Educare insieme nella scuola cattolica, missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici: oltre ad essere il titolo di un recente documento della Congregazione per l'Educazione Cattolica, sembra essere un programma o, meglio ancora, la definizione di un compito. La qualità propria della scuola cattolica non può che passare attraverso la via di una reale, e per quanto possibile anche strutturale, condivisione profonda di impegni e responsabilità tra laici e religiosi.
del 12 febbraio 2008
Educare insieme nella scuola cattolica, missione condivisa di persone consacrate e fedeli laici: oltre ad essere il titolo di un recente documento della Congregazione per l’Educazione Cattolica (1), sembra essere un programma o, meglio ancora, la definizione di un compito. Il testo è molto ricco e propone una vera e propria «visione» ampia della scuola cattolica. Quando si parla di scuola, oggi più che mai, c’è bisogno di prospettive ampie e aperte, perché il rischio è di cadere in tecnicismi che, seppure a volte necessari, rendono i discorsi sull’educazione asfittici e privi di anima. In Educare insieme la scuola è intesa come luogo di incontro, una sorta di piazza nella quale confluiscono e si incrociano persone che instaurano tra di loro relazioni di «forte condivisione» (n. 2): studenti, docenti e genitori. È un luogo di comunione in cui prende forma una vera e propria comunità educativa, «costruita sulla base di valori progettuali condivisi» (n. 5).
Valori, progetti e condivisione: sembrano questi i tre elementi indispensabili in una scuola cattolica. Tuttavia il documento afferma chiaramente che non si può prescindere dal fatto che in essa sia gli allievi, sia gli insegnanti provengono «da contesti culturali e religiosi differenti» (n. 5). Questa complessità «richiede un impegno di discernimento e di accompagnamento accresciuto» (n. 5). È necessaria una «forza connettiva» (n. 5), capace di collegare i fili di una situazione complessa. È l’appartenenza a Cristo e il «riconoscimento dei valori evangelici, assunti come norme educative, spinte motivazionali e insieme mete finali del percorso scolastico» (n. 5) a costituire questa forza. La scuola dunque diventa un privilegiato «luogo di esperienza ecclesiale», che è anche luogo di frontiera continuamente sollecitato dall’«evoluzione repentina e talora contraddittoria del nostro tempo». Insomma un ambiente speciale, da valorizzare nelle sue caratteristiche e sfide peculiari, uniche.
Per questo il documento, lì dove affronta il tema della formazione professionale del docente (nn. 21-25), dipinge un quadro molto esigente e impegnativo. Afferma, infatti, che essa «non solo implica un vasto ventaglio di competenze culturali, psicologiche e pedagogiche, caratterizzate da autonomia, capacità progettuale e valutativa, creatività, apertura all’innovazione, attitudine all’aggiornamento, alla ricerca e alla sperimentazione, ma esige anche la capacità di fare sintesi tra competenze professionali e motivazioni educative, con una particolare attenzione alla disposizione relazionale oggi richiesta dall’esercizio sempre più collegiale della professionalità docente» (n. 22). L’esigenza di questo profilo, che rasenta l’idealità, di-spiega tutte le caratteristiche imprescindibili di un buon docente. Tuttavia questa esigenza non è fine a se stessa, né risponde a un puro criterio astratto di qualità. Educare insieme intende fornire un profilo necessario per fare della scuola un luogo grazie al quale «è possibile discernere, alla luce del Vangelo, ciò che di positivo vi è nel mondo, ciò che occorre trasformare e anche le ingiustizie che occorre superare» (n. 46). Per questo impegno così coinvolgente è necessaria una preparazione molto attenta, nella quale la creatività e lo spirito di innovazione giocano un ruolo decisivo.
 
 
Al di là del funzionalismo: una missione condivisa
 
Il delicato rapporto tra vocazioni e competenze, tra fede e cultura, tra relazioni e apprendimento vede sullo stesso campo di questa «missione ecclesiale» (n. 15) l’azione di religiosi e laici. Essa è da intendersi, come si evince anche dal titolo, come «missione condivisa» (n. 20. 27. 32. 40). Questo appare, in realtà, il punto saliente del documento: affermare chiaramente che la missione della scuola cattolica è una missione condivisa tra le varie componenti ecclesiali, che uniscono «le loro forze, in atteggiamento di collaborazione e di scambio di doni» (n. 15), pur con tutte le differenze di formazione, compito, carisma, grado di partecipazione a questa missione, che «potrà essere diversificato in ragione della propria storia personale» (n. 5).
Si potrebbe ampliare la riflessione considerando che il Signore agisce e opera a largo raggio e, dunque, la collaborazione dei religiosi non è solo con coloro che esplicitamente e consapevolmente lavorano alla costruzione del Regno di Dio, ma anche con tutti coloro nei quali il Signore è all’opera anche senza che loro lo riconoscano in maniera chiara e distinta e che, con la loro azione, fanno crescere il Regno di Dio. Non ci sono limiti a tale collaborazione, che presuppone, per il suo riconoscimento, un fine discernimento e uno spirito di servizio umile. Infatti ciò implica innanzitutto scoprire come Dio lavori nelle persone che ci troviamo accanto e, quindi, comporta il saper mettere a disposizione se stessi. Occorre comprendere bene il valore della collaborazione così ad ampio raggio, perché ciò significa che il Signore ci chiama a vivere la collaborazione anche con una persona di altra religione o comunque «di buona volontà».
La visione dispiegata dal documento soprattutto dà un colpo di spugna a ogni forma di funzionalismo nel rapporto tra religiosi e laici nella conduzione delle scuole cattoliche. Infatti capita spesso che si consideri la presenza dei laici come un ripiego necessario dovuto al fatto che ormai spesso non sono molti i religiosi che possono dedicarsi direttamente all’insegnamento in scuole che fino a qualche decennio fa erano gestite quasi esclusivamente da persone consacrate. Leggiamo infatti che, «nella prospettiva della Chiesa-comunione», i «programmi di formazione alla condivisione della missione e della vita con i laici, nella luce del carisma proprio, vanno pensati e attivati anche dove le vocazioni alla vita consacrata sono numerose» (n. 29). I laici dunque partecipano alla missione educatrice della Chiesa offrendo «il contributo originale e insostituibile della loro piena soggettività ecclesiale» (n. 30).
Che cosa significa tutto ciò? Quali le ricadute? Innanzitutto che, al di là di ogni visione funzionale e restrittiva, è necessario avere una prospettiva ecclesiale ampia e considerare che il lavoro per il Regno di Dio vede all’opera molti operai con mansioni specifiche differenti. Ciascuno ha il proprio compito, e tutti svolgono un ministero proprio, spesso seguendo un carisma e operando come supporto gli uni agli altri.
 
 
Responsabilità e impegno sul campo
 
I religiosi non possono pensarsi come un corpo a sé stante: essi non bastano a se stessi nel lavoro apostolico. Il lavoro è comune, ecclesiale. Non va dunque sostenuto, con espressione troppo sbrigativa, che i religiosi collaborano con i laici né che i laici collaborano con i religiosi. È invece vero che religiosi e laici collaborano alla missione comune della costruzione del Regno di Dio. È dunque parziale e inesatto parlare di «collaborazione con» i laici. Il documento non usa mai tale espressione. Adopera invece l’espressione «collaborazione tra» (n. 6) fedeli laici e consacrati, che nella costruzione del Regno si trovano insieme perché chiamati dal Signore. Spesso si riconoscono anche legati da uno spirito comune, da una via spirituale nella quale si ritrovano, anche se con vocazioni differenti.
I religiosi possono offrire ciò che sono e ciò che hanno ricevuto: la loro tradizione spirituale e apostolica, le loro risorse in campo educativo e la loro amicizia. Offrono una spiritualità specifica come dono particolare per animare i ministeri laicali e la saggezza pratica che spesso hanno acquisito in secoli di esperienza apostolica. D’altra parte il documento, riprendendo l’esortazione apostolica Christifideles laici di Giovanni Paolo II, afferma che oggi può accadere che siano «gli stessi fedeli laici ad aiutare i sacerdoti e i religiosi nel loro cammino spirituale e pastorale» (n. 32). Un laico dunque può essere direttore di un’opera nella quale i religiosi ricevono la missio dal loro superiore, ma la adempiono sotto la direzione di un direttore laico, purché sia garantita sempre con mezzi adeguati l’identità propria della scuola, che è una cosa da non dare sempre per scontata. Cercando i luoghi e i tempi di lavoro comune occorre trovare simultaneamente e riconoscere sempre le posizioni specifiche, il proprium, per evitare la laicizzazione dei religiosi e la clericalizzazione dei laici. Le responsabilità alle quali religiosi e laici sono chiamati, proprio nello spirito di Educare insieme dovranno essere, per quanto possibile, piene e condivise, anche nei rischi: da quelli educativi a quelli più pratici, tecnici, economici e strutturali.
Il religioso, all’interno di questa missione condivisa, avrà certamente il ruolo di accompagnatore, animatore e ispiratore: tali qualità sono essenziali in vista della condivisione fraterna del lavoro educativo per il Regno. Il compito si fonda, come afferma il documento, su una tradizione spesso secolare dei religiosi nel campo educativo: «Le Fondatrici e i Fondatori hanno posto una particolare attenzione alla formazione dei formatori e ad essa hanno spesso dedicato le energie migliori» (n. 27). Non è un caso che in questi anni ci sia una sorta di riscoperta del carisma dei Fondatori religiosi in un contesto di riflessione, anche non religiosamente connotata, sulla leadership (2).
D’altra parte, però, un rischio evidente è che in alcune opere i religiosi si ritirino del tutto dalle aule, dall’insegnamento, dal «campo» diremmo, per dedicarsi esclusivamente alla gestione organizzativa, alla direzione o anche a compiti di supervisione pedagogica o di puro indirizzo o garanzia. Occorre invece che i religiosi conoscano la scuola ed entrino nel vivo dei rapporti educativi che essa genera al suo interno. Non è sufficiente farlo da supervisori o da custodi, ma è necessario che almeno alcuni religiosi siano impegnati direttamente nell’insegnamento, perché la loro competenza nasca dall’esperienza, dalla pratica, e non semplicemente da riflessioni o da studio. Il religioso non potrà mai essere solamente un tutor esterno, una guida, cioè un catalizzatore di processi che non lo vedono attivo in prima persona. Il rischio sarebbe quello che il religioso perda i contatti con la concretezza della materia e dei processi, non avendo esperienza diretta di insegnamento.
In una sua densa lettera sull’educazione inviata il 21 gennaio scorso alla diocesi e alla città di Roma, Benedetto XVI ha affermato che «anima dell’educazione, come dell’intera vita, può essere soltanto una speranza affidabile». Alla radice della crisi dell’educazione il Pontefice individua proprio «una crisi di fiducia nella vita», che conduce a dubitare «in ultima analisi della bontà della vita». In un contesto storico come l’attuale, dunque, la società sembra gridare l’esigenza di una educazione di alto profilo, capace di comunicare fiducia nella vita. Nella scuola cattolica essa potrà maturare grazie a una reale, per quanto possibile anche concreta e strutturale, condivisione profonda di impegni e responsabilità tra laici e religiosi. Il compito comune è quello che il Pontefice ha definito più volte come «pastorale dell’intelligenza», capace prendere sul serio le domande dei giovani e di aiutarli a trovare delle risposte valide e pertinenti.
 
 
1 Cfr Congregazione per l’Educazione Cattolica, in Oss. Rom., 21 novembre 2007. Il documento reca la data dell’8 settembre 2007.
2 Cfr ad esempio: C. LOWNEY, Leader per vocazione. I princìpi della leadership secondo i gesuiti, Milano, Il Sole-24 Ore, 2005; E. D’ANIELLO, La leadership di Francesco d’Assisi. Formatori e formandi alla scuola di Francesco, Padova, Messaggero, 2005; M. FOLADOR, L’organizzazione perfetta. La Regola di san Benedetto. Una saggezza antica al servizio dell’impresa moderna, Milano, Guerini, 2006.
 
© La Civiltà Cattolica 2008 I 273-277       quaderno 3783
Antonio Spadaro s.i.
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