Laicità e libertà religiosa

Per riflettere sul rapporto tra laicità e libertà religiosa nell'odierna società globalizzata è utile partire da due dati che sono sotto gli occhi di tutti.

Laicità e libertà religiosa

da Teologo Borèl

del 27 gennaio 2009

1. Società plurale e “nuova laicità”

Per riflettere sul rapporto tra laicità e libertà religiosa nell’odierna società globalizzata è utile partire da due dati che sono sotto gli occhi di tutti.

Da un lato, la politica, le pubbliche Istituzioni e lo Stato sono ormai investiti del potere di decidere su temi che, sotto la voce “bioetica”, toccano i fondamenti stessi dell’esistenza umana: la sessualità, la vita e la morte. E questo perché, contrariamente alle profezie diffuse fino agli anni ’80 che pronosticavano la fine del sacro e la nascita di un mondo puramente mondano le concezioni etiche e religiose, che poggiano su principi ritenuti irrinunciabili, sono più che mai presenti ed attive sulla scena pubblica.

D’altro canto, l’odierno processo di globalizzazione e i continui flussi migratori che attraversano il pianeta mettono in contatto masse di persone portatrici di culture, tradizioni e religioni differenti. Siamo sempre più coinvolti in quello che ho chiamato “meticciato di civiltà e culture”. Con questa formula non intendo dire che il meticciato debba essere perseguito come un ideale positivo. Voglio semplicemente descrivere un processo che, come tutti i processi storici, non chiede il permesso di accadere, ma ci domanda la responsabilità di orientarlo alla vita buona, personale e comunitaria. Se mantenuta in questa precisa prospettiva – quella cioè del processo - la categoria di meticciato può, a mio avviso, creare il contesto adeguato per meglio comprendere i concetti di tolleranza, integrazione e reciprocità che da soli non bastano più per spiegare la complessità dei cambiamenti legati al tumultuoso mescolamento di popoli in atto. La risposta al fenomeno non si trova nel multiculturalismo che ha la pretesa di mettere nazionalità, culture e religioni le une affianco alle altre come tante identità isolate e giustapposte. D’altra parte non è bene che i vari soggetti identitari, che convivono nello spazio pubblico di una società plurale, si fondano in una unica, pericolosa, nuova identità sincretistica. Per affrontare questo imponente processo di mescolamento di genti è necessario che tutti i soggetti personali e comunitari contribuiscano ad una vita buona, mediante la reciproca comunicazione e la reciproca testimonianza pubblica dei beni, anche religiosi, di cui sono portatori, nel rispetto della tradizione ma anche con fiducia nella comune appartenenza alla famiglia umana.

Questo processo modificherà la civiltà europea secondo modalità di cui non possiamo stabilire l’esito a priori, ma se affronteremo con prudente perspicacia il processo di meticciato di culture, il cambiamento sarà per il bene comune. Saprà innestare il nuovo sull’antico, come è già avvenuto sia pur in proporzioni ben diverse, in altre epoche della storia. All’origine dell’Europa stessa troviamo il simbolo di Enea, con Anchise sulla spalle e Julo per mano, espressione dell’innesto sul suolo italico della civiltà troiana.

Bioetica da una parte e meticciato di civiltà dall’altra documentano che religioni e mondovisioni hanno una inevitabile rilevanza pubblica. Mettono così in risalto i limiti di una concezione ormai vecchia della laicità e con essa la riflessione filosofica di matrice illuminista, da cui quella concezione è nata e in cui si è approfondita. Essa poggia su un’idea equivoca di neutralità. Infatti, soprattutto in Italia, neutralità non ha tanto significato che lo Stato non deve preferire nessuna particolare visione religiosa o di etica sostantiva del mondo, quanto piuttosto che esso deve neutralizzare ogni loro presenza in ambito pubblico[1]. È inoltre importante rilevare che nel suo progetto di regolazione del pluralismo mediante la neutralità, il pensiero liberale deve fare i conti con un insuperabile paradosso: «Per un verso, infatti, esso si fa araldo di una concezione dei principi sociali e dei diritti umani capace di trascendere e di abbracciare le differenze culturali, per un altro non può non riconoscere la dipendenza di tale concezione da una determinata tradizione storica»[2]. L’illusoria neutralità nel concepire lo spazio pubblico e il riconoscimento dell’inevitabile connessione dell’etica pubblica con i valori espressi dalle singole tradizioni storiche hanno portato alcuni pensatori, quali Habermas, Böckenförde ed in parte Rawls, a formulare un nuovo concetto di laicità, riconsiderando il ruolo delle tradizioni religiose e delle mondovisioni. Ma, se il dibattito internazionale è, almeno in parte, avviato a riconoscere i limiti mostrati dalle “vecchie” proposte di laicità, devo dire che la pubblicistica italiana sembra intestardirsi su schemi che continuano a presentare la laicità come opposizione al religioso e, non di rado, al fatto cristiano.

 

2. Società plurale e libertà religiosa

Se i processi storici in atto ci costringono ad elaborare un nuovo concetto di laicità capace di valorizzare i soggetti sociali che agiscono nella società plurale a partire dalla loro convinzioni più profonde, altrettanto urgente è ripensare la libertà religiosa in tutte le sue dimensioni.

 

a.                     Genesi della libertà religiosa

Essa deve innanzitutto definire un giusto rapporto tra le religioni e lo Stato. Certamente nell’espressione “Stato laico” lo Stato deve essere inteso come istituzione che non si identifica con nessuna delle parti in causa, con le loro identità culturali ed i loro interessi, siano essi religiosi o meno. In questa direzione vanno le parole pronunciate da Benedetto XVI in occasione della sua recente visita all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede: «La Chiesa sia ben consapevole che “alla struttura fondamentale del cristianesimo appartiene la distinzione tra ciò che è di Cesare e ciò che è di Dio, cioè la distinzione tra Stato e Chiesa” (Enc. Deus caritas est, 28). Tale distinzione e tale autonomia non solo la Chiesa le riconosce e rispetta, ma di esse si rallegra, come di un grande progresso dell’umanità e di una condizione fondamentale per la sua stessa libertà e l’adempimento della sua universale missione di salvezza tra tutti i popoli»[3]. Ma lo Stato, da parte sua, deve essere consapevole che, non avendo in suo potere il senso ultimo dell’esistenza umana, non ne è mai il padrone. Tale considerazione, più evidente nella concezione “anglosassone” del sistema dei diritti fondamentali dell’uomo che in quella “continentale”, implica, soprattutto nel caso della libertà religiosa, che essa non ha bisogno di essere istituita dallo Stato, ma soltanto di essere riconosciuta come intrinseca alla persona umana in se stessa e nelle sue espressioni comunitarie, e per questa ragione sostanziale sempre promossa.

 

b.                     Verità / libertà

Affinché la libertà religiosa sia intesa nel suo significato più integrale occorre tuttavia guardare oltre le sue espressioni puramente giuridiche per approfondirne la natura di luogo nel quale si manifesta, in modo particolarmente evidente, il nesso tra verità e libertà.

Il desiderio di infinito che abita il cuore dell’uomo e che non è spento dagli inevitabili limiti che non gli consentono di realizzarlo con le sole sue forze, esprime la sua insopprimibile domanda di significato, cioè, ultimante, di verità. Sant’Agostino ha ben espresso la natura profonda del desiderio con la nota affermazione: «Quid enim fortius desiderat anima quam veritatem?»[4]. La verità è il destino dell’uomo, come in diverse forme continuano ad indicarci le religioni. Ma l’indomabile ricerca della verità comporta un possibile rischio, quello di pretendere di ricavarla solo sulla base di ragionamenti, riducendola così a un sistema formalmente coerente di concetti da applicare, in seconda battuta, alla realtà. La verità però non è anzitutto un insieme di nozioni da tradurre in regole, ma ha a che fare con un incontro vivente e personale[5]. Come mostra l’esperienza elementare della nascita, ogni uomo è “gettato” nella realtà dentro una trama costitutiva di rapporti. L’esperienza dell’in-contro dell’io con la realtà rivela che la realtà è intelligibile e che ogni uomo la può ospitare. La verità fiorisce su questo incontro di tutto l’io con tutta la realtà. Quindi è vivente e personale, come ben sanno i discepoli di Colui che ha affermato: «Io sono la via, la verità e la vita». Così concepita la verità chiama continuamente in causa la libertà di ogni uomo. La Verità stessa, trascendente ed assoluta, domanda per entrare in relazione (per at-testarsi) con l’uomo l’atto della sua decisione. Da Zaccheo alla Samaritana, dagli apostoli a Nicodemo, dal buon ladrone al giovane ricco la Verità può rendere liberi perché chiede la decisione personale. Questa notazione è molto importante nel contesto delle odierne società plurali. In esse infatti è proprio lo spazio aperto da una libertà in ricerca della verità a permettere la comunicazione ed il confronto con l’altro e il perseguimento di un reciproco riconoscimento che valorizzi le differenze. Infatti, una verità priva di libertà darebbe luogo ad uno scontro perpetuo di opposte mondovisione, mentre una libertà svincolata dalla verità si esaurirebbe in un dialogo estenuante ed improduttivo.

La Verità chiama sempre in causa, per sua natura, la libertà. Non si può mai separare l’una dall’altra.

Si capisce allora che la libertà religiosa, così come è stata difesa e promossa dalla Dichiarazione conciliare Dignitatis Humanae, non ha nulla a che fare con l’idea sbagliata che l’uomo possa scegliere a suo piacimento, in un ipotetico supermercato delle religioni, quella che più gli aggrada. Libertà religiosa indica con chiarezza il dovere-diritto di ricercare la verità, ma senza subire costrizioni o impedimenti[6].

 

c.                      L’inevitabile interpretazione culturale delle religioni

Se veramente rispettoso della libertà religiosa, lo Stato, invece di ridurre le religioni e le mondovisioni a puro fatto privato mediante un’idea equivoca di neutralità, deve consentire e promuovere l’edificazione di uno spazio pubblico nel quale le religioni e le diverse mondovisioni abbiano la possibilità di raccontarsi in una narrazione rispettosa in vista di un reciproco riconoscimento. È infatti evidente, come ha ricordato di recente Benedetto XVI[7], che le religioni, essendo strettamente connesse con la concretezza della vita di chi le pratica (il mondo degli affetti, del lavoro, dell’educazione, delle fragilità, della vita civica), sono soggette ad interpretazione culturale. Sorgono così varie interpretazioni culturali delle religioni e mondovisioni, suscettibili di entrare in conflitto tra di loro. Per esempio, in ambito occidentale si confrontano, in questa fase di “post-secolarismo”, varie interpretazioni culturali del Cristianesimo. Due sono quelle dominanti, che io giudico entrambe riduttive. La prima è quella di chi finisce per trattare il cristianesimo solo come una religione civile, che funga da collante sociale per le democrazie europee in affanno. L’altra è quella che tende a considerare il cristianesimo come puro annuncio della Croce di Cristo privandolo di ogni implicazione antropologica, sociale e cosmologica. Un atteggiamento che finisce per negare ogni incidenza pubblica della fede-religione cristiana presentata per giunta sovente come esposta ad ingerenze indebite nella vita civile. Sono solito chiamare questa posizione “cripto-diaspora” perché di fatto genera una dispersione (diaspora) del popolo cristiano che spesso finisce per nascondere (cripto) l’appartenenza a Cristo e alla Chiesa agli occhi dell’umanità assetata di verità. Secondo me nessuna di queste due interpretazioni culturali esprime in maniera adeguata la vera natura del cristianesimo e del suo rapporto col mondo: la prima perché riduce il cristianesimo alla sua dimensione secolare, separandolo dalla forza sorgiva dell’avvenimento personale di Gesù Cristo che vive nella Chiesa; la seconda perché riduce la fede a motivo escatologico privandola del suo peculiare rapporto con il mondo.

C’è però anche una terza interpretazione, che io personalmente sostengo e cerco di perseguire. Essa sta sul crinale della montagna e cerca di evitare di cadere nella doppia riduzione, sia a quella di religione civile, sia a quella di cripto-diaspora. Propone un’interpretazione culturale dell’avvenimento di Gesù Cristo - il Verbum-caro-factum, l’universale concreto - in tutta la sua interezza. Ne mostra il cuore vitale che vive nella fede della Chiesa a beneficio di tutto il popolo, giungendo fino ad individuare tutte le implicazioni, antropologiche, sociali, cosmologiche dei misteri del cristianesimo (Scheeben).

Per fare alcuni esempi: se credo nella vita eterna userò il denaro in una certa maniera. Come? Se credo che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio avrò una certa concezione della dignità umana o del rapporto tra uomo e donna, del matrimonio, della famiglia e della vita. Quali? Se credo che Dio ha creato il mondo e ha affidato il creato all’uomo userò in maniera responsabile i beni della terra. In che modo?

Se non portassi nel pubblico agone queste convinzioni che scaturiscono dal vivere tutte le implicazioni dei misteri della fede, nel rispetto della natura plurale della società e, quindi, delle posizioni altrui, non contribuirei all’edificazione di una vita buona. Coopero all’edificazione di una nuova laicità se propongo la mia visione dei beni spirituali e materiali comuni a tutti gli uomini, non se rinuncio a proporla. Ovviamente lo farò nel rispetto dello stato di diritto proprio delle attuali democrazie costruite su procedure pattuite.

 

3. Persona/comunità e libertà religiosa

Considerate nell’ottica di una corretta interpretazione culturale le religioni rivelano la fallacia del modello di laicità che pretende di offrire loro una plausibilità limitata alla sfera privata della vita, neutralizzandole nello spazio pubblico. Una libertà religiosa rettamente intesa scardina inevitabilmente il drastico quanto irrealistico dualismo pubblico/privato tramandatoci dalla tradizione illuministico-liberale. Con questo intendo dire che alle due sfere pubblico/privato vanno sostituite le due dimensioni di individuo/comunità o persona/società. Jacques Maritain le ha approfondite sul piano della filosofia politica. Gaston Fessard e Hans Urs von Balthasar le hanno scandagliate nel loro valore antropologico che fa da fondamento a quello socio-politico. Ogni persona nasce e vive in relazione e ogni insieme comunitario dev’essere per il compimento della persona. Il rapporto figlio-genitori-fratelli-nonni, e oggi sempre più spesso anche bisnonni, è la forma più elementare di questa insuperabile polarità tra persona e comunità. In ambito socio-politico l’equivoco di considerare pubblico e privato come sfere separate dell’esistenza nasce dalla pretesa di situare da una parte lo Stato come unico interprete della vita pubblica, e dall’altra i singoli individui con tutti i loro interessi, in cui vengono ricomprese le religioni come monadi separate. Invece, come ben sostiene lo storico René Rémond: «Contrariamente a una rappresentazione riduttiva, la relazione tra religione e società non si svolge tutta in un faccia a faccia tra il politico e il religioso. La relazione è triangolare: accanto allo Stato e alla religione, c’è la società che si definisce oggi civile»[8]. Le religioni non devono esprimersi nella società civile in forza di privilegi concessi dallo Stato, ma debbono operare soprattutto attraverso i corpi intermedi - la famiglia, la scuola, il quartiere, le associazioni - che sono i luoghi naturalmente deputati ad ospitare il loro apporto alla società plurale.

D’altra parte, la tensione tra persona e comunità non è estranea né all’esperienza elementare né a quella religiosa dell’uomo. I cristiani, ma anche gli ebrei e i musulmani, sperimentano infatti che la loro fede domanda da un lato il coinvolgimento della loro libertà personale, e dall’altro la loro incorporazione all’interno di un organismo comunitario, la Chiesa, il Popolo, la Umma. Ma, come ben sanno i credenti di queste religioni e, in modo particolare i cristiani, la libertà non viene mutilata bensì esaltata dall’appartenenza ad un corpo, che valorizza la decisività della relazione per il compimento della persona. Come ebbe a scrivere De Lubac nella sua opera magistrale Catholicisme: «Il cattolico non è solo il soggetto (di un potere), egli è membro di un corpo […] la sua sottomissione non è una dimissione. La sua ortodossia non è un conformismo ma una fedeltà»[9].

La possibilità, offerta dal cristianesimo, ma suggerita anche da altre religioni, di valorizzare la polarità costitutiva individuo-società e persona-comunità non può non avere delle ripercussioni positive sulla sfera pubblica e sul rapporto tra Stato e religioni.

 

4. Due urgenze

A mio avviso, in questo particolare e delicato frangente storico sono soprattutto due le sfere in cui la libertà religiosa, intesa come promozione effettiva della partecipazione delle religioni al dibattito pubblico, deve essere pienamente attuata: l’educazione e l’economia.

Per limitarmi al nostro Paese ho parlato in altra sede dell’urgenza di superare, assieme all’identificazione tra pubblico e statale, il mito della scuola di Stato unica[10] così da consentire a tutti i soggetti presenti nella società civile di contribuire, quando che ne sono capaci, all’impresa educativa. Con questo non intendo perorare direttamente la pur importante causa della scuola cattolica. Voglio invece dire che la scuola e le università, in omaggio ad un ben inteso principio di sussidiarietà, possono trovare nelle famiglie ed in altri corpi sociali intermedi tra cui anche i soggetti religiosi attori in grado, a precise condizioni, di far fronte alla grave emergenza educativa di cui ha parlato Benedetto XVI. Con una formula un po’ secca dico che lo Stato, portando fino in fondo i principi della autonomia e della parità scolastica, deve lasciare alla società civile la gestione della scuola per limitarsi a governarla.

Quanto all’economia, anche in questo ambito le religioni possono contribuire al dibattito del tempo presente. Fino ad oggi, nel campo dell’economia e della scienza economica, si sono confrontati modelli esplicativi della realtà che, per dirla semplificando, privilegiano vuoi il ruolo dell’individuo e della sua libera iniziativa (liberismo), vuoi l’organizzazione pianificata della società nel suo complesso (le varie forme di statalismo).

Entrambe queste visioni finiscono per dimenticare la persona riducendola al ruolo di produttore-consumatore. Le religioni possono correggere questo difetto offrendo una concezione integrale dell’uomo, rispettosa delle dimensioni che ne costituiscono l’esperienza elementare (affetti-lavoro-riposo). I temi del capitale umano e del capitale sociale, che gli attori economici cominciano a prendere in considerazione, ne sono conferma. Preziosa in quest’ottica è la dottrina sociale della Chiesa. Essa non nasce infatti come ricetta astratta da applicare alla edificazione di una società cristiana, ma si sviluppa a partire dall’esperienza concreta di comunità cristiane che, guidate dalla luce della Parola di Dio, vivono il loro impegno con la realtà umana e sociale comune a tutti gli uomini. In quanto tale essa può essere proposta come valida per tutti.

 

5. La testimonianza, metodo di azione dei cristiani nella società plurale

Se, come abbiamo visto, è dovere dello Stato quello di rispettare e promuovere l’espressione pubblica delle esperienze religiose, quale criterio deve orientare l’azione dei cristiani, e in generale dei credenti delle altre religioni, in seno alle nostre società? Nel rispondere a questa domanda ritengo vada segnalato un duplice rischio. Da un lato quello di perseguire l’egemonia. Essa utilizza l’ideale, e la cultura che ne deriva, a vantaggio del potere di chi li propugna. Dall’altra la tendenza a non esporsi di persona tipica delle nostre società europee un po’ intorpidite. La via maestra per il cristiano è quella della testimonianza intesa però in senso pieno, quello per cui Gesù, l’Amore oggettivo ed effettivo che dà, innocente, la Sua vita per la salvezza degli uomini, è chiamato nella Scrittura il testimone fedele (Eb 1, 5). In risposta all’egemonia, la testimonianza ci ricorda che la verità va sempre proposta e mai imposta; in risposta alla passiva ignavia, la testimonianza, ad un tempo personale e comunitaria, ci spinge ad offrire ai fratelli uomini di altre religioni e mondovisioni la fede cristiana, passando per l’autoesposizione e il reciproco coinvolgimento.

Il testimone, come ben ci indicano i martiri oggi ancora assai numerosi, non lede il diritto di nessuno. Al contrario semina il bene.

Così ad esempio, per tornare al tema della laicità e della libertà religiosa, se io giudico sana una società basata sulla famiglia concepita come unione stabile tra l’uomo e la donna aperta alla vita, proporrò nel pubblico agone questa visione della società, accettando lealmente il confronto con altre visioni, nel rispetto dei diritti fondamentali di tutti ed utilizzando tutte le procedure costituzionalmente previste. Se mi sottraessi ad una doverosa testimonianza di questo genere, priverei la società civile di un essenziale contributo.

Questa impostazione, che vale anche per gli eventi della nascita e della morte così come per tutti i diritti/doveri fondamentali, ha un peso ancor più rilevante in un’epoca come la nostra di incontro e di mescolamento di popoli e culture di cui ho parlato in apertura del mio intervento.

A tal proposito vorrei dire che la città di Genova e quella di Venezia possono svolgere un ruolo fondamentale. Sappiamo che le loro storie sono segnate dall’incontro con l’Oriente e con il mondo islamico. Certo, in passato quell’incontro era proprio di un’élite ristretta e non riguardava la stragrande maggioranza della popolazione. Oggi invece chiunque può incontrare chiunque, senza filtri né reti di protezione. E questo è potenzialmente un bene perché libera forze impensate, aprendo al contatto con realtà che finora sono vissute ignorandosi a vicenda. Il compito che ci attende è senza dubbio difficile, non sarà privo di grandi prove e di non poche sofferenze, ma la nostra fiducia deve poggiare sulla consapevolezza che la storia in cui siamo immersi non è un’avventura senza senso, né è affidata alle sole nostre povere forze. Essa è ultimamente guidata dal Padre di Colui che ci ha posto nella condizione di essere uomini nuovi. E dove c’è l’uomo nuovo vale ciò che Paolo richiama ai Colossesi: «Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3, 11).

 

 

 

Cattedrale di Genova Mercoledì 21 gennaio 2009

[1] Cfr. F. Botturi, Secolarizzazione e laicità, relazione in occasione della giornata di aggiornamento della Conferenza Episcopale Triveneto, 7-8 gennaio 2007, pro manuscripto, 6.

[2] Id., Pluralismo e libertà, in Libertà, C. Vigna (a cura di) Giustizia e Bene in una società plurale, Vita&Pensiero, Milano 2003, 91-92.

[3] Benedetto XVI, Discorso in occasione della visita all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, 13 dicembre 2008.

[4] Agostino, Tractatus in Io 26, 5: “Che cosa l’anima può desiderare più fortemente della verità?”

[5] Cfr. Benedetto XVI, Deus caritas est 1.

[6] Cfr. N. Lobkowicz, Alcune note sul concetto di libertà religiosa, in

(www.oasiscenter.eu/pages/lobkowicz_amman_08_it.html). Lo stesso testo, parzialmente rimaneggiato e col titolo Il Faraone Amenhotep e la Dignitatis Humanae, è in corso di pubblicazione sul numero 8 della rivista Oasis.

[7] Cfr. Benedetto XVI, Lettera introduttiva in M. Pera, Perché dobbiamo dirci cristiani, Mondatori, Milano 2008.

[8] R. Rémond, Religion et Société en Europe. La sécularisation aux XIX et XX siècles. 1789-2000, Seuil, Paris 2001, 13 (Traduzione nostra).

[9] H. De Lubac, Catholicisme. Les aspects sociaux du dogme, Cerf, Paris 19837, 50 (Traduzione nostra).

[10] Cfr. in particolare A. Scola, Una nuova laicità. Temi per una società plurale, Marsilio, Venezia 2007, 101-102.

card. Angelo Scola

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