima diventa un peso opprimente. Non lo sopporto più, mi costa tantissimo andare la mattina a lavorare.
A volte sento che colpevoli della mia infelicità possono essere considerati gli altri, i superiori o i colleghi che diventano odiosi; non li sopporto più. L’accidioso si ricorda improvvisamente - questo aspetto è tremendo - con dolorosa precisione, di tutte le ingiustizie che ha subito da parte degli altri, o che pensa di aver subito, perché non sempre sono oggettive. Però l’accidioso le richiama tutte perché lui crede di aver subito questi torti o magari oggettivamente li ha anche subiti, però è puntiglioso nel ricordarli tutti, con grande precisione.
Evagrio dice che l’accidioso è addolorato dal pensiero che l’amore sia sparito fra i fratelli e che non ci sia nessuno per consolarlo. E’ tipico questo, quando uno vive questo stato d’animo. Tutto crolla, nessuno riesce a manifestare un amore. A volte anche nelle comunità parrocchiali diciamo: “Mi ero avvicinato pensando di trovare chissà quale ambiente, ma qui non c’è nulla”.
E’ comprensibile che in particolar modo chi vive il celibato possa pensare che la fonte della propria infelicità sia proprio il celibato, la mancanza di affetti veri, la convinzione di non avere nessuno che si prenda cura con amore di noi. Io però direi che questa è l’esperienza di tutti, non solo dei celibi, ma anche delle persone sposate.
Ma il vero motivo della depressione non sta nell’altro: non è l’altro che me la causa, non è perché l’altro non si prende cura di me o non mi ama. Non è questo. Non si capisce che si è invischiati in una stranissima lotta con se stessi. L’avversario non è l’altro, l’avversario sono io. E’ con me stesso che me la prendo: non è l’istituzione, non è il celibato o il coniuge o i compagni, ma solo il mio Io ferito da quell’amor proprio, da quello che i Padri chiamavano, con una parola interessante, la philautìa, la tenerezza per noi stessi. Quando ci trattiamo con troppa tenerezza poniamo il terreno sul quale fiorisce l’accidia.
C’è un metodo collaudato per sfuggire a questo tormento, almeno in apparenza, che è il divertimento e la distrazione. Non penso, così scappo da questa situazione e la copro. Ma non si risolve così, lo sappiamo.
Siccome il vizio non è bello generalmente, per essere accettato deve coprirsi con qualche maschera più accettabile, perché è talmente brutto che deve camuffarsi. Qui avviene una cosa interessante: noi non staremmo mai in compagnia di un accidioso e così il vizio si nasconde sotto qualche velo di virtù.
Evagrio dice che l’accidioso adduce come pretesto visite ad ammalati. Di fatto soddisfa solo la sua intenzione. Il monaco accidioso è pronto a servire, a donarsi, a fare qualcosa per l’altro e considera la propria soddisfazione come un dovere. Cosa avviene quindi? Siccome sono in questa situazione difficile di vuoto, di pesantezza, questa irrequietezza deve trovare uno sbocco e quindi mi butto nell’attivismo. Devo trovare un canale e allora mi illudo che questa sia la virtù cristiana dell’amore, ma non ha niente a che fare con l’amore. Sono io che ho bisogno di quell’attivismo per riempire il mio vuoto, ma questo non è la carità, l’agape di cui ci parla il papa nell’enciclica appena uscita. Questo è un errore pericolosissimo, l’illusione dell’agenda piena. Siccome sono impegnato non ci penso più alle cose profonde, alle cose che mi prendono e che dovrebbero essere considerate in altro modo. Questo attivismo mi impedisce di vedere il mio vuoto interiore. Questa tendenza è pericolosa perché a volte si copre di scopi elevati. Per questo Evagrio dice che il monaco, pur di non stare nella sua cella, pensa: “Vado a trovare il fratello che è malato”. Apparentemente è una cosa santissima, ma la motivazione non è altrettanto santa. Non parte da un’autentica carità.
Qualcuno potrebbe pensare che sono finezze a livello spirituale però, se ci pensiamo bene, sono cose importanti da vedere con calma e serenità. Questo non è un discorso per demoralizzare, ma per far crescere. Questa è la prospettiva: intervenire dove qualcosa non si è incanalata per il verso giusto. Perché quando c’è esagerazione nella vita, quando siamo esagerati, ricordiamoci che lì c’è sempre in azione il nemico. Le forme di esagerazione nascondono sempre qualcuno che ci porta fuori strada. Il demonio è amico di ogni forma di esagerazione.
E c’è anche un criterio sicuro per distinguere il vero amore del prossimo che, per Evagrio, si manifesta sempre come mitezza. L’amore vero è sempre mite e allora per Evagrio il vero amore si riconosce dai frutti. L’amore quando è vero rende la persona amabile, serena, amorevole. L’attivismo che nasce dall’accidia rende invece amari e impazienti. Una persona si può fare in quattro, ma alla fine della giornata non è contenta, mentre l’amore vero, anche se sei stanchissimo la sera, ti lascia una grande pace. L’amarezza che sentiamo alla fine delle nostre giornate, a volte per aver fatto tanto, nasce quindi da questo tipo di tentazione, non dal lavoro fatto. Perché il lavoro fatto serenamente lascia una grande pace, mentre l’amarezza nasce quando ho fatto tutto quello che dovevo fare ma non con le motivazioni giuste, quelle dell’agape, dell’amore. E’ una bellissima distinzione quella che Evagrio offre per capire da dove nasce il servizio, la dedizione agli altri.
L’accidia diffonde anche l’indolenza che si manifesta in trascuratezza e pigrizia dei propri doveri. Da qui il minimalismo che è la tentazione tipica dell’accidia. Possono capitare momenti della nostra vita in cui ci troviamo in un umore particolarmente nero: tutto ci pesa, ci sembra eccessivo. Ci sono incombenze che magari in altri momenti della nostra vita abbiamo svolto con facilità che in quel momento in cui l’accidia ha preso il sopravvento ci sembrano macigni. Ma si può oscillare da questo minimalismo al massimalismo distruttivo (agenda piena). E’ un pendolo che va da una parte all’altra.
Evagrio pone un criterio di discernimento che è l’intenzione. Su questo tutti dovremmo lavorare di più, tutti! Vedere quale intenzione c’è alla base di ciò che facciamo o tralasciamo. Si tratta di vedere se facciamo il bene per se stesso oppure se lo strumentalizziamo in vista di scopi egoistici. Questa è una verifica che ciascuno può portare avanti.
L’egoismo in tutte le sue forme altro non è che l’innamoramento di noi stessi che sta alla radice di ogni male. Ecco perché citavo quella parola che usavano i Padri, la philautìa, l’essere troppo innamorati di se stessi. Quale frutto viene quando si va avanti su questa strada? Lo scoraggiamento, che è una cosa tremenda. E’ perdere la speranza.
Nascono i dubbi. A volte, anche sulla vocazione che si vive, uno si chiede: “Forse non era la mia strada, ho sbagliato tutto”.
Sono dubbi che si insinuano lentamente e, se non vengono bloccati, cercano di corrodere la nostra fiducia come una goccia che scava una roccia. E’ facile per il nostro nemico convincere la persona accidiosa che ha sbagliato tutto per quanto riguarda la sua vocazione, perché le motivazioni che lo hanno spinto a scegliere quella strada sono tutte di ordine naturale, non soprannaturale. E’ lui che si è industriato, ma non era cosa che veniva da Dio.
Romano Guardini descrive bene la situazione di scoraggiamento provocata dall’accidia: “La persona fatta così non si riconosce nessuna qualità o capacità, è persuasa di essere da meno degli altri, di non essere nulla, di non sapere nulla, non già perché sia dotata insufficientemente e neppure abbia subito degli insuccessi. E’ piuttosto una convinzione a priori che non si riesce mai a togliere di mezzo definitivamente, neppure con la buona riuscita e il successo. In ogni sconfitta si legge poi confermata la disistima di sé al di là della portata reale della sconfitta stessa”. E’ un andare sempre in discesa, questa dimensione di scoraggiamento e disistima di se stessi.
Enzo Bianchi dice che è una specie di asfissia, un soffocamento dell’anima che condanna l’uomo all’infelicità, portandolo a disdegnare ciò che ha, la situazione che vive, il proprio lavoro, la propria professione, la situazione affettiva. Sogna un’altra cosa, irraggiungibile, che non esiste. Questo causa fuga dalla realtà, illusione, deliri.
Ma qual è la causa? Perché si arriva a questa situazione? Come mai la persona può arrivare a questo tipo di depressione, di tristezza? Le cause sono tante - non è neanche il mio campo - potrebbero essere molte. Dal punto di vista spirituale vorrei, però, che fosse chiara solo una cosa. Il terreno fertile per questa situazione è questo amore smodato per noi stessi, la troppa tenerezza per noi stessi. Non dimentichiamocene perché quando siamo troppo amici di noi stessi questo può tradursi addirittura in qualcosa di non buono.
Perché l’Io ad un certo punto prende il posto di Dio. Questo amore di sé è il vero idolo che minaccia la nostra vita, è l’idolo più seducente, il più sottile. Perché va avanti il nostro progetto, il nostro cammino. Tutto diventa intaccato dall’idolatria. Se Dio non è più il Signore della nostra vita, l’Io diventa il nostro Signore. E i frutti sono questi. E’ l’idolatria più tremenda perché il centro assoluto del mondo diventiamo noi, non Dio e si comincia a valutare ogni cosa in funzione dei propri bisogni, della propria idea, dei propri desideri, dei propri giudizi. In questo modo si sviluppa una brama di potere che vizia alla base ogni relazione con gli altri. Perché si vive nel regime della preda, del possesso, e non del dono di sé.
Credo che alla luce di questo sia veramente bello meditare in questi giorni sull’enciclica che ci è stata donata dal nostro Vescovo, il Papa. E tutto questo non si esprime necessariamente nel bisogno effettivo di comandare o dominare sugli altri. Questo ripiegamento su di sé può trasformarsi benissimo in una smodata preoccupazione di sé, in indifferenza, disprezzo, mancanza di interesse. Tutte porte aperte per l’accidia. Questo è il terreno su cui fiorisce questa malattia. Ecco perché forse in passato i formatori avevano una buona vigilanza su questo aspetto, poi ci siamo lasciati prendere troppo dalla preoccupazione per lo “stare bene” della persona, per il non avere disagi. Questo ci ha portato a questi risultati.
Questo terreno che è la philautìa, l’amore per se stesso passa per i due poli che abbiamo visto, o l’attivismo, il massimalismo, o il minimalismo. O l’ozio o il sovraffaticamento. Coprendo questo sovraffaticamento con la copertura della carità, con la scusa che è bene per gli altri, mentre sentiamo che l’amarezza sopravanza.
Accenno ora ai rimedi dell’accidia: niente di eccezionale ma quello che la Chiesa da sempre ha proposto. Prima di tutto la pazienza. Intesa come capacità di resistenza. Siccome l’irrequietezza porta a cambiare luogo, situazione, io devo mettere qualcosa che va contro quello stato d’animo che si crea. E’ importante che ci sia questa virtù della pietra, il rimanere. Io lo racchiudo in una parola che nella Bibbia è fondamentale: l’ “eccomi”. “Eccomi” significa ci sono: io non scappo, non desidero una situazione diversa da quella che sto vivendo. Non posso dire: “Se avessi un’altra famiglia, un’altra parrocchia, altri amici, altre relazioni, chissà cosa potrei fare”. Questo è un inganno, un’illusione. La cosa principale è quindi rimanere in quella situazione. Dire “eccomi” vuol dire dunque che io non sto fuggendo nei miei deliri, nella mia illusione. Credo che sia molto importante questa dimensione della pazienza. Perché sintetizza la condizione del cristiano nella storia. Deve essere accolta come via normale di maturazione, in attesa dell’incontro con il veniente, con colui che ci darà la pienezza. La pazienza è la fermezza che fa restare quello che si è, qualsiasi cosa succeda, la pazienza del contadino. La pazienza di attendere, non importa se a lungo.
La seconda via di guarigione è la stabilità. Intesa come diceva S.Benedetto, questo rimanere stabili dentro soprattutto. Anche se poi richiede una stabilità nel tempo e traduce in fondo la pazienza. Rimanere stabile è già una risposta.
C’è poi una stabilità nello spazio naturalmente, per non fuggire lo spazio che ci circonda. Perché anche questa sarebbe, secondo i Padri del deserto, una fuga da se stessi. Dice un detto dei Padri del deserto: “Va’, rimani nella tua cella e la tua cella ti insegnerà ogni cosa”. Questo si traduce in una stabilità del cuore perché si crea comunione con gli altri. Una cosa è fuggire quando c’è difficoltà di relazione, altro è affrontarla ed approfondire quella relazione. Si diventa più maturi e la relazione stessa diventa più bella quando ha superato una certa fatica, una certa difficoltà. Anche la stabilità nello spazio è importante.
La quarta dimensione è la preghiera, vissuta soprattutto come preghiera semplice: la preghiera fatta nell’attesa deve essere semplice, a volte fatta con le lacrime. Evagrio dice: “Invoca il Signore nella notte con lacrime e nessuno si accorga che stai pregando, e troverai grazia”. Qui il richiamo alle lacrime è fondamentale perché le lacrime sono l’espressione di un passaggio da una tristezza negativa ad una tristezza secondo Dio. Ci sono due tipi di tristezza. Uno può essere veramente scoraggiato, senza speranza, nella depressione più nera, oppure triste perché consapevole dei propri limiti ma fiducioso al massimo della misericordia e dell’amore di Dio. Le lacrime segnano questo passaggio da una tristezza senza Dio a una tristezza secondo Dio. E’ la famosa contrizione del cuore, che è un’esperienza spirituale fortissima, perché le lacrime ci fanno prendere coscienza delle nostre ferite più intime, ma quelle ferite non sono causa per rimanere ripiegato su me stesso, incartato, ma il luogo della mia povertà per cui mi apro di più a Dio proprio in quella situazione.
Mi ricordo P. Tomáš Špidlík, che è venuto anche qui per un incontro con voi. Avete conosciuto questo patriarca stupendo. Lui mi raccontò una volta per farmi capire cos’è la contrizione del cuore, la tristezza secondo Dio, l’episodio di un signore che era andato via di casa. Un signore che si ubriacava, maltrattava la moglie e che ad un certo punto se ne era andato con un’altra donna. Dopo anni la moglie ritrova il marito per strada che era diventato un barbone. Lo prende, lo porta a casa, lo ripulisce, gli dà da mangiare, lo cura come se niente fosse. E lui, diceva padre P. Špidlík, passa i suoi giorni guardando sua moglie e piangendo. Questa è la tristezza secondo Dio, il dolore di sentire che è una situazione di limite, di peccato, ma di sentirsi amato. Il frutto delle lacrime nasce proprio dall’esperienza della misericordia che faccio su di me. Ma è importante che ci sia una preghiera semplice. La preghiera del cuore qui può andare bene. Conoscete i “Racconti del pellegrino russo”? La preghiera potrebbe essere allora: “Gesù abbi pietà di me che sono un peccatore”. Perché siccome l’accidia porta a sviluppare un pensiero complicato e a ricamarci sopra, non devo fare preghiere troppo impegnative, ma una preghiera semplice, affettiva, che mi aiuti ad andare avanti.
C’è poi il tema della vigilanza, molto importante nel vangelo. E’ una parola che torna tantissime volte. Ci facevo caso: nel vangelo non si usa mai la parola virtù, non c’è la parola difetto, non c’è esame di coscienza, ma più volte troviamo “siate vigilanti”. Questa è la condizione di fondo della vita cristiana, perché occorre avere questo atteggiamento che previene le situazioni. Essere attenti, essere svegli, non addormentarsi nella vita perché il sonno, lo sappiamo, è simbolo del peccato, dell’addormentarsi, del non accogliere il Signore. Custodire il cuore: che ci sia un portinaio davanti al cuore per non far entrare certi pensieri.
Il sesto rimedio è la memoria mortis, avere la coscienza della morte, la consapevolezza che la vita è qualcosa che va vissuta come pellegrino. Devo avere questa coscienza della mia fragilità e della mia mortalità. Questa è un’arma contro la tiepidezza. Se non sbaglio è Mozart che dice: “Non c’è stato giorno della mia vita che io non abbia pensato alla morte”, come chiave di interpretazione della vita. Questo è molto bello, non ha niente a che fare con pensieri tristi e brutti, ma è per vivere con pienezza l’oggi, perché la luce per l’oggi la devo attingere dall’eternità, dalla vita eterna.
L’altro rimedio è stato già citato, è l’apertura del cuore al padre spirituale. Che ci sia questa trasparenza, questo non avere pieghe dove nascondersi e dove nascondere gli altri, ma avere questa limpidezza e questa fiducia perché da solo non posso discernere tutti i pensieri che mi vengono e in che direzione stanno andando.
L’ultimo rimedio è il lavoro. Il lavoro è fondamentale. Sono andato a trovare un eremita due anni fa e lui mi ha fatto vedere che sta ricostruendo il suo eremo vicino Cascia. Sta facendo un lavoro con la pietra di bellezza straordinaria. E’ stato bello vedere la passione con la quale faceva questo lavoro, l’amore, l’entusiasmo. Il lavoro ha una grande funzione di guarigione, naturalmente se commisurato alle proprie forze. Anche qui non ci deve essere esagerazione. Evagrio dice: “Fissati una misura in ogni lavoro e non abbandonarlo prima di averlo portato a termine”. Ma con una misura, perché se si esagera si finisce di nuovo fuori pista. Il lavoro vissuto con serenità è un mezzo per vincere l’accidia.
Si racconta di S.Antonio Abate: “Un giorno il santo padre Antonio, mentre sedeva nel deserto, fu preso da sconforto, da accidia e da fitta tenebra di pensieri e diceva a Dio: O Signore, io voglio salvarmi, ma i miei pensieri me lo impediscono, che posso fare nella mia afflizione? Ora, sporgendosi un poco, Antonio vede un altro come lui che sta seduto e lavora, poi interrompe il lavoro, si alza in piedi e prega. Poi di nuovo si mette seduto ad intrecciare le corde e poi ancora si alza e prega. Era un angelo del Signore mandato per correggere Antonio e dargli forza. E udì l’angelo che diceva: Fai così e sarai salvo. E all’udire queste parole fu preso da grande gioia e coraggio. Così fece e si salvò”. Quindi l’armonia tra il lavoro e la preghiera. La misura giusta nel lavorare e nel pregare.
Come vedete non c’è niente di straordinario nei rimedi proposti, sono mezzi che già conosciamo e che vanno vissuti con molta costanza e fedeltà. Perché come ogni cura funzionano se c’è la fedeltà.
A cura di don Angelo De Donatis
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