Lampedusa un anno dopo. E la spiaggia sta a guardare.

La non conoscenza porta alla diffidenza ed al sospetto, se poi aggiungiamo il pregiudizio è facile trarne le conseguenze: quelli che sbarcano sono un pericolo. Così non è a mio giudizio.

Lampedusa un anno dopo. E la spiaggia sta a guardare.

 

La mattina del 4 ottobre, lunedì, ascoltavo come faccio di solito il radiogiornale delle 6.00. Venivano comunicate le prime scarne notizie sull’ennesima tragedia del mare legata ai drammatici “sbarchi” di chi fugge dai paesi natii per un futuro migliore ed in molti casi per salvaguardare la propria esistenza. Col passare delle ore e dei giorni la vicenda assunse i contorni della tragedia oggi ben nota: 366 vittime, una ventina di dispersi, un centinaio di sopravvissuti. Anche Papa Francesco restò scosso, ne parlò all’Angelus e scelse l’isola di Lampedusa come sua destinazione nel primo viaggio apostolico.

Qualche mese dopo mi trovavo a Palermo, si commemoravano le vittime di Lampedusa con una marcia silenziosa che si snodava per la città passando dalla sede della Prefettura e si concludeva nell’antico porto della città, La Cala, quasi un ideale saluto a chi nel mare aveva trovato la sua tomba.

Altri mesi sono passati, 12, un anno. Quando trascorre un anno, si è soliti tracciare un bilancio. Che bilancio si può tracciare ad un anno dalla strage del 3 ottobre 2013? Di primo acchito verrebbe da dire: “poco o nulla è cambiato”. Anzi altre morti sono state registrate in maniera triste, e non so fino a che punto hanno scosso le menti e le coscienze delle persone, dai politici, agli operatori dell’accoglienza e dei salvataggi, all’uomo della strada. Lasciando a ciascuno di noi di confrontarsi con la propria coscienza, con la propria anima per chi crede in un Dio, voglio fare una breve sintesi di quello che la triste storia del 3 ottobre 2013 ha lasciato in me.

Una prima impressione è un “senso di impotenza”: “C’era qualcosa che potevo fare per salvare almeno una vita?”. Un primo senso di auto giustificazione mi suggerisce che non essendo lì e nemmeno nella “stanza dei bottoni” di qualche ente pubblico, non ci potevo far nulla.

A questa prima impressione ne sovviene un’altra: “C’è qualcosa che posso fare perché vicende simili non avvengano?”. Si, qui c’è qualcosa che posso fare, come uomo, cristiano e salesiano. Un primo pensiero va ai giovani, quelli che intraprendono questi tristi viaggi della speranza sono giovani. Si potrebbe fare qualcosa nei loro paesi per evitare di farli esodare da lì? Questo potrebbe essere fattibile dove la situazione socio-politica appare più tranquilla, non certo dove l’appartenenza a etnie diverse è motivo di persecuzione e di morte. Per questi che arrivano da noi e che si orientano a restare nella nostra Nazione andrebbero pensati e realizzati percorsi educativi che conducano alla valorizzazione delle loro capacità e ad una progressiva integrazione.

Ma ci sono anche i giovani “italiani”, quelli che frequentano le nostre opere, oratori, scuole, parrocchie, centri di formazione professionale. Che fare con questi? Parlare, parlare delle cause che conducono a tragedie come Lampedusa. Far notare quanto sono fortunati a non dover fuggire dalla propria terra per mantenere salva la vita. Chiedere a loro, dove possibile, uno slancio di solidarietà nel trovare modalità di aiutare chi arriva a sentirsi a casa. Bastano anche gesti semplici ma costanti. Non serve solo dare una offerta in denaro o generi di prima necessità, troppo facile, troppo poco. Serve “stare accanto”, condividere, anche per poche ore, aiutare ad esempio nell’apprendimento della lingua Italiana, aiutarli a studiare, giocare anche una partita di calcetto con loro, e non contro.

Bisogna conoscere quello che accade in “casa nostra”. La non conoscenza porta alla diffidenza ed al sospetto, se poi aggiungiamo il pregiudizio è facile trarne le conseguenze: quelli che sbarcano sono un pericolo. Così non è a mio giudizio.

A distanza di un anno da quel 3 ottobre 2013 ecco cosa mi viene da dire. Certo dire le cose non basta, rischiamo di fare “aria fritta” che serve a poco. In un anno come Federazione SCS- CNOS abbiamo provato ad abbozzare qualche passo, a dare qualche risposta, come farebbe don Bosco. Abbiamo unito le forze costituendo una sinergia con il VIS e con il VIDES, l’altra ONG che si occupa di cooperazione allo sviluppo e che fa capo alle Figlie di Maria Ausiliatrice.

Don Bosco iniziò l’opera degli Oratori accogliendo un giovane orfano dell’astigiano, Bartolomeo Garelli. Oggi i Minori Stranieri Non Accompagnati che giungono sul suolo italiano sono un po’ come quel Bartolomeo Garelli di oltre 150 anni fa, un adolescente nella Torino in piena espansione alla ricerca di una vita migliore. Come salesiani, consacrati e laici, siamo chiamati a dire ancora una volta “sai fischiare?” ed iniziare un cammino verso la riscoperta di una dignità che trafficanti e e gente senza scrupolo hanno calpestato. Non possiamo correre ancora il rischio di fare come la sabbia della splendida spiaggia lampedusana: restare a guardare con la macabra opportunità di accogliere sul bagnasciuga qualche corpo senza vita salpato con la speranza di migliorare la propria esistenza. 

 

 

don Giovanni D'Andrea

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